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Autore: chrysalism_jess    02/11/2019    0 recensioni
Eddie è un ragazzo ventunenne che cerca disperatamente un senso di vivere, ma non ha paura di morire cosi che appunto sfida la morte provando a uccidersi, Eddie si risveglia però in una clinica psichiatra dove il padre lo convince a restarci, fu lì che Eddie incontra Chloè, una ragazza con problemi alimentali, che come Eddie si è arresa alla vita, non sapendo più dove aggrapparsi, pensando che la felicità non potrà mai esistere. i due si avvicinano in poco tempo ed è quando Eddie scopre che Choè non ha mai visto l’oceano che decide di organizzare una fuga, una fuga accompagnata a una lista, a dieci piccoli desideri da fare una volta fuori da li.
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Erano passati sei giorni, sette ore e dodici minuti dal mio ricovero. Era venerdì ed ero nello studio della mia nuova psicologa - niente più dottoressa Gwen, lei aveva abbandonato; non che avesse fatto molto. Sì, non era la prima volta che mi ritrovavo seduto su una sedia nera, di fronte a una scrivania dietro la quale c’era uno psicologo che mi osservava come se fossi un animale da circo, ci ero già passato, non era una novità per me. Dopo la morte di mia madre, mio padre decise con sua sorella che dovevo andare in cure e mi portò da questa Gwen che mi studiò attentamente: parla, diceva. Come stai oggi Edward? chiedeva; cose a cui non volevo rispondere. Non ci ho mai rivolto parola, se non quella volta che mi disse: secondo me ti senti in colpa per la morte di tua madre. È così, Ed? Quella volta la mandai a farsi fottere e lei mi diede delle pastiglie per calmare la mia rabbia. Decise che ero triste, che ero depresso, quindi prescrisse una valanga di pasticche da prendere ogni due, tre o quattro ore. Mio padre ne fu felice e dopo poco cominciò a evitare l’argomento ed io mi chiusi sempre più in me stesso. Infine decisi che dovevo morire. Comunque, ora, la psicologa che avevo davanti era la dottoressa Jane Markey e se ne stava lì a fissarmi in attesa che io parlassi. Io non avevo proprio alcuna intenzione di parlare. Ero seduto comodamente sulla poltrona, stringendo i braccioli con le mani e di tanto in tanto fissavo l’orologio da parete alle sue spalle, che però sembrava immobile, sempre a segnare le 15:08. Non arrivava mai alle 15:10, rimaneva sulle 15:08 come se il tempo si fosse fastidiosamente fermato. «È qui da sei giorni Craing» disse lei attirando la mia attenzione. La osservai per un attimo, poi tornai a fissare l’orologio: 09! Era scattato finalmente. «Non le va di parlare?» mi chiese. Alzai le spalle e sprofondai nella poltrona accavallando le gambe: era un no. E lo sarebbe sempre stato. «Molto bene» disse allora lei scrivendo qualcosa sul quaderno. Scrisse a lungo e allora io mi alzai a sedere, sporgendomi un pochino nella speranza di leggere qualcosa. Riuscii solo a scorgere: “il paziente non vuole…” poi lei chiuse il taccuino e vidi sopra un post-it con il mio nome. La dottoressa Markey si schiarì la voce. «Tra poco può andare» disse dando un’occhiata al timer sulla scrivania. «Se si annoia, può disegnare» suggerì in tono dolce. Inarcai un sopraciglio. Per chi mi aveva preso, per un bambino forse? Quando scattarono le 15:15, il timer suonò e io mi alzai di scatto. «Aspetti» mi fermò lei accomodandosi gli occhiali sul naso. Perché gli psicologi avevano sempre gli occhiali? «Se continua così, signor Craing, dovrà rimanere qua per molto tempo, lo sa vero? Non potremo fare molto e…» «Lo so» la anticipai. «Mi chiami Eddie. “Signor Craing” lo chiamano mio padre. Mi sa di vecchio.» Lei chiuse la bocca e mi sorrise. «Va bene.» Erano sei giorni, dodici ore e diciotto minuti che non parlavo, e ora avevo detto le mie prime parole: la gola era così secca che sembrava non parlassi da anni. Per andare nella mia stanza dovevo passare per un lungo corridoio, girare a destra, passare due stanze a me sconosciute, l’ufficio di uno psicologo piccolo, magro, pelato, con degli strani baffetti; dovevo passare per la stanza della ricreazione, per la sala giochi, girare e attraversare la sala mensa, svoltare nel corridoio di sinistra, oltre la porta del bagno e le stanze numero 44 e 46. La mia era la 48. Ci entrai, lasciando la porta aperta perché non potevo chiuderla. La stanza era piccola, le pareti erano bianche, avevo un armadio, un letto e una scrivania. Alle finestre c’erano le sbarre perché altrimenti ti buttavi giù; le luci erano al neon fissate al soffitto, per cui non potevi appenderti; il letto era in legno, senza viti con cui potevi tagliarti. Era tutto così noioso. Mi sdraiai sul letto fissando il soffitto e mi concentrai sul rumore: lì dentro ce n’erano tantissimi. Urla, per lo più, lamenti, frasi senza senso e, se qualcuno iniziava a piangere c’era chi sbraitava, chi aveva crisi di panico, chi cercava di farsi del male e i dottori dovevano correre. Ma c’era anche chi sembrava a posto, o più normale di altri. C’era Ben. Non so come ma in qualsiasi clinica psichiatrica c’era sempre un Ben; forse Ben era un nome da psicopatico. Questo Ben, però, era normale e silenzioso. Se ne stava sempre da solo, ti fissava da lontano, indossava una felpa senza lacci nera ed era un tipo triste. Era a posto. Se non fosse che ogni volta che mi avvicinassi mi fulminava e poi se la filava, avremmo potuto essere amici. C’era Pablo: uno asiatico - o forse spagnolo considerando il nome - che aveva gli occhi scuri a mandorla e i capelli neri. Anche lui, tralasciando la sua filosofia e il suo parlare da solo, era un tipo ok. Alle sedute di gruppo del pomeriggio era quello che faceva perdere più tempo perché parlava dei suoi sogni e faceva ridere tutti. C’era Vanessa, che aveva solo quindici anni ed era già ricoverata in quella merda. Vanessa era timida e non parlava molto, ma faceva dei disegni mozzafiato e sì, anche con lei potevo andare d’accordo. Poi c’erano Maikol e Caleb, anche loro ok - nonostante Caleb fosse lì dentro per droga, quindi non un bravo ragazzo. Maikol, invece, di notte aveva gli incubi e non mi faceva dormire molto. Malgrado ciò, li avevo selezionati come tipi a posto, che non sfollavano tanto, che stavano sulle loro e non urlavano se li fissavi, non piangevano se li toccavi, non si buttavano per terra. Non facevano i matti, ecco. Erano ragazzi normali ma rotti. Perché lì dentro non ci stavi se stavi bene, se eri completo, se non eri diverso, rotto. Sospirai. «Non esci? Oggi c’è il sole.» Parlando di tipi ok, c’era lui: Jared. Jared Frank Miller, la guardia, la mia guardia preferita, nel mio reparto perlomeno. Jared era simpatico e aveva poco più di trent’anni. Parlava molto di cose sue e mi faceva passare il tempo. Era uno che dovevi avere come amico: di tanto in tanto, di notte, lo sentivi cantare per calmare i pazienti. A volte mi ci addormentavo con la sua voce. Ora se ne stava lì sull’uscio a fissarmi. Io mi alzai a sedere. «Non ne ho così tanta voglia» gli risposi, «Vuoi una fetta di torta al cioccolato? Sono per quelli del disturbo alimentare, però posso portartela di nascosto, se vuoi.» Risi e scossi la testa. Perché chi non vuole mangiare ha sempre le cose più buone? «Una sigaretta?» «Non fumo.» «Ok… emh…» Lo fermai. «Potrei restare solo, per favore? Oggi non è giornata» gli chiesi, senza essere troppo scortese. Jared mi fissò con quei suoi occhi cristallini. «Certamente» acconsentì aggrappandosi allo spazzettone che teneva in mano da un po’. «Se vuoi passare il tempo, sono a pulire i cessi. A dopo, bello.» Mi capitava di pensare che Jared fosse gay, ogni volta che aggiungeva “bello” ad ogni saluto o per quei vestiti strambi con cui arrivava alla clinica prima di mettere la divisa da lavoro. Pensavo che se avessi davvero voluto uno psicologo, o qualcuno con cui parlare, era lui che volevo. Sorrisi guardandolo mentre andava verso i bagni, poi mi rimisi sdraiato. Alcuni istanti dopo, qualcun altro busso. «Medicine.» Questa era Roxy, l’infermiera grassa di turno. Mi alzai a sedere e lei mi sbatté tra le mani tre pillole e mi consegnò un bicchiere d’acqua. Alzai gli occhi al cielo. «Su, su, niente storie» disse bruscamente. Annoiato, presi le pillole: una per rilassarmi, una per l’umore e l’altra per i miei pensieri suicidi. «Apri.» Roxy mi aprì la bocca e io alzai la lingua. «Alle 18 si mangia» mi informò; come se non lo sapessi già da sei giorni, nove ore e trentaquattro minuti. Sbuffai e, non sapendo che altro fare, mi misi a dormire. Nonche volessi dormire alle quattro di pomeriggio, ma mi stufavo e ormai ci avevo preso l’abitudine, di dormire ventidue ore sì e due no. Un po’ le pastiglie che ti obbligavano a prendere ti rimbambivano il cervello, un po’ la noia: non si faceva molto. Lì la TV era sempre sullo stesso canale, almeno che non fosse sabato, quando c’era la serata film. Nella sala giochi c’erano sempre le stesse cose: giochi in scatola, scacchi oppure i puzzle e il flipper. Nella sala di ricreazione non c’era altro che un palcoscenico e delle sedie. Molti ci andavano per fare terapia di gruppo o terapia di controllo del comportamento o attività di fiducia. (In effetti, non so perché si chiamasse sala ricreazione, questa cosa non mi era del tutto chiara.) Non avevi molto lì dentro: i libri potevi averli, ma erano gli psicologi a scegliere; non potevi ascoltare la musica per conto tuo, perché con le cuffie ci si poteva strozzare, un po’ come le cravatte o le stringhe alle scarpe che era proibito introdurre nella struttura. Era tutto così pieno di regole. Era un po’ come se fossimo dei pesci in un acquario, ma non dei pesci normali, dei pesci un po’ diversi, un po’ brutti; come trovare un pesce nero in una boccia di pesci rossi: nessuno prenderebbe il pesce nero perché i pesci devono essere rossi, giusto? Il pesce nero è diverso da quelli rossi e viene scartato e rimane lì in quella boccia per sempre, attendendo invano di cambiare colore e diventare finalmente come gli altri, di un rosso speciale. Ecco… noi eravamo tutti pesci neri. Mandati via perché eravamo diversi, messi in una grande boccia tutti insieme, in attesa che cambiassimo colore. E magari qualcuno sperava davvero di cambiare colore, di essere aggiustato. Io vi svelerò un segreto: se nasci nero, rimani nero per sempre. Rimarrai rotto. Rimarrai diverso. Alle diciassette e trentacinque, Roxy mi svegliò di soprassalto, sgridandomi e annunciandomi che tra non molto sarebbe stata servita la cena e dovevo recarmi in sala mensa. Mi alzai sbuffando e, ancora stordito, camminai lentamente per i corridoi fino alla sala mensa, dove quasi tutti erano seduti. Fu lì che vidi Chloè per la primissima volta: la fissai solo un secondo, quanto bastava per entrare in mensa e sedermi al mio solito tavolo vicino a Maikol e Caleb. Vidi anche Ben entrare mentre Vanessa se ne stava da sola seduta in un angolo, con i suoi riccioli biondi folti e crespi, come sempre china sul suo quaderno a disegnare. Guardai in direzione di Chloè - allora non la conoscevo, non sapevo chi fosse, non era del mio gruppo. Quella struttura era divisa in più sezioni: quelle irrecuperabili, quelle di mezzo e altre parti della clinica erano divise in base ai vari problemi, come i drogati e alcolizzati o i suicidi o, per l’appunto, quelli con disordini alimentari; altri invece erano mischiati perché avevano più di un problema. Io non ero sicuro di essere nel reparto suicidi o in quello dei vari problemi, speravo solo di non essere nel gruppo degli irrecuperabili perché lì sì… credo che non ci sarebbe più stata una via d’uscita. Comunque pensavo che anche Chloè fosse un misto: era magrissima, quindi poteva avere dei disordini alimentari, ma osservandola meglio sembrava nascondere altro. Se ne stava seduta dritta a fissare il piatto che aveva davanti. Era magra come un uccellino, le braccine erano così sottili che se mi fossi avvicinato per prenderle probabilmente le avrei spezzate. Indossava un vestito lungo fin sotto le ginocchia (lì era obbligatoria quella lunghezza), le spalle erano coperte da un candido maglione di lana - mi chiesi se non sentisse caldo. Con le mani spinse il piatto in avanti. «Chloè!» sbraitò la dietologa seduta al suo tavolo, «se non mangi…» Lei la fulminò «Lo so… muoio. Me lo dici da più di quattro mesi ormai, ma sono ancora qui.» La dietologa trattenne il fiato, come se volesse sputare fuoco da un momento all’altro, poi parlò a bassa voce ed io non capii bene cosa disse. Vidi Chloè appoggiare il mento sul palmo della mano, fissando davanti a sé e finalmente mi guardò. A primo impatto Chloè non mi sembrò bella. Non era la classica modella uscita da una vetrina di Victoria’s Secret, ma aveva una bellezza particolare. I lineamenti del viso erano marcati anche se il viso era gonfio, abbastanza tondo, forse a causa del cortisone che aveva in circolo. Aveva resti di acne, ormai quasi invisibili, sulle guance e il viso non curato, pallido come un morto. Sembrava che se la sua bellezza non le importasse tanto. La fronte era abbastanza alta e il nasino era piccolo, alla francese, le labbra piccole ma carnose. Mi fissava con i suoi occhi castani stanchi e tristi, sembravano spenti e senza luce. Aveva occhiaie violacee che li rendevano ancora più piccoli. I capelli erano raccolti in una coda spettinata biondo crema, unti, spenti e crespi - se non fossero stati legati, ero quasi certo che le sfioravano le spalle. Non curava il suo viso, il suo corpo era uno scheletro, i suoi capelli sembravano quelli di una bambola di porcellana messa su un mobile e dimenticata. Chloè era questo: una bambola imbruttita dal tempo. Scostai lo sguardo appena lei si voltò e insultò la dietologa, urlando: «Se ci tieni, mangiatelo tu!» Ribaltò il vassoio e si alzò, facendo irritare la dietologa, lo psicologo e disturbò gran parte della gente presente. Se si alzava la voce, lì era un disastro totale. Il caos. Ma questo a Cholè non importò. «Non mi tocchi!» urlò quando un infermiere di turno la prese per il polso. «Sì… ho capito. Va bene!» disse poi, alzando le mani, «ma non mi tocchi!» ripeté. La dottoressa Markey e Charles corsero in aiuto dell’infermiere e la dottoressa disse qualcosa a Chloè. «Sì!» sbraitò lei irritata risedendosi al suo tavolo e standosene buona. In tutto questo tempo, io ero rimasto in silenzio a mangiarmi la mia pasta al ragù troppo cotta e fingendomi non interessato. In effetti, non lo ero: pensavo che Cholè volesse solo un pubblico. Più tardi l’avrei conosciuta così bene da poter dire che non sbagliavo affatto. Comunque, in quel momento non vidi se finì la sua cena (composta da: pastasciutta al ragù, petti di pollo alla griglia con tanto d’insalata di contorno e una gelatina alla frutta che, visto il colore, probabilmente era al limone). Non aspettai che finisse perché, in confronto a lei, io mangiai la mia cena, mi alzai e andai dritto nella stanza di ricreazione, dove ci sarebbe stata la terapia di gruppo. Non mi aspettavo di vedere tanta gente quella sera: ci fermavamo a quattro nel nostro gruppo, lì eravamo in sette. Ero nuovo a quella terapia – i miei incontri erano sempre fissati per il pomeriggio, ma la dottoressa Markey aveva deciso che avrei dovuto parlare di più e, in mezzo a tanta gente forse mi sarei aperto. Quando arrivarono tutti, mi accorsi di non essere l’unico nuovo: c’era una ragazza occhialuta che aveva sì e no la mia età, e un altro ragazzo che indossava un maglione verde pistacchio e non faceva altro che rannicchiarsi sulla sedia e dondolarsi avanti e indietro per tutto il tempo. Poi c’era Chloè: se ne stava zitta, seduta a gambe incrociate a mangiarsi le unghie nell’attesa, fissando sempre verso il basso. Notai che si era cambiata; ora indossava dei pantaloni larghi e una felpa rosa pallido. «Bene…» disse la Markey sedendosi. «Oggi abbiamo qualche new entry.» Sorrise a tutti in modo educato «Volete presentarvi? Parlare un po’ di voi?» Eravamo in quattro, ma nessuno aveva la forza di parlare per primo. «Cassie?» si rivolse alla ragazzina occhialuta, che sobbalzò. Lei deglutì due volte, poi fisso il pubblico. «M-mi chiamo Cassandra» balbettò piano. «Ho ventun anni e sono qui dentro perché…» deglutì ancora, fregandosi le mani sulle braccia e stringendosi come per darsi coraggio «P-perché mi hanno sporcato.» Inizialmente non capii cosa intendeva, ma quando si decise a continuare, fu tutto forte e chiaro. «Erano in cinque e… mi hanno bloccata in un vicolo, io… io credo... Non faccio altro che lavarmi da quel giorno perché… mi sento cosi sporca. I miei dicono che non sono più pura come prima e io…» mentre parlava, singhiozzava come una bambina e si strofinava il corpo. «Non guardatemi!» urlo infine rannicchiandosi e coprendosi la testa con il cappuccio della felpa. Ora Cassandra tremava. «Ok, ok Cassandra, hai detto abbastanza.» Molti annuirono. «Io penso che tu sia davvero coraggiosa» sussurrò piano Ben. «Grazie Ben, lo credo anch’io» sorrise la Markey. «Qualcun altro?» Fissò il ragazzo che dondolava, ma ci ripensò. «Chloè? Vuoi parlarci di te?» Chloè sbuffò. «Magari dopo, eh?» La Markey la fulminò. «Bene… Edward?» Sobbalzai. Mi schiarii la gola. Cosa dovevo dire? Dovevo alzarmi? Restare seduto? Dovevo dire che avevo cercato di uccidermi? Dovevo dire il perché? La testa mi girò e mi venne la nausea; strinsi le mani in due pugni e tutti mi fissarono. Ero nel panico. Poi decisi che avrei detto le cose più banali che mi venivano in mente, tanto per accontentare la Markey. Mi schiarii la gola di nuovo e tutti attesero. «Mi chiamo Edward Jonh Craing» (dicevo sempre il secondo nome perché avevo sempre pensato che il secondo nome faceva figo.) «Sinceramente? Penso di essere qui perché la mia vita fa schifo. E se mio padre non mi avesse salvato, non sarei di certo in questa merda di posto.» Non ero mai stato volgare, non sapevo perché avessi detto quelle parole. Era come se qualcuno le avesse buttate fuori al posto mio. Ero felice però di averle dette. Chloè mi fissò a lungo e poi si mise a ridere. Fu l’unica. Non le chiesi mai il perché. In quell’istante, vederla ridere in quel modo e sentire la Markey dire che non era divertente, fece ridere anche me.
  
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