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Autore: shilyss    03/11/2019    47 recensioni
C’era qualcosa di perfetto, nel ritrovarsi davanti a migliaia di persone che s’accalcavano per prendere un pezzo, uno solo, di lui. Per strappargli l’anima senza averla davvero.
Da qualche parte, nel tempo e nello spazio, Loki è in cerca di se stesso. Potrebbe essere l'ennesimo inganno o l'ultima maledizione: forse, il segreto di tutto è racchiuso nella voce che, insistente, gli sussurra all'orecchio...
[Post Avengers: Endgame] [accenni hurt/comfort] [Una sorta di Soulmate!AU] [Inganno/Fedeltà]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Loki
Note: Lime, Missing Moments, Soulmate!AU | Avvertimenti: nessuno
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Un’altra volta ancora

 

I fell into a burnin' ring of fire

I went down, down, down

And the flames went higher

And it burns, burns, burns

The ring of fire, the ring of fire

(Ring of fire, scritta da June Carter, cantata da Johnny Cash)

 

Le dita pizzicarono leggere le corde tese della chitarra, intonando l’inizio di una canzone che non suonava più da qualche anno: una ballata lirica, lenta e vagamente struggente, rimasta in classifica per sessantatré settimane. L’aveva composta una sera lontana di giugno – creava testi e musiche con una rapidità disarmante, riservandosi di limarne ogni dettaglio anche per mesi. L’impulso a plasmare nuove melodie e frasi che si sposavano perfettamente tra loro era qualcosa che gli apparteneva, annidandosi nella parte più profonda, insondabile e antica della sua anima oscura.

C’era qualcosa, in lui, di sbagliato, spezzato, storto.

Che non riusciva ad afferrare, di cui aveva un’eco lontana solamente quando l’alcool lo stordiva, il distorsore della chitarra rombava, la folla eccitata invocava il suo nome alzando le braccia al cielo, come al cospetto d’un magnifico dio pagano.

Allora c’era la scintilla. Una flebile luce che s’accendeva nella profondità di una memoria bucata, rischiarando l’immensa solitudine di un re assiso su un trono, la cui voce incantata conquistava schiere di fedeli – armate di uomini e donne disposti a tutto. Il pensiero gli provocò un’inebriante vertigine: un sussurro, implacabile, gli suggerì che l’estremo isolamento era il necessario e giusto prezzo da pagare per il potere – i corpi dei sovrani appartengono alla gente fin dai tempi in cui il tocco delle loro mani era considerato magico, divino, miracoloso[1].

 

Rise della propria follia, domandandosi se avesse appena spento una sigaretta a base di tabacco o addizionata con qualche altra strana droga capace di friggergli il cervello. Si leccò le labbra che sapevano di whisky terminando la prima strofa, ma senza avventurarsi nel ritornello.

Lo spartito originale di quella canzone non gli apparteneva più. L’aveva regalato assieme a molti altri oggetti di cui si era disfatto senza troppi sensi di colpa, perché i beni materiali in fondo sono questo – feticci inutili, buoni solamente per costruire la maschera che tutti, più o meno consapevolmente, sfoggiavano.

Qual era il suo vero volto? Che cosa avrebbe visto allo specchio, se l’avesse tolta?

Ciò che era davvero importante, lui l’aveva perso – c’erano stati un luogo o un tempo in cui era riuscito a stringere tra le dita qualcosa d’eccelso e aveva permesso che gli sfuggisse, smarrendosi in esso e con esso, ma non ricordava più né dove né come né perché. Si alzò dalla poltrona imprecando, per dirigersi a passi svelti e regali verso il bagno della suite, confrontandosi col suo riflesso: i capelli scuri, generalmente pettinati all’indietro, pendevano scarmigliati e vagamente arricciati sul viso magro e scolpito, gli occhi verdi, aguzzi e attenti, saettavano nervosi da una parte all’altra della stanza, le labbra sottili erano increspate in una smorfia di divertita commiserazione, di bieco compiacimento.

La cosa oscura dentro di lui grattava e ringhiava e rideva d’una risata secca e perfida.

Infilò la testa sotto il rubinetto aperto. L’acqua gelata gli bagnò i capelli, corse sulle sue guance affilate, scivolò fino ad arrivare al naso e alla bocca. Non aveva bisogno di leggere lo spartito, per suonare la traccia che aveva accennato sovrappensiero: ricordava perfettamente ogni nota, accordo, evoluzione, come tutte le altre sue armonie, squisitamente rock o ballate che fossero, ma quel foglio scritto fittamente apparteneva alla sola persona cui aveva mostrato uno spiraglio l’abisso – un brivido gelido lo colse. La mano fasciata tornò a dolergli.

 

Le carte del divorzio le aveva firmate con un bicchiere di Jack Daniel’s in mano e una sigaretta che gli penzolava tra le labbra, mentre era in viaggio con la band lungo la Route 66. Una tournée fortunata, selvaggia, fottutamente epica, che aveva fatto registrare concerti sold out praticamente ovunque. Un successo da festeggiare con la roba migliore, le ragazze più belle e l’alcool che scorreva a fiumi, assieme ai dischi d’oro che si facevano di platino e alle montagne di giornali statunitensi ed europei, colmi delle foto patinate che lo ritraevano durante le sue esibizioni sregolate e potenti nella massima misura – spettacoli degni di un incantatore o di uno stregone.

 La firma sul plico dell’avvocato era stata uno svolazzo fatto tra un riff di chitarra suonato direttamente nella testa e le pressioni di quel gran figlio di puttana del suo manager. Era evidente come non ne potesse più di avere a che fare con rockstar stronze e perennemente fatte, che affogavano nel whisky il senso di divina onnipotenza e d’immortalità che poteva regalare solo uno stadio pieno di gente che canta brani scritti da te, seguendo la tua voce.

Ogni volta che saliva sul palco e si esibiva qualcosa, in lui, vibrava. La folla esultante e impazzita che accompagnava strofe e ritornelli, che saltava e ballava al suono della musica composta da lui nelle notti in cui gli incubi tornavano a tormentarlo, lo faceva sentire come il pifferaio magico capace d’irretire le menti di chi lo ascoltava, come un condottiero vittorioso la cui comparsa infiammava gli animi della sua armata, come un principe o un mancato re.

Il pensiero scollegato lo fece sussultare, lì, nella camera d’albergo avvolta nella penombra d’un pomeriggio uggioso che s’apprestava a divenire sera. C’era qualcosa di perfetto, nel ritrovarsi davanti a migliaia di persone che s’accalcavano per prendere un pezzo, uno solo, di lui. Per strappargli l’anima senza averla davvero.

Eppure, non era lui che gliela concedeva, immolando il proprio corpo agile e nervoso sull’altare del successo? Non s’atteggiava a principe, sulla scia di altri performer altrettanto egocentrici, geniali, folli, distrutti? Solo e a torso nudo, con la chitarra tenuta ad armacollo e il sudore che gli imperlava i muscoli, avvolto dalle luci del palco, non permetteva alla sua personalissima armata di illudersi, crogiolandosi nell’inganno di una connessione che, in realtà, sarebbe stata per sempre tronca? Si tamponò il volto con un asciugamano pulito, cercando di levarsi di dosso ciò che restava delle nottate precedenti. Brandelli di memoria sparsa, niente di più. Neanche quella sensazione gli era del tutto estranea, come non gli era nuovo il dolore pulsante alla mano – ma come se l’era ferita, no, quello non riusciva a ricordarlo.

 

Sei già caduto nel vuoto. Ti sei lasciato andare, perché non eri degno – così hai raccontato, ma sei un bugiardo.

L’arto pulsava ed era abbastanza certo di non avere più antidolorifici in camera. Sarebbe bastato alzare la cornetta del telefono e, in dieci minuti, l’assistente di cui non ricordava il nome gliene avrebbe portati una scatola intera, insieme a tutto ciò che poteva desiderare. Lui e la band pagavano appositamente per godere di un simile servizio. E poi, forse, qualche pillola avrebbe potuto imbavagliare le voci insistenti e imperiose che gli ronzavano nella testa.

Non scriveva musica per metterle a tacere, ma per assecondarle e liberarsene momentaneamente. Anche dopo aver firmato la pila di documenti inutili dell’avvocato si era messo a comporre: il risultato era stato una poesia dura, arrabbiata, potente. Sposarsi era stato un errore, una sventatezza dettata dalla passione.

 

Un bussare leggero lo distolse dai suoi pensieri, mescolandosi col ritmo del ritornello di Ring of fire di Johhny Cash, riprodotta distrattamente dal giradischi - il suo batterista, una volta, gli aveva chiesto come mai ascoltasse tanto spesso quella ballata lenta, ma.

Decise di ignorare i rumori attutiti e dopo qualche istante d’attesa i colpi ripresero con più insistenza, accompagnati da una voce femminile, lieve e decisa. Era lei.

La porta si aprì portando con sé il sentore esotico dell’Hypnotic Poison di Dior[2] vaporizzato con attenzione sugli abiti di squisita fattura. Le decolleté italiane, lucide e nere, calpestarono rapide la moquette fino ad arrivare a pochi passi da lui, consentendogli una visione privilegiata delle caviglie eleganti e sottili della loro proprietaria. Quante volte le aveva baciate, risalendo con implacabile lentezza lungo le gambe snelle e le cosce tornite, per farla sua dopo un concerto a cui lei aveva assistito occhieggiando da dietro le quinte, ancora ebbro dell’energia della folla? Un sussurro distante gli sibilò all’orecchio che così si sentivano i re, ma il chitarrista non gli diede importanza. Di nuovo quelle voci. Certi pensieri scollegati gli attraversavano la mente così, senza un motivo o un perché, spesso accompagnati da immagini di conquiste e di battaglie cui lui non sapeva né voleva dare un nome, ma che metteva su carta non appena si svegliava, nel vano tentativo di catturarne il l’origine o il senso o lo scopo. Lei sbuffò qualcosa, aprì le finestre chiuse per cacciare via il cattivo odore presente nella stanza. Loki socchiuse gli occhi, infastidito dall’aria livida e fredda dell’autunno.

E una voce sfrontata e perentoria gli sussurrava, nel profondo della notte, che quelle storie erano le sue, tutte. E il tono beffardo era quello che avrebbe usato lui.

L’aveva amata in modo feroce, rapace. Ne ricordò la bellezza quando gli si era accostata per la prima volta, fasciata in un paio di jeans stretti e con la t-shirt di un altro gruppo annodata sotto il seno. Se solo fosse stato capace di trattenere tra le dita qualcosa di quello splendore. Nel suo petto esposto non c’era spazio per il rimpianto, ma nel trovarsela davanti qualcosa gli raschiò comunque il cuore e la gola, pulsando feroce.

Era la stessa bestia antica che abitava in fondo alla sua anima, e sapeva – ricordava, sentiva – l’odore marcio del fango che ricopriva le placche dorate della sua sontuosa armatura; una che non ricordava d’aver indossato, ma di cui avrebbe potuto disegnare a occhi chiusi le decorazioni.

Aveva combattuto infinite battaglie, versato il sangue scarlatto di mille e più soldati, ma una volta era stato sconfitto. Si era guardato attorno, risvegliandosi dall’incubo di cieca follia in cui era precipitato per trovare dei ceppi ai suoi piedi e ai polsi – alcuni erano i segni visibili di una sconfitta recente, altri, più sottili, una promessa di morte da cui era fuggito con in mano qualcosa di così potente da scardinare il tempo e lo spazio, proiettandolo in un universo che a quello originario assomigliava soltanto.

E lei…oh, lei non doveva essere lì.

Era eterea e altera e lo guardava con quegli occhi truccati di scuro, dolci e rotondi, incapaci di giudicarlo persino in quel momento.

 

“Dicono che al concerto di domani non vuoi suonare,” esordì Sigyn, sfilandosi dal collo lungo il magnifico foulard di seta d’Hermès. Aveva lo sfondo bianco e decori color avio su cui spiccavano dei cavalli bianchi. Il gesto con cui lo posò sul tavolo vicino fu fluido e naturale, fin troppo.

“E per convincerni hanno chiamato te?” Loki si era poggiato contro lo stipite della porta che divideva l’anticamera della suite dal resto. La squadrò da capo a piedi, imprimendosi nella mente la figura snella della donna che aveva davanti e confrontandola con quella che ricordava, in cerca delle similitudini e delle differenze. “La tua visita è senz’altro inattesa, forse persino inopportuna,” le fece notare piegando la bocca in un ghigno. Non riusciva a smettere di guardarla. Non voleva neanche farlo.

Lei alzò le spalle. “Ero in città.”

Fin dove lo comprendeva? Qual era il punto impossibile da superare, perché era tornata – l’avevano chiamata, strappandola ai felici preparativi per un matrimonio che le avrebbe garantito una vita finalmente serena, lineare, completa. Con un uomo che avrebbe saputo amarla e ascoltarla, svegliandosi accanto a lei ogni mattina, libero dal rancore senza nome che invece grattava la sua, di anima. Si leccò le labbra, perché quella domanda, forse a causa dell’alcool, non gli era rimasta intrappolata in gola, ma si stava facendo viva voce, velandosi di una punta spiacevole di ironia.

“La data dovrebbe essere vicina,” osservò concentrandosi sulla sfumatura color ciliegia delle sue labbra ben delineate.

La sua ex moglie scosse la testa bionda, senza dare a vedere se l’allusione l’avesse ferita. “Lavoro. Un paio d’interviste interessanti ad alcuni artisti emergenti,” spiegò. Non resistette all’impulso di rendere l’ampia stanza d’albergo un minimo più vivibile, vuotando con una smorfia il posacenere colmo di mozziconi di sigaretta, accigliandosi di fronte alle bottiglie vuote. Loki la lasciò fare per vedere dove volesse andare a parare. Decise che a muoverla era stato uno strano senso dell’abitudine, e che il fatto di non aver tolto il trench fosse un chiaro indizio di come anche lei ritenesse il suo gesto inadeguato, stonato.

L’altro come l’avrebbe presa? Fu tentato di chiederglielo, si crogiolò all’idea della reazione che le sue frasi pungenti avrebbero senz’altro scaturito, ma poi Sigyn se ne sarebbe andata via senza voltarsi, portando con sé il suo profumo di donna.

La vide avvicinarsi con una leggera esitazione, a passi misurati: voleva dare un’occhiata alla ferita bendata, ma annullare la distanza che c’era tra loro era un rischio. Significava rendersi conto della leggera scarica elettrica che li scuoteva ogni volta che i loro corpi s’avvicinavano troppo, riconoscere la tensione che corrodeva i loro nervi spingendoli a desiderare un contatto, cacciare indietro impulsi bassi e prepotenti che bruciavano, facendoli sentire vivi come non mai. Capire che niente di tutto questo era ancora cambiato, soprattutto, ma che il tempo e le loro azioni avevano rovinato ogni possibilità di riparare il passato. Sigyn gli prese la mano, la rigirò per controllare la fasciatura.

“Come sta Vali?” le domandò a bruciapelo.

Un lampo d’amore e d’orgoglio scintillò negli occhi grigi della donna. Gli regalò un sorriso genuino, totale.

“Sta bene, ti ascolta sempre – è così fiero di te. Ha vinto un’altra gara, la scorsa settimana. Ti avevo lasciato un messaggio – vuole sapere quando passerete finalmente qualche giorno insieme.”

La nota di rimprovero gelò la tensione sottesa, riportando a galla problemi antichi che l’attrazione mai sopita non poteva annullare.

 

Le dita di Sigyn gli sfiorarono la mano e le bende, indugiando in una sorta di carezza trattenuta: ogni volta che guardava Vali riconosceva Loki. Nello sguardo furbo e verde del bambino, nel suo modo di sorridere, imbronciare le labbra, iniziare un discorso e in mille altri dettagli ancora, c’era l’impronta chiara e precisa di suo padre. E lei amava rintracciare tali somiglianze, perché Loki e la sua musica appassionata non le sarebbero mai stati indifferenti nonostante le incomprensioni, i litigi, i tradimenti, le assenze, le pressioni esterne e la ferocia di una passione che chiedeva di anteporre l’arte a qualsiasi cosa – ma quella richiesta lei l’aveva assecondata sempre, in memoria delle lacrime che le erano scese lungo le guance la prima volta che aveva sentito una sua canzone. Era rimasta incantata dalla voce roca e graffiante, dal testo intenso, dalla melodia avvolgente che aveva il sapore di luoghi mai visti, di vini mai sorseggiati. Rapita, aveva sentito la necessità di ascoltarla ancora e di nuovo, senza riuscire a smettere. Era come se Loki l’avesse trascinata giù, verso il fondo di qualcosa d’inconoscibile e perduto, ma bellissimo. Poi l’aveva sentito suonare dal vivo e l’impressione si era rafforzata – lui cantava un mondo che lei non aveva mai visto, ma che, in qualche modo, conosceva.

 “Fammi dare un’occhiata,” concluse la donna.

 

Il tocco di Sigyn era gentile e delicato come ricordava. Si era finalmente tolta il trench e lo aveva invitato a sedersi sul bordo dell’ampia vasca. Aveva disinfettato la ferita e cambiato la fasciatura in totale silenzio, cercando di rendere normale un’azione che non lo era – niente lo era mai, se riguardava Loki, lo sapevano entrambi – finché l’assenza di rumore si era fatta assordante, il brivido che anticipava ogni tocco o sfioramento, insostenibile.

“Come te lo sei fatto? O anche: perché?” gli domandò aggrottando le sopracciglia.

Loki non volle ammettere di non averne la più pallida idea, così raccontò una storia falsa e divertente, sfruttando il momento per soffermarsi sulle dita veloci di Sigyn, sull’accenno di sorriso che le illuminava il volto mentre lui condiva con qualche facezia la sua menzogna. Quelle della mano destra ospitavano alcuni anelli di famiglia, ma la sinistra era maledettamente libera. Gli sembrò un affronto e un invito al tempo stesso. Si chiese dove fosse quello, incantevole e di foggia antica, che lui aveva scelto per lei, solo per lei, e che Sigyn toglieva unicamente per dormire, così come suppose ed elaborò numerose teorie vedendo che l’anulare non ospitava alcun sostituto.

“Ti risposerai tra due mesi e non indossi alcun anello. È una decisione curiosa,” notò inclinando il capo in un ghigno cattivo.

Sigyn s’irrigidì. “È prezioso e assicurato,” gli spiegò, ma l’argomento l’infastidiva, era evidente. Loki, dal canto suo, non poté fare a meno d’individuare la crepa e sfruttarla, com’era nella sua natura fare, perché un tempo aveva avuto quella donna e ora lei non gli apparteneva più.

E così era stato per molte altre cose, in mondi diversi, in realtà dimenticate: dov’è il cubo, Loki? In che luogo lo hai nascosto?

“Un investimento, più che un dono,” notò caustico, ricacciando via il pensiero scollegato che gli aveva punto i pensieri.

Lei si rabbuiò, senza smettere di sistemargli la fasciatura. “Non ne hai il diritto.”

“Di fare che?” l’incalzò.

 

A Sigyn, che aveva offerto fin troppe cose all’altare dell’amore, tremarono le labbra. “Di giudicare la mia vita,” scandì, pensando a Vali che chiedeva di suo padre e alle volte in cui si era alzata nel cuore della notte, trovando Loki intento a comporre febbrilmente quella sua musica ipnotica e coinvolgente, corroso dal bisogno di raccontare segreti senza nome, esasperato da una ricerca che si esauriva in un lampo azzurro di cui le aveva parlato qualche volta, mentre erano a letto dopo l’amore, ancora avvinghiati ed esausti, le dita di lui affondate nella massa scarmigliata dei suoi capelli d’oro.

 

Loki assottigliò le palpebre, riducendole a due fessure scintillanti. “Avanti,” la schernì con voce perfida, “sii sincera: non hai mai avuto ripensamenti? Non li hai nemmeno adesso?”

Era capace di scavare la verità e di metterla a nudo, esibendola per quello che era: un groviglio pulsante di contraddizioni, impulsi, sentimenti e scelte complesse. Sigyn gli invidiava da sempre la capacità di essere, allo stesso tempo, un poeta e uno stratega.

Scoprì di amarlo ancora. Di averlo amato in ogni tempo. Fu come trovarsi sull’orlo di un precipizio e lasciarsi cadere giù, in un abisso senza fondo che l’avrebbe inghiottita. Si rese conto che non era stata capace di dimenticarlo e che non era cambiato nulla, dalla prima notte in cui si era alzata, aveva indossato la camicia di lui sulla pelle nuda e si era lasciata richiamare dal suono di una melodia sconosciuta e nota al tempo stesso. Nella penombra, lo aveva visto accarezzare con le sue belle dita le corde della chitarra per fondere insieme parole e note. Loki non si era accorto di lei che dopo una manciata interminabile di minuti; aveva alzato gli occhi fissandola in modo rapace e attento – come stava facendo in quel preciso istante – per poi rivolgerle una mezza risata soddisfatta. “Ti piace?” le aveva chiesto.

 

Scoprì di non essere in grado di dimenticarlo né di volerlo davvero. Fu come guardarsi allo specchio e riconoscersi per la prima volta – o non trovarsi affatto.

Aveva ripensamenti? Sospirò, reprimendo il brivido di tensione che non l’aveva mai abbandonata. “Loki, il fatto che sia qui non c’entra assolutamente niente con questo,” puntualizzò, ed era vero, da qualche parte del suo cuore ci credeva veramente. La mano era stata curata e ora Sigyn avrebbe potuto finalmente allontanarsi e andare via, anche se le sarebbe rimasta addosso quella domanda crudele, cui non voleva dare una vera risposta. Fece un passo in direzione della porta, ma l’altro incatenò lo sguardo al suo e le afferrò di nuovo la mano, le dita.

“Oh. Allora li hai soprattutto adesso,” decise, beffardo e trionfante. 

 

Lei impallidì, ma non fuggì il suo tocco – non riuscì, non volle – come non s’oppose, quando la stretta si trasformò in una carezza leggera e insolente che risalì lungo il braccio, raggiungendo con infinita e studiata lentezza il collo e poi il mento, arrivando infine a sfiorarle le labbra schiuse, in attesa di qualcosa che non doveva esserci. Un tocco che era come una fiamma e la bruciava da dentro, riportando brutalmente a galla ciò che era stato amare e sposare e infine lasciare quella rockstar tormentata che suonava come nessuno e si distruggeva con la rapidità di una fiammata. Avrebbe dovuto ritrarsi offesa, ma non lo fece e lasciò che Loki annullasse ogni distanza attirandola a sé e la baciasse, lambendo la sua bocca quel tanto che bastava per farle desiderare disperatamente che proseguisse, per poi tornare all’assalto in un gioco straziante che era un cercarsi e un fuggire continuo. Nell’ansia di aversi un’altra volta ancora, anche Sigyn gli ghermì la bocca, mescolando con Loki i suoi respiri ansiosi, urgenti, disperati come quell’incontro muto che generava altro, risvegliando la necessità di toccarsi e ritrovarsi, schiavi com’erano della tensione irrisolvibile che sconvolgeva i loro nervi ogni volta che si avvicinavano troppo l’uno all’altra. Gli permise di sfilarle la bella gonna di squisita fattura, poi la rigorosa camicia in seta, infine di saggiare il suo corpo tremante di donna che lui reclamava con un desiderio e una disperazione che solo l’assenza poteva far scaturire e che lei conosceva bene.

L’errore di amarsi un’altra volta ancora lo commisero così, nella sera umida e fredda di una città sconosciuta a entrambi.

Stavano sbagliando, inciampando nelle ceneri ancora calde di una relazione ormai finita. Se avessero attizzato nuovamente il fuoco di un tempo, sarebbero riusciti a creare solo dolore.

 

Loki le suonò una ballata, dopo. Una che non aveva ancora finito di comporre, ma che, come tutte, gli apparteneva come se fosse il sangue che correva nelle sue vene, figlia di un mondo perduto ricusato e amato in egual misura. E che, da qualche parte, per un’inscrutabile ragione, conosceva anche lei. Lo seppe incrociando il suo sguardo liquido e grigio, dal trucco leggermente sbavato – colpa dei baci e delle carezze che si erano scambiati, dell’amore consumato da troppo poco. Sì, Sigyn apparteneva al suo stesso universo, in qualche maniera, quello che invadeva i suoi sogni – bagliori dorati come le ciocche di lei che s’intrecciavano, caotiche, tra le sue dita – che pensava di recuperare quando, al mattino, si alzava con la consapevolezza di dover riacciuffare qualcosa di smarrito o nascosto che, forse, aveva semplicemente celato alla propria vista. È il nostro supplizio, Sigyn. Quello cui ci hanno condannato le Norne e che siamo costretti a replicare qui, nell’oscura Midgard.

 

C’era stato un lampo blu. Poi il nulla, lo spaventoso abisso esistente tra i vari universi lo aveva inghiottito.

Sigyn avrebbe dovuto alzarsi dal letto, rivestirsi senza guardarlo e andare via. Ritornare alla sua vita e dimenticare quella notte era l’unica cosa che potessero e dovessero fare. Avevano un figlio che non poteva vederli tornare assieme, perché si sarebbe crogiolato nell’illusione che sarebbe durata per sempre, finendo per soffrire di nuovo. Vivevano esistenze faticosamente costruite, con carriere che li avrebbero separati di nuovo. Una notte d’amore non cambiava nulla, anzi, peggiorava le cose.

Loki aveva smesso di suonare, si era andato a fare una doccia e, quando era tornato dal bagno, con solo un asciugamano legato attorno alla vita addosso, l’aveva trovata ancora distesa nel suo letto, addormentata, nuda. Il calore trattenuto tra le coperte gualcite e confortevoli, unito al rumore della pioggia incessante che aveva preso a cadere con violenza sulla città, erano riusciti a precipitarla in un mondo di sogni. Baciarla era stato un errore la prima come l’ultima volta, ma lui non aveva mai avuto paura di sbagliare, perché solo così era possibile avere accesso alla conoscenza, all’esperienza.

 

Questo aveva pensato, quando, con la bocca serrata da un bavaglio e un paio di ceppi ai polsi, aveva colto l’opportunità che gli si parava davanti bloccandola con un piede? Non visto, si era chinato sfiorando un potere che si era rivelato corrosivo e terribile, spaventoso e magnifico. Si stese accanto a lei, come aveva fatto mille volte dopo i concerti in cui Sigyn lo aveva seguito, ma gli era rimasta addosso l’eco di una maledizione, pesante come quelle cantate dagli aedi. Fu allora che scoprì di avere la gola secca e la solita vecchia inquietudine gli grattò il petto. Aveva saggiato il potere di un artefatto più vecchio del tempo e quello, a discapito di ogni cosa, gli aveva mangiato la memoria e la ragione, azzannando la sua mente, stritolando e mordendo.

Chiuse gli occhi e fu allora che lo vide – lo sognò.

 

Un prato verde che s’affacciava sul mare freddo, ostile e bellissimo, circondato da montagne che nascevano direttamente dalle acque. Un fiordo. Davanti a lui, c’era un uomo anziano con un solo occhio e una lunga barba bianca, vestito con un completo di lino candido e stazzonato. Lo stava aspettando, immobile e ieratico.

Loki non voleva avvicinarsi, né tantomeno parlargli. Non sapeva chi fosse – non lo ricordava più. Fu l’altro a iniziare il discorso. Lo chiamò per nome, lo appellò come figlio. Il chitarrista era certo che mentisse e gli uscì dal petto una risata secca e amara, carica di un risentimento che conosceva per averlo cantato nei dischi che gli avevano portato fortuna e gloria, sopra i palchi che aveva dominato come un re. Il vecchio da un occhio solo scosse la testa: era addolorato e felice a un tempo, perché ciò che Loki aveva costruito negli ultimi anni era stato grandioso e potente; la sua musica aveva fatto sognare una generazione e così avrebbe fatto con le successive, imprimendosi nella cultura non di una città o di un paese, ma del mondo intero. Midgard era stata sua e gli era appartenuta. I suoi brani avrebbero spinto altri artisti a usare il loro ingegno per creare opere meravigliose componendo, certo, ma non solo. Molti si sarebbero lasciati incantare dalle sue melodie appassionate per scrivere romanzi, disegnare progetti, migliorare la vita, altri le avrebbero usate per fare da colonna sonora a film e spettacoli. In tutte queste creazioni delle più varie nature, sarebbe rimasta, per sempre, la scintilla indelebile della natura geniale e divina di Lingua d’Argento. Ma la distruzione che aveva portato in un altro luogo, in un altro tempo, era stata altrettanto terrificante, continuò il vecchio. Tuttavia, bene e male si sarebbero bilanciati, alla fine, generando l’equilibrio. Lui scosse la testa, inebriato da quella profezia magnifica e crudele a un tempo. Non capiva, non voleva ricordare e allora Odino sorrise.

“Devi tornare e pagare, Loki, dio dell’inganno, principe di Asgard. Restituisci ciò che hai rubato, versa il sangue assieme a coloro che appartenevano al tuo mondo, al tuo tempo, al Ragnarok che aspetta solo voi due,” lo esortò con voce ferma e distante. “È il tempo sbagliato, questo. Hai creato un inganno e ci sei rimasto impigliato dentro. Hai usato il potere della gemma e quello ti ha corrotto. Tornate tra gli Æsir, Loki: noi non siamo immortali. Non lo siamo stati mai.”

“A chi altri ti riferisci?” domandò l’ingannatore, ma s’accorse di conoscere perfettamente la risposta.

Lei ti ha seguito. Non può esistere un universo dove l’inganno sia privo della fedeltà,” rispose Odino stancamente, e lui seppe che era vero, anche se nella mitica Asgard lui e quella donna non condividevano quasi più nulla – l’aveva persa anche in quel luogo e l’avrebbe persa per sempre, in un ciclo senza fine, eterno e immutabile.

Si risvegliò di soprassalto, madido di sudore. Pioveva ancora. Nella penombra notturna, osservò la linea sinuosa del corpo delicato e sottile di Sigyn e ripensò all’incubo appena fatto, tentando di rimetterne assieme i pezzi già vaghi. Dicevano che le sue canzoni aveva un’impronta particolare, riconoscibilissima, ammaliante e diversa da tutto ciò che esisteva: era perché cantava storie di posti perduti – una nenia, in particolare, era stata replicata e riarrangiata fino a diventare tutt’altro. La sua essenza era lì, nello spartito che aveva dato via – donandolo a lei, che nel giro di qualche ora si sarebbe stretta di nuovo nel trench di Burberry per sparire sotto la pioggia, ombra d’oro in mezzo ad altre scure.

Quale forza oscura e crudele lo costringeva a salire sul palco e a spalancare le braccia verso la folla urlante, che bisogno primario assecondava nel raccontare un mondo smarrito che, lo sapeva, non esisteva più da nessuna parte perché era bruciato fino alle sue fondamenta?[3]

Sapeva tutto questo perché aveva osato violare le leggi dell’universo intero, fissando il punto più oscuro della gemma – quello che conteneva tutte le ipotesi che coesistevano insieme, nello stesso momento, nel medesimo istante.

La conoscenza, in fondo, ubriaca come la vodka, come il miglior whisky invecchiato, come l’idromele che un re guerriero faceva distribuire ai suoi soldati d’ogni ordine e grado, in banchetti fantastici dove si celebravano vittorie dai nomi altisonanti, s’inventano poemi atti a ricordare gli amici caduti, sedurre le ragazze più belle. La risata di una di loro si mescolò alla nenia antica e dolce, alla ninna nanna senza nome esaltata dal distorsore della chitarra elettrica, accompagnata dal basso e dalla batteria. Sigyn.

Era stata lei, la donna che aveva al suo fianco per un’altra notte ancora, che, in un altro luogo, in un altro tempo, nella perduta Asgard, gliel’aveva sussurrata in letti di seta e pelliccia caldi e dimenticati o forse no, sfiorandogli con le sue dita sottili le guance affilate, il petto ampio, il torace asciutto. Risentendola, lei aveva pianto, inconsapevole, per sempre, di ciò che era stato e dell’incantesimo che li aveva avvolti, eppure, in qualche modo, cosciente che quella musica le era sempre appartenuta e faceva parte di loro.

 

“Hai tutto senza avere nulla, Loki. Come sempre.”

Sigyn si era rivestita con lentezza e nella sua voce l’altro riconobbe il rammarico, il dispetto, l’amore.  Se ne sarebbe andata senza tornare, lasciando solo una traccia di profumo sul suo letto, nient’altro. Il ricordo di quella notte avrebbe bruciato le vene d’entrambi ancora a lungo. Lei riprese il trench beige, raccolse il bel foulard di seta, colpevole d’essere fedele all’amore che l’avrebbe intrappolata in questa vita e in quelle future, così come aveva fatto con le precedenti.

“Ricchezza, successo, amore, talento. Tutte cose che hai conquistato con intelligenza e tenacia. La gente ti adora, la tua band ti sopporta ancora nonostante i tuoi capricci,” riprese lei con un sorriso lieve e uno scintillio divertito negli occhi. “Hai Vali… e hai me,” concluse abbassando la voce, perché quell’ultima ammissione era vera e, al tempo stesso, non lo era più. “Ma non ti basterà mai, vero?”

“La soddisfazione non è nella mia natura,” ammise Loki, imprimendosi nella mente la figura snella ed elegante della donna che aveva perso in questa vita e nelle altre, che avrebbe ritrovato in quelle seguenti.

Non la fermò quando la vide andare via, ma dopo che se ne fu andata suonò le canzoni di Asgard privandole di qualsiasi arrangiamento o modifica, così come erano state composte dai bardi, pensando alle occasioni mancate, alle battaglie vinte e a quelle perse. Rubando il Tesseract e sparendo aveva aperto un nuovo corridoio di ipotesi dentro cui si era smarrito, ma gli anelli di fuoco di certi legami capaci di sopravvivere al tempo e allo spazio avevano finito per imprigionarlo comunque. Sorrise divertito, pensando allo sguardo smarrito e alle imprecazioni che Thor doveva aver tirato giù quando lui era sparito con la gemma.

Non l’aveva perduta, ma nascosta sì. E ora ricordava anche dove.

 

“Ritrova te stesso,” gli aveva mormorato Sigyn ondeggiando sulla porta, voltandosi un’ultima volta. Si riferiva al brano che aveva accennato dopo che avevano fatto l’amore.

Loki piegò le labbra in un sorriso furbo, laterale e breve. Comprese che lei non avrebbe mai ricordato perché solo chi usava la gemma poteva farlo. “E tu tornerai?”

Sigyn non rispose, all’inizio.

 

 

Ci sarebbero stati altri Ragnarok, successi, mariti, mogli, amanti. L’avrebbe rincontrata ancora e di nuovo, riconoscendo i suoi occhi liquidi e grigi nelle forme diverse e sconosciute che avrebbero assunto ogni volta. L’avrebbe cercata senza saperlo né ricordarlo, come aveva fatto quando si era illuso di essere libero da ogni vincolo, nella torre ancora in piedi di una New York distrutta dai Chitauri. Aveva visto il Tesseract arrivargli ai piedi e lo aveva rubato, sparendo insieme a lui in cerca di una via di fuga che gli era costata fin troppo. Aveva ottenuto la sua vendetta sulla Midgard tanto amata da Thor, stregandola come l’altro non sarebbe mai riuscito a fare. Quanti avrebbero tradotto in parole ciò che provavano nel petto – amore, odio, rabbia, rivalsa, anelito alla libertà – usando le parole che lui aveva scritto, suonando le melodie antiche che la dolce e perduta dea della fedeltà gli aveva canticchiato? Con lei aveva conquistato Midgard. Una punta d’orgoglio gli graffiò il cuore. Ne era stato degno.

E ora, sapeva anche cosa doveva fare e come. Ci sarebbero state altre battaglie, altri baci, altri amori, altre reliquie da rubare…

 

 

L’angolo di Shilyss

Cari Lettori,

Il mio fandom è decisamente “Thor,” ma questa shot per ragioni di tematica ritengo debba trovarsi qui. Nasce da una domanda specifica: cosa è successo dopo che Loki, in Endgame, ha preso il Tesseract ed è fuggito? In questa shot, come spero si sia capito, ha viaggiato in un universo alternativo, da cui è uscito mutato. La sua memoria ne è rimasta compromessa e così si è ritrovato a vivere in un mondo che ha conquistato, sì, ma in un altro modo. Se fosse stata una long, mi sarebbe piaciuto soffermarmi bene sul come, il dove e il perché, ma il punto della storia sono i legami eterni che Loki ha con Asgard e con Sigyn, di cui ha riarrangiato le canzoni. Per coloro che non conoscono il personaggio, ebbene sì: Sigyn è la moglie di Loki nel canone scaldico. I buoni vichinghi hanno fatto sposare il dio dell’inganno con la dea della fedeltà e il loro matrimonio diede la luce a dei bambini, tra cui Vali, presente in questa shot. Altro, non so dirvi. Potrebbe essere una soulmate!AU, anzi, quasi certamente lo è, e contiene molte delle tematiche che prediligo. L’ho dovuta scrivere e l’ho scritta. Spero vi sia piaciuta, perché per molti versi è stata un po’ un vero e proprio esperimento, compreso il finale volutamente aperto.

Parafrasando l’infinita Melania G. Mazzucco, posso dire che “solo chi crea conosce la gioia di sapere che la freccia scoccata verso il cielo non è caduta ai nostri piedi, ma ha colpito il cuore di qualcuno.

Insomma, se vi ha emozionato, fatemelo sape’ con una recensione o usate le liste in alto a destra ♥.

Se volete leggere altre mie storie, potete andare sul profilo o sbirciare la mia long Solo un accordo. Per ulteriori info, tante foto di Loki, di Sigyn e di Tom e un po’ di divertimento… c’è la mia pagina facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/.

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose,

Shilyss

 

 

 

 

 



[1] Come insegna Marc Bloch ne “I re taumaturghi” in riferimento ai sovrani francesi e inglesi.

[2] Tutti i brand e gli abiti nominati sono esistenti.

[3] A questo punto lo avrete capito, spero. Per drammatizzare, ho immaginato che Asgard fosse già bruciata, come in Thor: Ragnarok. Allo stesso modo, il Tesseract, ovvero la gemma dello spazio, viene investita di una quantità di potere maggiore – consentitemi questa licenza poetica.

   
 
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