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Autore: chrysalism_jess    26/10/2019    0 recensioni
Eddie è un ragazzo ventunenne che cerca disperatamente un senso di vivere, ma non ha paura di morire cosi che appunto sfida la morte provando a uccidersi, Eddie si risveglia però in una clinica psichiatra dove il padre lo convince a restarci, fu lì che Eddie incontra Chloè, una ragazza con problemi alimentali, che come Eddie si è arresa alla vita, non sapendo più dove aggrapparsi, pensando che la felicità non potrà mai esistere. i due si avvicinano in poco tempo ed è quando Eddie scopre che Choè non ha mai visto l’oceano che decide di organizzare una fuga, una fuga accompagnata a una lista, a dieci piccoli desideri da fare una volta fuori da li.
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 1.
8 aprile 2018
 
Volevo disperatamente qualcosa di vero, niente sembrava vero. Avevo solo bisogno di aria.
 
Quel pomeriggio pioveva a dirotto, mio padre era uscito da poco e io pensai che non sarebbe più tornato. O almeno, sarebbe tornato solo quando io ero già morto.
Prima di arrivare al bagno con i flaconi di pastiglie in mano e fissarmi nello specchio con le lacrime agli occhi, avevo riordinato la mia stanza, avevo asciugato i piatti, portato fuori il cane, messo sul letto il vestito che pensavo di indossare nella mia bara e mi ero fatto una doccia.
Avevo pensato alle varie possibilità di farlo - togliermi la vita intendo - ma le altre non mi sembravano appropriate. Non volevo qualcosa di teatrale e commovente.
Avevo lasciato perdere il tagliarmi le vene, anche se ci avevo provato più volte: non andavo troppo in profondità per morire dissanguato perché la vista del sangue mi faceva venire le vertigini e mi disturbava parecchio, quindi alla fine mi ero ritrovato con le braccia piene di taglietti e avevo dato la colpa al gatto del vicino. Avevo pure lasciato perdere l’impiccagione perché: uno, non sapevo proprio dove appendermi via; due, avrei sofferto troppo e non volevo un collo rotto e una faccia blu. Non potevo spararmi, non avevo un’arma né una buona scusa per comprarne una, e comunque neanche un buco in testa mi sarebbe piaciuto. Non volevo buttarmi giù da un palazzo, perché non sapevo se una volta sopra il cornicione mi fossi davvero buttato di sotto.
Decisi che avrei tentato un overdose: avevo le pasticche, quelle che mi aveva dato lo psicologo. Così magari avrebbero avuto anche qualcuno da incolpare, no?
Ne avevo scelte: quattro - per colmare  la mia tristezza; due - per l’ansia; tre – Valium; e qualche altra pastiglia per dormire. Forse erano troppe? Non ci pensavo manco più a quante pastiglie bastavano per uccidermi da tanto tempo. Bastava morire, in qualche modo.
Sospirai fissandomi allo specchio, i miei capelli bagnati gocciolavano. Presi della vodka per buttare giù il tutto.
Le due pastiglie per l’ansia finirono subito nel mio stomaco. Altri due sorsi e le quattro pastiglie fecero compagnia alle altre. Altri tre, quattro sorsi e via le pastiglie del Valium.
Tossii piano e mi venne da rigettarle. Ebbi forti conati di vomito, un po’ perché la vodka mi faceva schifo, un po’ perché non sapevo se ce l’avessi fatta a buttare giù tutto.
Mi sentii un po’ stordito e mi aggrappai al lavandino per non finire a terra, dove ci finì il flacone del valium e le pastiglie azzurro chiaro si sparsero sul pavimento color catrame. Mi voltai di scatto e feci cadere anche il flacone del Laroxyl: era vuoto, e mi chiesi quand’è che erano finite?
Bevvi altri sorsi di vodka.
Vagai in cerca dell’uscita del bagno, la testa girava, il mio cervello stava andando in fumo, sentii un grande mal di testa poi non sentii più nulla se non lo schianto della bottiglia. Barcollai, mi aggrappai al corrimano ma le gambe mi cedettero al primo gradino e ruzzolai giù per le scale fino alla fine.
Scoppiai a ridere. Non so perché ma tutto quello mi faceva ridere.
Per tutta la vita avevo desiderato di essere libero, solo che… non sapevo mai come. Ora avevo trovato una via di fuga da questo mondo di sofferenze che mi dilaniava dentro, che scavava sempre più a fondo, cercando di divorarmi. E alla fine ce l’aveva fatta a divorarmi, pezzo dopo pezzo. La mia anima era un buco nero, il mio cuore era distrutto, il mio corpo pieno di sofferenze, niente aveva più senso.
L’uccellino stava uscendo dalla gabbia dove era stato imprigionato.
Era finalmente libero? Potevo volare  via?
 
Un attimo dopo sentii mio padre dire: «Ed, ho dimenticato l’ombrello, fuori piove…» Lo sentii chiamare di nuovo il mio nome, lo sentii urlare: «Cristo santo…» Lo sentii bestemmiare, commentare: «Guarda che idiota.» Lo sentii sbuffare mentre premeva la mano sul mio collo e poi lo sentii chiamare qualcuno al telefono.
Non risi più. I miei occhi lo fissavano ma non lo vedevo bene, poi mi aprì la bocca facendo forza con le dita, quelle sue dita rugose mi finirono in gola e io vomitai. Vomitai la mia tristezza e la mia ansia e infine persi i sensi.
Ero morto?
Lo speravo.
 
Ma il meteo invece aveva deciso che mio padre doveva tornare a casa e salvarmi la vita.
Quindi no, non ero morto. E ben presto venni trasferito in prigione – la clinica – dove: o sarei morto, oppure, come dicevano i medici, sarei uscito nuovo e lucente con la testa a posto.
 
 
Restai seduto nella sala d’aspetto della clinica attendendo che mi dessero una camera per il ricovero. Attendevo che qualcuno uscisse per dirmi qualcosa ma non accadeva nulla da un po’. Ero lì a fissarmi i piedi mentre torturavo i lacci della felpa con le mani.
Alzai il viso sbuffando e fissai la porta chiusa dietro la quale mio padre era entrato a parlare con il dottore: era lì dentro da così tanto tempo che speravo quasi che fosse mio padre ad essere ricoverato al mio posto.
Quando uscirono, il dottore si tolse gli occhiali e finì di dire a mio padre qualcosa del tipo: «Non si preoccupi, è in buone mani.»
Quella fu la conferma che no, non sarei tornato a casa, né ora né nei giorni successivi, probabilmente ero destinato a rimanere lì fino alla fine dei tempi.
Il dottore mi sorrise come si sorrideva a un bambino. «Sono il dottor Charles McGorry e sono il capo dell’istituto psichiatrico» mi comunicò.
Deglutii. Chi aveva deciso che mi sarei fermato? Chi aveva firmato al mio posto? Se eri maggiorenne avevi dei diritti, no?
«Devi firmare delle carte Ed» disse mio padre. Ah ecco, pensai. «Per il permesso volontario.»
Inarcai un sopraciglio. Avrei voluto urlargli contro chi si credeva di essere per decidere che cosa dovevo fare. Chi si credeva di essere per spedirmi lì dentro? Avrei voluto dire ad entrambi che non avevo intenzione di rimanere lì un minuto in più. Avrei voluto alzarmi, spaccare ogni cosa, urlare, ricevere occhiate storte e tornarmene a casa.  Ma, per qualche strana ragione, in quell’istante annuii.
In silenzio, mi misero di fronte delle carte che io firmai. Non dissi manco una parola e mio padre rimase rigido tutto il tempo, nella speranza che non tralasciassi una sola firma.
Era questo che volevi papà? Sbarazzarti di me una volta per tutte? Ci eri riuscito.
Una volta usciti dalla stanza, mio padre mi fissò, mettendomi una mano sulla spalla. «Allora Eddie… ci vediamo tra qualche settimana, per la visita dei genitori.»
Lo guardai, inarcai un sopraciglio poi, serio, gli dissi: «Per me puoi anche non venire.» Indietreggiai di  qualche passo e la mano di lui scivolò giù dalla mia spalla. «In fondo, chissenefrega di me, no?»
Lui sbuffò alzando gli occhi al cielo. «Edward, non cominciare. Lo sai che…»
Risi. «Certo papà, come no.» Mi voltai. «Arrivederci» gli dissi, sperando di non rivederlo mai più.
Perché ormai avevo deciso. Ormai ci speravo: o sarei rimasto lì dentro per sempre o avrei tentato di uccidermi ancora. In ogni caso, non volevo più rivedere la faccia di cazzo di mio padre.
 
 
  
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