Un’altra
volta ancora
I fell into a
burnin' ring of fire
I went down,
down, down
And the flames
went higher
And it burns,
burns, burns
The ring of
fire, the ring of fire
(Ring of fire,
scritta da June Carter, cantata da Johnny Cash)
Le
dita pizzicarono leggere le corde tese della chitarra, intonando
l’inizio di
una canzone che non suonava più da qualche anno: una ballata
lirica, lenta e
vagamente struggente, rimasta in classifica per sessantatré
settimane. L’aveva
composta una sera lontana di giugno – creava testi e musiche
con una rapidità
disarmante, riservandosi di limarne ogni dettaglio anche per mesi.
L’impulso a
plasmare nuove melodie e frasi che si sposavano perfettamente tra loro
era
qualcosa che gli apparteneva, annidandosi nella parte più
profonda, insondabile
e antica della sua anima oscura.
C’era
qualcosa, in lui, di sbagliato, spezzato, storto.
Che
non riusciva ad afferrare, di cui aveva un’eco lontana
solamente quando
l’alcool lo stordiva, il distorsore della chitarra rombava,
la folla eccitata
invocava il suo nome alzando le braccia al cielo, come al cospetto
d’un
magnifico dio pagano.
Allora
c’era la scintilla. Una flebile luce che
s’accendeva nella profondità di
una memoria bucata, rischiarando l’immensa solitudine di un
re assiso su un trono,
la cui voce incantata conquistava schiere di fedeli – armate
di uomini e donne
disposti a tutto. Il pensiero gli provocò
un’inebriante vertigine: un sussurro,
implacabile, gli suggerì che l’estremo isolamento
era il necessario e giusto
prezzo da pagare per il potere – i corpi dei sovrani
appartengono alla gente
fin dai tempi in cui il tocco delle loro mani era considerato magico,
divino,
miracoloso[1].
Rise
della propria follia, domandandosi se avesse appena spento una
sigaretta a base
di tabacco o addizionata con qualche altra strana droga capace di
friggergli il
cervello. Si leccò le labbra che sapevano di whisky
terminando la prima strofa,
ma senza avventurarsi nel ritornello.
Lo
spartito originale di quella canzone non gli apparteneva
più. L’aveva regalato
assieme a molti altri oggetti di cui si era disfatto senza troppi sensi
di colpa,
perché i beni materiali in fondo sono questo –
feticci inutili, buoni solamente
per costruire la maschera che tutti, più o meno
consapevolmente, sfoggiavano.
Qual
era il suo vero volto? Che cosa avrebbe visto allo specchio, se
l’avesse tolta?
Ciò
che era davvero importante, lui l’aveva perso –
c’erano stati un luogo o un
tempo in cui era riuscito a stringere tra le dita qualcosa
d’eccelso e aveva
permesso che gli sfuggisse, smarrendosi in esso e con esso, ma non
ricordava
più né dove né come né
perché. Si alzò dalla poltrona imprecando, per
dirigersi
a passi svelti e regali verso il bagno della suite, confrontandosi col
suo
riflesso: i capelli scuri, generalmente pettinati
all’indietro, pendevano
scarmigliati e vagamente arricciati sul viso magro e scolpito, gli
occhi verdi,
aguzzi e attenti, saettavano nervosi da una parte all’altra
della stanza, le
labbra sottili erano increspate in una smorfia di divertita
commiserazione, di
bieco compiacimento.
La
cosa oscura dentro di lui grattava e ringhiava e rideva d’una
risata secca e
perfida.
Infilò
la testa sotto il rubinetto aperto. L’acqua gelata gli
bagnò i capelli, corse
sulle sue guance affilate, scivolò fino ad arrivare al naso
e alla bocca. Non aveva
bisogno di leggere lo spartito, per suonare la traccia che aveva
accennato
sovrappensiero: ricordava perfettamente ogni nota, accordo, evoluzione,
come
tutte le altre sue armonie, squisitamente rock o ballate che fossero,
ma quel
foglio scritto fittamente apparteneva alla sola persona cui aveva
mostrato uno
spiraglio l’abisso – un brivido gelido lo colse. La
mano fasciata tornò a
dolergli.
Le
carte del divorzio le aveva firmate con un bicchiere di Jack
Daniel’s in mano e
una sigaretta che gli penzolava tra le labbra, mentre era in viaggio
con la
band lungo la Route 66. Una tournée fortunata, selvaggia,
fottutamente epica,
che aveva fatto registrare concerti sold out praticamente ovunque. Un
successo
da festeggiare con la roba migliore, le ragazze più belle e
l’alcool che
scorreva a fiumi, assieme ai dischi d’oro che si facevano di
platino e alle
montagne di giornali statunitensi ed europei, colmi delle foto patinate
che lo
ritraevano durante le sue esibizioni sregolate e potenti nella massima
misura –
spettacoli degni di un incantatore o di uno stregone.
La
firma sul plico dell’avvocato era stata uno
svolazzo fatto tra un riff di chitarra suonato direttamente nella testa
e le
pressioni di quel gran figlio di puttana del suo manager. Era evidente
come non
ne potesse più di avere a che fare con rockstar stronze e
perennemente fatte,
che affogavano nel whisky il senso di divina onnipotenza e
d’immortalità che
poteva regalare solo uno stadio pieno di gente che canta brani scritti
da te,
seguendo la tua voce.
Ogni
volta che saliva sul palco e si esibiva qualcosa, in lui, vibrava. La
folla
esultante e impazzita che accompagnava strofe e ritornelli, che saltava
e
ballava al suono della musica composta da lui nelle notti in cui gli
incubi
tornavano a tormentarlo, lo faceva sentire come il pifferaio magico
capace
d’irretire le menti di chi lo ascoltava, come un condottiero
vittorioso la cui
comparsa infiammava gli animi della sua armata, come un principe o un mancato
re.
Il
pensiero scollegato lo fece sussultare, lì, nella camera
d’albergo avvolta
nella penombra d’un pomeriggio uggioso che
s’apprestava a divenire sera. C’era
qualcosa di perfetto, nel ritrovarsi davanti a migliaia di persone che
s’accalcavano per prendere un pezzo, uno solo, di lui. Per
strappargli l’anima
senza averla davvero.
Eppure,
non era lui che gliela concedeva, immolando il proprio corpo agile e
nervoso
sull’altare del successo? Non s’atteggiava a
principe, sulla scia di altri
performer altrettanto egocentrici, geniali, folli, distrutti? Solo e a
torso
nudo, con la chitarra tenuta ad armacollo e il sudore che gli imperlava
i
muscoli, avvolto dalle luci del palco, non permetteva alla sua
personalissima
armata di illudersi, crogiolandosi nell’inganno di una
connessione che, in
realtà, sarebbe stata per sempre tronca? Si
tamponò il volto con un asciugamano
pulito, cercando di levarsi di dosso ciò che restava delle
nottate precedenti. Brandelli
di memoria sparsa, niente di più. Neanche quella sensazione
gli era del tutto
estranea, come non gli era nuovo il dolore pulsante alla mano
– ma come se
l’era ferita, no, quello non riusciva a ricordarlo.
Sei
già caduto nel vuoto. Ti sei lasciato andare,
perché non eri degno – così hai
raccontato, ma sei un bugiardo.
L’arto
pulsava ed era abbastanza certo di non avere più
antidolorifici in camera.
Sarebbe bastato alzare la cornetta del telefono e, in dieci minuti,
l’assistente di cui non ricordava il nome gliene avrebbe
portati una scatola
intera, insieme a tutto ciò che poteva desiderare. Lui e la
band pagavano
appositamente per godere di un simile servizio. E poi, forse, qualche
pillola
avrebbe potuto imbavagliare le voci insistenti e
imperiose che gli ronzavano
nella testa.
Non
scriveva musica per metterle a tacere, ma per assecondarle e
liberarsene
momentaneamente. Anche dopo aver firmato la pila di documenti inutili
dell’avvocato
si era messo a comporre: il risultato era stato una poesia dura,
arrabbiata,
potente. Sposarsi era stato un errore, una sventatezza dettata dalla
passione.
Un
bussare leggero lo distolse dai suoi pensieri, mescolandosi col ritmo
del
ritornello di Ring of fire di Johhny Cash,
riprodotta distrattamente dal
giradischi - il suo batterista, una volta, gli aveva chiesto come mai
ascoltasse tanto spesso quella ballata lenta, ma.
Decise
di ignorare i rumori attutiti e dopo qualche istante d’attesa
i colpi ripresero
con più insistenza, accompagnati da una voce femminile,
lieve e decisa. Era
lei.
La
porta si aprì portando con sé il sentore esotico
dell’Hypnotic Poison di
Dior[2]
vaporizzato con
attenzione sugli abiti di squisita fattura. Le decolleté
italiane, lucide e
nere, calpestarono rapide la moquette fino ad arrivare a pochi passi da
lui,
consentendogli una visione privilegiata delle caviglie eleganti e
sottili della
loro proprietaria. Quante volte le aveva baciate, risalendo con
implacabile
lentezza lungo le gambe snelle e le cosce tornite, per farla sua dopo
un
concerto a cui lei aveva assistito occhieggiando da dietro le quinte,
ancora
ebbro dell’energia della folla? Un sussurro distante gli
sibilò all’orecchio
che così si sentivano i re, ma il
chitarrista non gli diede importanza. Di
nuovo quelle voci. Certi pensieri scollegati gli
attraversavano la mente
così, senza un motivo o un perché, spesso
accompagnati da immagini di conquiste
e di battaglie cui lui non sapeva né voleva dare un nome, ma
che metteva su
carta non appena si svegliava, nel vano tentativo di catturarne il
l’origine o
il senso o lo scopo. Lei sbuffò qualcosa, aprì le
finestre chiuse per cacciare
via il cattivo odore presente nella stanza. Loki socchiuse gli occhi,
infastidito dall’aria livida e fredda dell’autunno.
E una
voce sfrontata e perentoria gli sussurrava, nel profondo della notte,
che
quelle storie erano le sue, tutte. E il tono beffardo era quello che
avrebbe
usato lui.
L’aveva
amata in modo feroce, rapace. Ne ricordò la bellezza quando
gli si era
accostata per la prima volta, fasciata in un paio di jeans stretti e
con la
t-shirt di un altro gruppo annodata sotto il seno. Se solo fosse stato
capace
di trattenere tra le dita qualcosa di quello splendore. Nel suo petto
esposto non
c’era spazio per il rimpianto, ma nel trovarsela davanti
qualcosa gli raschiò
comunque il cuore e la gola, pulsando feroce.
Era
la stessa bestia antica che abitava in fondo alla sua anima, e sapeva
–
ricordava, sentiva – l’odore marcio del fango che
ricopriva le placche dorate
della sua sontuosa armatura; una che non ricordava d’aver
indossato, ma di cui
avrebbe potuto disegnare a occhi chiusi le decorazioni.
Aveva
combattuto infinite battaglie, versato il sangue scarlatto di mille e
più
soldati, ma una volta era stato sconfitto. Si era guardato attorno,
risvegliandosi dall’incubo di cieca follia in cui era
precipitato per trovare dei
ceppi ai suoi piedi e ai polsi – alcuni erano i segni
visibili di una sconfitta
recente, altri, più sottili, una promessa di morte da cui
era fuggito con in
mano qualcosa di così potente da
scardinare il tempo e lo spazio,
proiettandolo in un universo che a quello originario assomigliava
soltanto.
E
lei…oh, lei non doveva essere lì.
Era
eterea e altera e lo guardava con quegli occhi truccati di scuro, dolci
e
rotondi, incapaci di giudicarlo persino in quel momento.
♥
“Dicono
che al concerto di domani non vuoi suonare,”
esordì Sigyn, sfilandosi dal collo
lungo il magnifico foulard di seta d’Hermès. Aveva
lo sfondo bianco e decori
color avio su cui spiccavano dei cavalli bianchi. Il gesto con cui lo
posò sul
tavolo vicino fu fluido e naturale, fin troppo.
“E
per convincerni hanno chiamato te?” Loki si era poggiato
contro lo stipite
della porta che divideva l’anticamera della suite dal resto.
La squadrò da capo
a piedi, imprimendosi nella mente la figura snella della donna che
aveva
davanti e confrontandola con quella che ricordava, in cerca delle
similitudini
e delle differenze. “La tua visita è
senz’altro inattesa, forse persino
inopportuna,” le fece notare piegando la bocca in un ghigno.
Non riusciva a
smettere di guardarla. Non voleva neanche farlo.
Lei
alzò le spalle. “Ero in
città.”
Fin
dove lo comprendeva? Qual era il punto impossibile da superare,
perché era
tornata – l’avevano chiamata, strappandola ai
felici preparativi per un
matrimonio che le avrebbe garantito una vita finalmente serena,
lineare,
completa. Con un uomo che avrebbe saputo amarla e ascoltarla,
svegliandosi
accanto a lei ogni mattina, libero dal rancore senza nome che invece
grattava
la sua, di anima. Si leccò le labbra, perché
quella domanda, forse a causa
dell’alcool, non gli era rimasta intrappolata in gola, ma si
stava facendo viva
voce, velandosi di una punta spiacevole di ironia.
“La
data dovrebbe essere vicina,” osservò
concentrandosi sulla sfumatura color
ciliegia delle sue labbra ben delineate.
La
sua ex moglie scosse la testa bionda, senza dare a vedere se
l’allusione
l’avesse ferita. “Lavoro. Un paio
d’interviste interessanti ad alcuni artisti
emergenti,” spiegò. Non resistette
all’impulso di rendere l’ampia stanza
d’albergo un minimo più vivibile, vuotando con una
smorfia il posacenere colmo
di mozziconi di sigaretta, accigliandosi di fronte alle bottiglie
vuote. Loki
la lasciò fare per vedere dove volesse andare a parare.
Decise che a muoverla era
stato uno strano senso dell’abitudine, e che il fatto di non
aver tolto il
trench fosse un chiaro indizio di come anche lei ritenesse il suo gesto
inadeguato, stonato.
L’altro come
l’avrebbe presa? Fu tentato di
chiederglielo, si crogiolò all’idea della reazione
che le sue frasi pungenti
avrebbero senz’altro scaturito, ma poi Sigyn se ne sarebbe
andata via senza
voltarsi, portando con sé il suo profumo di donna.
La
vide avvicinarsi con una leggera esitazione, a passi misurati: voleva
dare
un’occhiata alla ferita bendata, ma annullare la distanza che
c’era tra loro
era un rischio. Significava rendersi conto della leggera scarica
elettrica che
li scuoteva ogni volta che i loro corpi s’avvicinavano
troppo, riconoscere la
tensione che corrodeva i loro nervi spingendoli a desiderare un
contatto,
cacciare indietro impulsi bassi e prepotenti che bruciavano, facendoli
sentire
vivi come non mai. Capire che niente di tutto questo era ancora
cambiato,
soprattutto, ma che il tempo e le loro azioni avevano rovinato ogni
possibilità
di riparare il passato. Sigyn gli prese la mano, la rigirò
per controllare la
fasciatura.
“Come
sta Vali?” le domandò a bruciapelo.
Un
lampo d’amore e d’orgoglio scintillò
negli occhi grigi della donna. Gli regalò
un sorriso genuino, totale.
“Sta
bene, ti ascolta sempre – è così
fiero di te. Ha vinto un’altra gara, la
scorsa settimana. Ti avevo lasciato un messaggio – vuole
sapere quando
passerete finalmente qualche giorno insieme.”
La
nota di rimprovero gelò la tensione sottesa, riportando a
galla problemi
antichi che l’attrazione mai sopita non poteva annullare.
Le
dita di Sigyn gli sfiorarono la mano e le bende, indugiando in una
sorta di
carezza trattenuta: ogni volta che guardava Vali riconosceva Loki.
Nello
sguardo furbo e verde del bambino, nel suo modo di sorridere,
imbronciare le labbra,
iniziare un discorso e in mille altri dettagli ancora, c’era
l’impronta chiara
e precisa di suo padre. E lei amava rintracciare tali somiglianze,
perché Loki
e la sua musica appassionata non le sarebbero mai stati indifferenti
nonostante
le incomprensioni, i litigi, i tradimenti, le assenze, le pressioni
esterne e
la ferocia di una passione che chiedeva di anteporre l’arte a
qualsiasi cosa –
ma quella richiesta lei l’aveva assecondata sempre, in
memoria delle lacrime
che le erano scese lungo le guance la prima volta che aveva sentito una
sua
canzone. Era rimasta incantata dalla voce roca e graffiante, dal testo
intenso,
dalla melodia avvolgente che aveva il sapore di luoghi mai visti, di
vini mai sorseggiati.
Rapita, aveva sentito la necessità di ascoltarla ancora e di
nuovo, senza
riuscire a smettere. Era come se Loki l’avesse trascinata
giù, verso il fondo
di qualcosa d’inconoscibile e perduto, ma bellissimo. Poi
l’aveva sentito
suonare dal vivo e l’impressione si era rafforzata
– lui cantava un mondo che
lei non aveva mai visto, ma che, in qualche modo, conosceva.
“Fammi
dare un’occhiata,” concluse la donna.
♥
Il
tocco di Sigyn era gentile e delicato come ricordava. Si era finalmente
tolta
il trench e lo aveva invitato a sedersi sul bordo dell’ampia
vasca. Aveva
disinfettato la ferita e cambiato la fasciatura in totale silenzio,
cercando di
rendere normale un’azione che non lo era – niente
lo era mai, se riguardava
Loki, lo sapevano entrambi – finché
l’assenza di rumore si era fatta assordante,
il brivido che anticipava ogni tocco o sfioramento, insostenibile.
“Come
te lo sei fatto? O anche: perché?” gli
domandò aggrottando le sopracciglia.
Loki non
volle ammettere di non averne la più pallida idea,
così raccontò una storia falsa
e divertente, sfruttando il momento per soffermarsi sulle dita veloci
di Sigyn,
sull’accenno di sorriso che le illuminava il volto mentre lui
condiva con
qualche facezia la sua menzogna. Quelle della mano destra ospitavano
alcuni
anelli di famiglia, ma la sinistra era maledettamente libera. Gli
sembrò un
affronto e un invito al tempo stesso. Si chiese dove fosse quello,
incantevole
e di foggia antica, che lui aveva scelto per lei, solo per lei,
e che
Sigyn toglieva unicamente per dormire, così come suppose ed
elaborò numerose teorie
vedendo che l’anulare non ospitava alcun sostituto.
“Ti
risposerai tra due mesi e non indossi alcun anello. È una
decisione curiosa,”
notò inclinando il capo in un ghigno cattivo.
Sigyn
s’irrigidì. “È prezioso e
assicurato,” gli spiegò, ma l’argomento
l’infastidiva,
era evidente. Loki, dal canto suo, non poté fare a meno
d’individuare la crepa
e sfruttarla, com’era nella sua natura fare,
perché un tempo aveva avuto quella
donna e ora lei non gli apparteneva più.
E
così era stato per molte altre cose, in mondi diversi, in
realtà dimenticate:
dov’è il cubo, Loki? In che luogo lo hai nascosto?
“Un
investimento, più che un dono,” notò
caustico, ricacciando via il pensiero scollegato
che gli aveva punto i pensieri.
Lei
si rabbuiò, senza smettere di sistemargli la fasciatura.
“Non ne hai il
diritto.”
“Di
fare che?” l’incalzò.
A
Sigyn, che aveva offerto fin troppe cose all’altare
dell’amore, tremarono le
labbra. “Di giudicare la mia vita,”
scandì, pensando a Vali che chiedeva di suo
padre e alle volte in cui si era alzata nel cuore della notte, trovando
Loki
intento a comporre febbrilmente quella sua musica ipnotica e
coinvolgente,
corroso dal bisogno di raccontare segreti senza nome, esasperato da una
ricerca
che si esauriva in un lampo azzurro di cui le aveva parlato qualche
volta,
mentre erano a letto dopo l’amore, ancora avvinghiati ed
esausti, le dita di lui
affondate nella massa scarmigliata dei suoi capelli d’oro.
Loki
assottigliò le palpebre, riducendole a due fessure
scintillanti. “Avanti,” la
schernì con voce perfida, “sii sincera: non hai
mai avuto ripensamenti? Non li
hai nemmeno adesso?”
Era
capace di scavare la verità e di metterla a nudo, esibendola
per quello che
era: un groviglio pulsante di contraddizioni, impulsi, sentimenti e
scelte complesse.
Sigyn gli invidiava da sempre la capacità di essere, allo
stesso tempo, un
poeta e uno stratega.
Scoprì
di amarlo ancora. Di averlo amato in ogni tempo. Fu
come trovarsi
sull’orlo di un precipizio e lasciarsi cadere giù,
in un abisso senza fondo che
l’avrebbe inghiottita. Si rese conto che non era stata capace
di dimenticarlo e
che non era cambiato nulla, dalla prima notte in cui si era alzata,
aveva
indossato la camicia di lui sulla pelle nuda e si era lasciata
richiamare dal
suono di una melodia sconosciuta e nota al tempo stesso. Nella
penombra, lo
aveva visto accarezzare con le sue belle dita le corde della chitarra
per
fondere insieme parole e note. Loki non si era accorto di lei che dopo
una
manciata interminabile di minuti; aveva alzato gli occhi fissandola in
modo
rapace e attento – come stava facendo in quel preciso istante
– per poi
rivolgerle una mezza risata soddisfatta. “Ti
piace?” le aveva chiesto.
Scoprì
di non essere in grado di dimenticarlo né di volerlo
davvero. Fu come guardarsi
allo specchio e riconoscersi per la prima volta – o non
trovarsi affatto.
Aveva
ripensamenti? Sospirò, reprimendo il brivido di tensione che
non l’aveva mai
abbandonata. “Loki, il fatto che sia qui non
c’entra assolutamente niente con
questo,” puntualizzò, ed era vero, da qualche
parte del suo cuore ci credeva
veramente. La mano era stata curata e ora Sigyn avrebbe potuto
finalmente
allontanarsi e andare via, anche se le sarebbe rimasta addosso quella
domanda
crudele, cui non voleva dare una vera risposta. Fece un passo in
direzione
della porta, ma l’altro incatenò lo sguardo al suo
e le afferrò di nuovo la
mano, le dita.
“Oh.
Allora li hai soprattutto adesso,”
decise, beffardo e trionfante.
Lei
impallidì, ma non fuggì il suo tocco –
non riuscì, non volle – come non
s’oppose,
quando la stretta si trasformò in una carezza leggera e
insolente che risalì
lungo il braccio, raggiungendo con infinita e studiata lentezza il
collo e poi
il mento, arrivando infine a sfiorarle le labbra schiuse, in attesa di
qualcosa
che non doveva esserci. Un tocco che era come una fiamma e la bruciava
da
dentro, riportando brutalmente a galla ciò che era stato
amare e sposare e
infine lasciare quella rockstar tormentata che suonava come nessuno e
si
distruggeva con la rapidità di una fiammata. Avrebbe dovuto
ritrarsi offesa, ma
non lo fece e lasciò che Loki annullasse ogni distanza
attirandola a sé e la
baciasse, lambendo la sua bocca quel tanto che bastava per farle
desiderare disperatamente
che proseguisse, per poi tornare all’assalto in un gioco
straziante che era un cercarsi
e un fuggire continuo. Nell’ansia di aversi un’altra
volta ancora, anche
Sigyn gli ghermì la bocca, mescolando con Loki i suoi
respiri ansiosi, urgenti,
disperati come quell’incontro muto che generava altro,
risvegliando la
necessità di toccarsi e ritrovarsi, schiavi
com’erano della tensione irrisolvibile
che sconvolgeva i loro nervi ogni volta che si avvicinavano troppo
l’uno all’altra.
Gli permise di sfilarle la bella gonna di squisita fattura, poi la
rigorosa
camicia in seta, infine di saggiare il suo corpo tremante di donna che
lui reclamava
con un desiderio e una disperazione che solo l’assenza poteva
far scaturire e
che lei conosceva bene.
L’errore
di amarsi un’altra volta ancora lo commisero così,
nella sera umida e fredda di
una città sconosciuta a entrambi.
Stavano
sbagliando, inciampando nelle ceneri ancora calde di una relazione
ormai
finita. Se avessero attizzato nuovamente il fuoco di un tempo,
sarebbero
riusciti a creare solo dolore.
♥
Loki
le suonò una ballata, dopo. Una che non aveva ancora finito
di comporre, ma
che, come tutte, gli apparteneva come se fosse il sangue che correva
nelle sue
vene, figlia di un mondo perduto ricusato e amato in egual misura. E
che, da
qualche parte, per un’inscrutabile ragione, conosceva anche
lei. Lo seppe
incrociando il suo sguardo liquido e grigio, dal trucco leggermente
sbavato –
colpa dei baci e delle carezze che si erano scambiati,
dell’amore consumato da
troppo poco. Sì, Sigyn apparteneva al suo stesso universo,
in qualche maniera, quello
che invadeva i suoi sogni – bagliori dorati come le ciocche
di lei che
s’intrecciavano, caotiche, tra le sue dita – che
pensava di recuperare quando,
al mattino, si alzava con la consapevolezza di dover riacciuffare
qualcosa di smarrito
o nascosto che, forse, aveva semplicemente celato alla propria vista.
È il nostro
supplizio, Sigyn. Quello cui ci hanno condannato le Norne e che siamo
costretti
a replicare qui, nell’oscura Midgard.
C’era
stato un lampo blu. Poi il nulla, lo spaventoso abisso esistente tra i
vari
universi lo aveva inghiottito.
Sigyn
avrebbe dovuto alzarsi dal letto, rivestirsi senza guardarlo e andare
via.
Ritornare alla sua vita e dimenticare quella notte era
l’unica cosa che potessero
e dovessero fare. Avevano un figlio che non poteva vederli tornare
assieme,
perché si sarebbe crogiolato nell’illusione che
sarebbe durata per sempre,
finendo per soffrire di nuovo. Vivevano esistenze faticosamente
costruite, con
carriere che li avrebbero separati di nuovo. Una notte
d’amore non cambiava
nulla, anzi, peggiorava le cose.
Loki
aveva smesso di suonare, si era andato a fare una doccia e, quando era
tornato
dal bagno, con solo un asciugamano legato attorno alla vita addosso,
l’aveva
trovata ancora distesa nel suo letto, addormentata, nuda. Il calore
trattenuto
tra le coperte gualcite e confortevoli, unito al rumore della pioggia
incessante che aveva preso a cadere con violenza sulla
città, erano riusciti a
precipitarla in un mondo di sogni. Baciarla era stato un
errore la prima
come l’ultima volta, ma lui non aveva mai avuto
paura di sbagliare, perché
solo così era possibile avere accesso alla conoscenza,
all’esperienza.
Questo
aveva pensato, quando, con la bocca serrata da un bavaglio e un paio di
ceppi
ai polsi, aveva colto l’opportunità che gli si
parava davanti bloccandola con
un piede? Non visto,
si era chinato sfiorando un potere che si era rivelato corrosivo e
terribile,
spaventoso e magnifico. Si stese accanto a lei, come aveva fatto mille
volte
dopo i concerti in cui Sigyn lo aveva seguito, ma gli era rimasta
addosso l’eco
di una maledizione, pesante come quelle cantate dagli aedi. Fu allora
che
scoprì di avere la gola secca e la solita vecchia
inquietudine gli grattò il
petto. Aveva saggiato il potere di un artefatto più vecchio
del tempo e quello,
a discapito di ogni cosa, gli aveva mangiato la memoria e la ragione,
azzannando la sua mente, stritolando e mordendo.
Chiuse
gli occhi e fu allora che lo vide – lo sognò.
Un
prato verde che s’affacciava sul mare freddo, ostile e
bellissimo, circondato
da montagne che nascevano direttamente dalle acque. Un fiordo. Davanti
a lui,
c’era un uomo anziano con un solo occhio e una lunga barba
bianca, vestito con
un completo di lino candido e stazzonato. Lo stava aspettando, immobile
e
ieratico.
Loki
non voleva avvicinarsi, né tantomeno parlargli. Non sapeva
chi fosse – non lo
ricordava più. Fu l’altro a iniziare il discorso.
Lo chiamò per nome, lo
appellò come figlio. Il chitarrista era certo che mentisse e
gli uscì dal petto
una risata secca e amara, carica di un risentimento che conosceva per
averlo
cantato nei dischi che gli avevano portato fortuna e gloria, sopra i
palchi che
aveva dominato come un re. Il vecchio da un occhio solo scosse la
testa: era
addolorato e felice a un tempo, perché ciò che
Loki aveva costruito negli
ultimi anni era stato grandioso e potente; la sua musica aveva fatto
sognare
una generazione e così avrebbe fatto con le successive,
imprimendosi nella
cultura non di una città o di un paese, ma del mondo intero.
Midgard era stata
sua e gli era appartenuta. I suoi brani avrebbero spinto altri artisti
a usare
il loro ingegno per creare opere meravigliose componendo, certo, ma non
solo.
Molti si sarebbero lasciati incantare dalle sue melodie appassionate
per
scrivere romanzi, disegnare progetti, migliorare la vita, altri le
avrebbero
usate per fare da colonna sonora a film e spettacoli. In tutte queste
creazioni
delle più varie nature, sarebbe rimasta, per sempre, la
scintilla indelebile della
natura geniale e divina di Lingua d’Argento. Ma la
distruzione che aveva
portato in un altro luogo, in un altro tempo, era stata altrettanto
terrificante,
continuò il vecchio. Tuttavia, bene e male si sarebbero
bilanciati, alla fine,
generando l’equilibrio. Lui scosse la testa, inebriato da
quella profezia
magnifica e crudele a un tempo. Non capiva, non voleva
ricordare e
allora Odino sorrise.
“Devi
tornare e pagare, Loki, dio dell’inganno, principe di Asgard.
Restituisci ciò
che hai rubato, versa il sangue assieme a coloro che appartenevano al
tuo
mondo, al tuo tempo, al Ragnarok che aspetta solo voi due,”
lo esortò con voce
ferma e distante. “È il tempo sbagliato, questo.
Hai creato un inganno e ci sei
rimasto impigliato dentro. Hai usato il potere della gemma e quello ti
ha
corrotto. Tornate tra gli Æsir, Loki: noi non siamo
immortali. Non lo siamo
stati mai.”
“A
chi altri ti riferisci?” domandò
l’ingannatore, ma s’accorse di conoscere
perfettamente la risposta.
“Lei
ti ha seguito. Non può esistere un universo dove l’inganno
sia privo
della fedeltà,” rispose Odino
stancamente, e lui seppe che era vero, anche
se nella mitica Asgard lui e quella donna non condividevano quasi
più nulla –
l’aveva persa anche in quel luogo e l’avrebbe persa
per sempre, in un ciclo
senza fine, eterno e immutabile.
♥
Si
risvegliò di soprassalto, madido di sudore. Pioveva ancora.
Nella penombra
notturna, osservò la linea sinuosa del corpo delicato e
sottile di Sigyn e
ripensò all’incubo appena fatto, tentando di
rimetterne assieme i pezzi già
vaghi. Dicevano che le sue canzoni aveva un’impronta
particolare,
riconoscibilissima, ammaliante e diversa da tutto ciò che
esisteva: era perché
cantava storie di posti perduti – una nenia, in particolare,
era stata
replicata e riarrangiata fino a diventare tutt’altro. La sua
essenza era lì,
nello spartito che aveva dato via – donandolo a lei, che nel
giro di qualche
ora si sarebbe stretta di nuovo nel trench di Burberry per sparire
sotto la
pioggia, ombra d’oro in mezzo ad altre scure.
Quale
forza oscura e crudele lo costringeva a salire sul palco e a spalancare
le
braccia verso la folla urlante, che bisogno primario assecondava nel
raccontare
un mondo smarrito che, lo sapeva, non esisteva più da
nessuna parte perché era
bruciato fino alle sue fondamenta?[3]
Sapeva
tutto questo perché aveva osato violare le leggi
dell’universo intero, fissando
il punto più oscuro della gemma – quello che
conteneva tutte le ipotesi che
coesistevano insieme, nello stesso momento, nel medesimo istante.
La
conoscenza, in fondo, ubriaca come la vodka, come il miglior whisky
invecchiato, come l’idromele che un re guerriero faceva
distribuire ai suoi
soldati d’ogni ordine e grado, in banchetti fantastici dove
si celebravano vittorie
dai nomi altisonanti, s’inventano poemi atti a ricordare gli
amici caduti,
sedurre le ragazze più belle. La risata di una di loro si
mescolò alla nenia
antica e dolce, alla ninna nanna senza nome esaltata dal distorsore
della
chitarra elettrica, accompagnata dal basso e dalla batteria. Sigyn.
Era
stata lei, la donna che aveva al suo fianco per
un’altra notte ancora, che,
in un altro luogo, in un altro tempo, nella perduta Asgard,
gliel’aveva
sussurrata in letti di seta e pelliccia caldi e dimenticati o forse no,
sfiorandogli
con le sue dita sottili le guance affilate, il petto ampio, il torace
asciutto.
Risentendola, lei aveva pianto, inconsapevole, per sempre, di
ciò che era stato
e dell’incantesimo che li aveva avvolti, eppure, in qualche
modo, cosciente che
quella musica le era sempre appartenuta e faceva parte di loro.
♥
“Hai
tutto senza avere nulla, Loki. Come sempre.”
Sigyn
si era rivestita con lentezza e nella sua voce l’altro
riconobbe il rammarico,
il dispetto, l’amore.
Se ne
sarebbe andata senza tornare, lasciando solo una traccia di profumo sul
suo
letto, nient’altro. Il ricordo di quella notte avrebbe
bruciato le vene d’entrambi
ancora a lungo. Lei riprese il trench beige, raccolse il bel foulard di
seta,
colpevole d’essere fedele all’amore che
l’avrebbe intrappolata in questa vita e
in quelle future, così come aveva fatto con le precedenti.
“Ricchezza,
successo, amore, talento. Tutte cose che hai conquistato con
intelligenza e tenacia.
La gente ti adora, la tua band ti sopporta ancora nonostante i tuoi
capricci,”
riprese lei con un sorriso lieve e uno scintillio divertito negli
occhi. “Hai
Vali… e hai me,” concluse
abbassando la voce, perché quell’ultima
ammissione era vera e, al tempo stesso, non lo era più.
“Ma non ti basterà mai,
vero?”
“La
soddisfazione
non è nella mia natura,” ammise Loki, imprimendosi
nella mente la figura snella
ed elegante della donna che aveva perso in questa vita e nelle altre,
che
avrebbe ritrovato in quelle seguenti.
Non
la fermò quando la vide andare via, ma dopo che se ne fu
andata suonò le
canzoni di Asgard privandole di qualsiasi arrangiamento o modifica,
così come erano
state composte dai bardi, pensando alle occasioni mancate, alle
battaglie vinte
e a quelle perse. Rubando il Tesseract e sparendo aveva aperto un nuovo
corridoio
di ipotesi dentro cui si era smarrito, ma gli anelli di fuoco di certi
legami
capaci di sopravvivere al tempo e allo spazio avevano finito per
imprigionarlo
comunque. Sorrise divertito, pensando allo sguardo smarrito e alle
imprecazioni
che Thor doveva aver tirato giù quando lui era sparito con
la gemma.
Non
l’aveva perduta, ma nascosta sì. E ora ricordava
anche dove.
“Ritrova
te stesso,” gli aveva mormorato Sigyn ondeggiando sulla
porta, voltandosi un’ultima
volta. Si riferiva al brano che aveva accennato dopo che avevano fatto
l’amore.
Loki
piegò le labbra in un sorriso furbo, laterale e breve.
Comprese che lei non
avrebbe mai ricordato perché solo chi usava la gemma poteva
farlo. “E tu tornerai?”
Sigyn
non rispose, all’inizio.
♥
Ci sarebbero
stati altri Ragnarok,
successi, mariti, mogli, amanti. L’avrebbe rincontrata ancora
e di nuovo,
riconoscendo i suoi occhi liquidi e grigi nelle forme diverse e
sconosciute che
avrebbero assunto ogni volta. L’avrebbe cercata senza saperlo
né ricordarlo,
come aveva fatto quando si era illuso di essere libero da ogni vincolo,
nella torre
ancora in piedi di una New York distrutta dai Chitauri. Aveva visto il
Tesseract arrivargli ai piedi e lo aveva rubato, sparendo insieme a lui
in
cerca di una via di fuga che gli era costata fin troppo. Aveva ottenuto
la sua vendetta
sulla Midgard tanto amata da Thor, stregandola come l’altro
non sarebbe mai
riuscito a fare. Quanti avrebbero tradotto in parole ciò che
provavano nel petto
– amore, odio, rabbia, rivalsa, anelito alla
libertà – usando le parole che lui
aveva scritto, suonando le melodie antiche che la dolce e perduta dea
della
fedeltà gli aveva canticchiato? Con lei
aveva conquistato Midgard. Una punta
d’orgoglio gli graffiò il cuore. Ne era stato
degno.
E ora, sapeva
anche cosa doveva fare
e come. Ci sarebbero state altre battaglie, altri baci, altri amori,
altre
reliquie da rubare…
L’angolo
di Shilyss
Cari Lettori,
Il mio fandom
è decisamente “Thor,” ma
questa shot per ragioni di tematica ritengo debba trovarsi qui. Nasce
da una
domanda specifica: cosa è successo dopo che Loki, in Endgame,
ha preso
il Tesseract ed è fuggito? In questa shot, come spero si sia
capito, ha viaggiato
in un universo alternativo, da cui è uscito mutato. La sua
memoria ne è rimasta
compromessa e così si è ritrovato a vivere in un
mondo che ha conquistato, sì,
ma in un altro modo. Se fosse stata una long, mi sarebbe piaciuto
soffermarmi bene
sul come, il dove e il perché, ma il punto della
storia sono i legami eterni
che Loki ha con Asgard e con Sigyn, di cui ha riarrangiato le canzoni.
Per coloro
che non conoscono il personaggio, ebbene sì: Sigyn
è la moglie di Loki nel
canone scaldico. I buoni vichinghi hanno fatto sposare il dio
dell’inganno con
la dea della fedeltà e il loro matrimonio diede la luce a
dei bambini, tra cui
Vali, presente in questa shot. Altro, non so dirvi. Potrebbe essere una
soulmate!AU,
anzi, quasi certamente lo è, e contiene molte delle
tematiche che prediligo. L’ho
dovuta scrivere e l’ho scritta. Spero vi sia piaciuta,
perché per molti versi è
stata un po’ un vero e proprio esperimento, compreso il
finale volutamente
aperto.
Parafrasando
l’infinita Melania G. Mazzucco, posso dire che “solo chi crea conosce la gioia di sapere che la
freccia scoccata verso
il cielo non è caduta ai nostri piedi, ma ha colpito il
cuore di qualcuno.”
Insomma, se vi ha emozionato, fatemelo sape’
con una
recensione o usate le liste in alto a destra ♥.
Se volete
leggere altre mie storie,
potete andare sul profilo o sbirciare la mia long Solo
un accordo. Per
ulteriori info, tante foto di Loki, di Sigyn e di Tom e un
po’ di divertimento…
c’è la mia pagina facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/.
Ricordo che il
personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla
voce “Sigyn” su
Wikipedia, è una mia personale
interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.
A presto e
grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose,
Shilyss
[1]
Come insegna Marc Bloch ne
“I re taumaturghi” in riferimento ai sovrani
francesi e inglesi.
[2]
Tutti i brand e gli abiti nominati
sono esistenti.
[3]
A questo punto lo avrete
capito, spero. Per drammatizzare, ho immaginato che Asgard fosse
già bruciata,
come in Thor: Ragnarok. Allo stesso modo, il Tesseract, ovvero la gemma
dello
spazio, viene investita di una quantità di potere maggiore
– consentitemi questa
licenza poetica.