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Autore: Kira Eyler    30/10/2019    3 recensioni
[Raccolta di OS riunite in un unico capitolo] [Song-fic]
[OC]
La scomparsa di qualcuno di importante lascia sempre un vuoto incolmabile e una gran tristezza. Se poi chi sparisce lo fa all'improvviso, senza alcun apparente motivo e senza che si possa fare qualcosa per impedirlo, quella tristezza può trasformarsi in disperazione.
E se chi sparisce era uno dei pilastri che ci faceva restare in piedi, si è prossimi ad un crollo.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'ἄπειρον '
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Leggere le note a fine storia!

Shoganai

Where did you go?
I should know, but it’s cold and
I don’t wanna be lonely
So show me the way home.
I can’t lose another life.
 
Al Mostro si mozzò il fiato; i polmoni, visibili da alcune aperture sul petto, smisero totalmente di muoversi al pari di tutto il resto del suo corpo. Tacito, senza respiro e quasi come se non avesse più un barlume di vita restò in piedi sull’erba verde, decorata da spruzzi e striature scarlatte, e guardò con occhi vacui il corpo della donna, una Kitsune, davanti a lui, riversa di pancia sul terreno.
La donna aveva una lancia tra le scapole e il Mostro le si avvicinò per rimuoverla con un colpo secco, gettandola poi via. Notò che di code ne aveva otto, non più nove: la nona era stata strappata via1, buttata chissà dove, e la sua hoshi no tama2 era in frantumi sull’erba.
Si chinò accanto a lei, la spostò a pancia in su e le carezzò il viso pallido con un dito ossuto. Non versò una lacrima.
La Kitsune aveva un’espressione serena, un sorriso accennato: se non avesse avuto un taglio alla gola, sarebbe parsa dormiente.
Il sangue era agli angoli delle labbra, ma era colato fino al mento e le aveva macchiato la guancia che ora il Mostro carezzava; fuoriusciva ancora dalla ferita sulla gola scivolando sul petto, tra i seni pieni, fin sul ventre tondo. Il sangue copriva la sua intimità, macchiava l’interno coscia, raggiungeva i polpacci. Il sangue era sotto di lei e una lunga scia che portava lontano fece credere al Mostro che si fosse spostata strisciando, prima che la linfa vitale avesse smesso di alimentare il suo corpo.
Il Mostro alzò la testa per guardarsi attorno: altre Kitsune osservavano la patetica scena, chi in forma animale e chi da mezzo umano. Rispettosi, non proferirono alcuna parola e quando incrociarono lo sguardo dell’oscura presenza che aveva invaso il loro mondo, indietreggiarono e chinarono il capo.
Non pianse, lui, ma il dolore si trasformò in rabbia e questa fu incontenibile: una perturbazione smosse l’aria, e i fili d’erba e le chiome degli alberi si inchinarono. Nessuno si accorse della prima fiamma finché non arrivarono le sue sorelle, più grosse e potenti, a ingoiare tutto ciò che capitò loro a tiro.
Tutti urlarono, guairono. Lui restò muto, urlò dentro di sé e le fiamme aumentarono finché l’unica zona a non essere toccata da esse fu quella dove vi erano lui, il corpo dell’amata e il suo sangue. E dal sangue sbocciarono fiori, fiori rossi, che respirarono il fumo e le grida e il dolore altrui.
Il Mostro prese una mano di lei tra le sue, chiuse gli occhi e chinò il capo. Era gelida.
«Ti troverò, in questa vita o nell’altra...» sussurrò, sperando che le sue parole arrivassero alla donna ovunque ella fosse «... ma tu dimmi come fare. Non puoi lasciarmi solo proprio quando avevo trovato casa».
Le lasciò la mano e la adagiò sul suo ventre., dopodiché sollevò la testa e aprì gli occhi per guardare il cielo grigio, intriso di fumo nerastro. Incobeva su di lui come se volesse rimproverarlo, austero, mentre le fiamme danzavano aggrazziate e indisturbate, fameliche e distruttive attorno a lui; poi capì il perché di quel rimprovero celeste: aveva fallito la sua più importante missione.
Non aveva difeso la sua amata e adesso era lì a guardare il suo cadavere, ma il suo fallimento con consisteva solo in questo, perché la Kitsune era incinta e il corpo del loro bambino non c’era. Aveva perso anche lui.
 
Where did you go?
I should know, but it’s cold and
I don’t wanna be lonely
So tell me you’ll come home…
… even if it’s just a lie.
 
Grida maschili e femminili si alternavano in una macabra, confusionaria danza; una lotta dove alla fine, a prevalere, era chi alzava prima le mani.
Eiji desiderò tapparsi le orecchie, ma trovò più comodo mordersi le unghie mentre osservava il fratello fare le valigie. Non si parlarono, nessuno incrociò lo sguardo dell’altro nemmeno per un momento: in camera stavano in due, eppure sembrava che ce ne fosse uno solo perché Koito ignorava la presenza del fratello minore e quest’ultimo aveva troppa paura di dire “Guardami, ci sono, sono qui con te”.
Tonfi pesanti fecero strizzare gli occhi a Eiji. Desiderò gridare a sua volta per far cessare quel fracasso e quell’odio, ma la ferita lasciata dalla morte della loro sorella era ancora aperta e sarebbe stato, quindi, tutto vano; nessuno si stava curando, tutti stavano accusando tutti. L’aria era tesa, risultò quasi difficile respirare.
Koito mise uno zaino traboccante di oggetti in spalla, poi afferrò la valigia e un trolley già riempito precedentemente. Solo a quel punto guardò Eiji, in piedi davanti alla porta chiusa, che distolse subito lo sguardo abbassando la testa.
«Spostati, forza, prima che i vicini allertino i carabinieri», lo incalzò e forzò un sorriso. Sperò di restare il solito Koito spiritoso e sorridente fino all’ultimo.
Eiji negò col capo. «Li allertassero pure,» rispose con gli occhi fissi sul pavimento, «visto che sono sicuro che se mi spostassi, tu andresti via».
Koito sospirò e le labbra si piegarono all’ingiù. Provò a spiegare al minore il motivo di quella scelta, ma solo una frase riuscì a venire fuori dalle sue labbra: «Non ce la faccio a restare qui».
«E io? Io ce la faccio, secondo te?» Eiji sollevò la testa prima con titubanza, poi con decisione. Guardò l’altro e si obbligò a ridere; fu una risata nervosa, irata, a tratti sinistra. «Lo vedi che sei il solito egoista?»
Koito trattenne il fiato, storse le labbra in una smorfia di disappunto e strinse i pugni sugli oggetti che teneva tra le mani. Non seppe ribattere a quell’accusa: era per davvero un egoista?
Come se gli avesse letto nel pensiero, Eiji sputò fuori altro odio: «Prima uccidi nostra sorella e poi mi lasci qui con due genitori super stressati che, se potessero, si ucciderebbero a vicenda, solo perché quella tua stupida amica ti ha proposto di vivere con lei».
Questa volta gli venne da ridere in modo spontaneo, ma il cuore prese a battere forte e le lacrime arrivarono ben presto agli occhi: non voleva dire quelle cose, fu la rabbia a parlare per lui. O il dolore mal espresso.
«Ma ti ascolti quando parli, Eiji?» fece Koito, con calma glaciale, e l’interessato si sentì morire. «Non l’ho uccisa io, nostra sorella, e finché tu e quei due non ve lo metterete in testa, non tornerò più qui».
Eiji si morse l’interno guancia e non replicò, troppo orgoglioso per chiedere anche scusa e troppo ansioso per dire che in quel momento più che mai aveva solo bisogno di lui, che non voleva vederlo andare via e sparire perché aveva bisogno della sua protezione e del suo sopporto. Perché erano fratelli e si erano promessi che sarebbero stati insieme per tutta la vita, nel bene e nel male.
Tutto distrutto. Il ritratto della famiglia felice era stato strappato e i pezzi accartocciati senza alcun preavviso.
Si spostò dalla porta e Koito uscì. Non si guardò indietro e lui non lo rincorse come avrebbe voluto: restò con la schiena poggiata alla parete immaginando di abbracciarlo e udì lo scambio di insulti al piano di sotto. Dopodiché una porta si chiuse e quel rumore, che risuonò stranamente più forte degli altri, fece scattare qualcosa in Eiji.
Represse il suo orgoglio e si fiondò fuori dalla camera, giù per le scale, infine in strada. Guardò a destra e a sinistra, ansimante, sperando di vederlo... e lo vide, ma in un’auto che si stava appena allontanando. La inseguì urlando il nome del fratello, delle lacrime gli percorsero le guance e si infransero nell’aria durante la sua corsa sfrenata.
Inutile il fiato sprecato: la perse di vista dopo pochi metri e fu costretto a fermarsi. Raccolse le ultime forze per gridare ciò che avrebbe voluto dirgli e che si era tenuto dentro per codardia: «Promettimi che tornerai!»
“Anche se so che non lo farai”.
 
Where did you go?
I should know, but it’s cold and
I don’t wanna be lonely
Was hoping you’d come.
I don’t care if it’s a lie.
 
«È un’ingiustizia! Loro fanno casini e io devo mettere a posto. È sempre stato così, per ogni cosa!»
Emi si fermò sulla soglia della porta e curiosa osservò all’interno della stanza: vide Ai, unica dodicenne della struttura che le ospitava, fare avanti e indietro dal letto su cui vi erano sistemati dei vestiti a dei comodini lasciati aperti, e nel mentre parlava da sola, a voce alta, disperata e innervosita.
A un certo punto Ai andò a sbattere contro qualcosa. La bimba non vide contro cosa, ma la sentì lanciare un mezzo grido e poi urlare una parolaccia.
«Non si dice», l’ammonì allora, atteggiandosi ad adulta.
Ai la fissò. Per la prima volta in quella giornata i loro occhi si incrociarono, ma quelli della maggiore parvero diversi ad Emi.
«Tu non puoi dirlo, io sì», ribatté furiosa.
«Perché?»
«Perché io sono grande e tu sei piccola e le regole lo vietano a te, non a me».
Emi si mise a braccia conserte. In qualche modo, non si fece intimorire dallo sguardo austero di Ai e fu catturata dalla voglia di avere una spiegazione, una risposta, meno assurda di quella frase: «Perché?»
Il labbro inferiore di Ai tremò. Raggiunse la bambina, si inginocchiò per guardarla meglio negli occhi e la scosse per le spalle, facendole strabuzzare gli occhi per la sorpresa; con la voce tremante, ma squillante, le gridò: «Perché sì. Smettila con questi perché. Alcuni “perché” sono “perché sì”, è stato deciso e basta e devi obbedire e muta. Che cazzo! Vuoi capirlo!?»
Emi non rispose. Per la prima volta, Ai le fece paura: non era abituata a vederla in quel modo e a sentirla urlare contro di lei, poiché fin da quando era arrivata l’aveva sempre trattata con gentilezza e tanto affetto. L’aveva trattata come una principessa. Non seppe cosa rispondere e come risponderle.
Poi Ai mutò totalmente: la strinsé a sé in un forte abbraccio, premette le labbra sulla sua testa e scossa da violenti tremorii, cominciò a soffocare singhiozzi e a lacrimare. Le sussurrò un miliardo di volte scusa e non osò sciogliere quell’abbraccio.
Emi lo ricambiò  qualche minuto dopo, scombussolata. Pensò che Ai le stesse chiedendo scusa perché credeva che fosse arrabbiata con lei, quando, in realtà, non si era arrabbiata per quelle urla: ci era solo rimasta male. Ma gli abbracci di Ai le piacevano: adorava il suo profumo che sapeva di fragole e adorava il calore in cui l’avvolgeva, che assomigliava a quello della mamma – assomigliava, dato che il calore della mamma era ineuguagliabile; pertanto non le disse che aveva accettato le scuse e si lasciò coccolare per altri minuti. Sperò solo che smettesse di piangere.
Passarono settimane ed Ai era sempre più strana: non l’abbracciava più come prima, non le sorrideva più spesso e non si fermava più ad inventare storie con lei dopo la scuola. Ed era perennemente arrabbiata, nervosa. Spariva per ore, si chiudeva nella sua camera e quando usciva sembrava costantemente alla ricerca di qualcosa che non riusciva a trovare; sembrava persa. A volte dimenticava persino di mangiare. Ma Emi le voleva bene comunque.
Arrivò un giorno: Emi tornò a casa ed Ai non c’era, nonostante tutti i suoi vestiti e le sue cose fossero nella sua stanza. L’attese fino a sera, poi chiese dove fosse finita agli altri e alla signora della casa.
«È andata via», fu quello che ricevette come risposta.
«Ma verrà a trovarmi?» Non volle comprendere il vero significato di quella frase. «Ai non mi lascia da sola. Mi ha promesso di non lasciarmi mai mai».
La donna fece spallucce, poi le disse di sì. Un contentino che Emi accolse come una risposta veritiera.
E l’attese ancora.
Ma passarono mesi e Ai non tornò e le sue cose sparirono piano piano. Emi lasciò che buttassero via i vestiti della ragazza, i suoi quaderni, i suoi oggetti più cari; lasciò che dessero la sua stanza a qualcun altro. Perché era arrabbiata, non con Ai, ma con la sua assenza che le aveva svuotato il petto, offuscato la mente e riempito gli occhi di lacrime, e che aveva concesso al gelo di abbracciarla e ai mostri di prenderla.
Era sparita anche Ai come i suoi genitori, senza che lei potesse impedirlo o prevederlo.
Quella notte scoppiò a piovere e lei fu di nuovo davanti alla finestra con la speranza di veder comparire Ai. Restò sveglia per ore finché le palpebre non cominciarono ad appesantirsi e le gambe a cedere, prive di forze. Quando le fu chiaro che non sarebbe venuta nemmeno quella notte, nascose il viso tra le braccia e si abbandonò a un pianto disperato.
Uno spiffero gelido che penetrò dalla finestra la fece rabbrividire.
“Vorrei solo un ultimo abbraccio”, pensò tra le lacrime. “Vorrei solo capire perché mi lasciate tutti quanti”.

Angolo autrice:
Salve bella gente! Oggi vi uccido con tre aggiornamenti perché dovevo liberare il pc da cose scritte durante questi mesi. Insomma, non mi entusiasmano particolarmente, però non ce la facevo a cancellarle perché questi personaggi sono pur sempre una parte di me: potete fare tutte le recensioni critiche che volete, è una storia senza grandi pretese.
Ma iniziamo con le spiegazioni:
-1: si dice che una delle nove code delle Kitsune è anche quella che la tiene in vita, quindi strappando la giusta coda si può ucciderla;
-2: la Hoshi-no-Tama (sfera della stella) è una sfera con cui vengono sempre raffigurate le Kitsune Inari, le volpi benevoli. Dentro la sfera c'è tutto il loro potere.
-Tutte e tre le scene raccontano di personaggi diversi: la prima riguarda due OCs particolari, per i quali non mi dilungherò; la seconda scena riguarda Koito ed Eiji, due fratelli, i cui genitori iniziano a litigare in modo violento dopo la morte della loro figlia e accusano (per ovvi motivi, però) il figlio maggiore (Koito) di averla uccisa, fino a costringerlo ad allontanarsi di casa; la terza scena riguarda Emi e una ragazza chiamata Ai, una bambina e una ragazza che vivono in un orfanotrofio. Senza troppi giri di parole, Ai è stata arrestata per certi motivi, ma Emi resterà fino alla pre-adolescenza con l'idea che lei l'abbia abbandonata di sua volontà.
-Tutti i personaggi appartengono al motivo per cui gli aggiornamenti sul sito sono rari: sto scrivendo un libro. Uno di quelli che, un giorno, si spera si compri nelle librerie. Tra esperimenti, esercizi di scrittura e stesura del libro (sono a duecentoottanta pagine, comunque :P), sono stata e sono impegnata.
-La canzone è Ilomilo di Billie Eilish! Ho preso solo i ritornelli.
Se avete altre domande, scrivete nelle recensioni. Se avete critiche, fatele pure! Io vi ringrazio per il supporto, per le letture e per tutto quello che fate.

-Kira.
   
 
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