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Autore: ale93    06/11/2019    7 recensioni
Le preghiere di Dean arrivano come punture di spillo dietro la nuca. Castiel le lascia dove sono. Fino a quando smette di ascoltare. E il tempo scorre.
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Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Contesto generale/vago
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so it goes



Where do the words go when we have said them?
(Margaret Atwood, The Small Cabin)


Let me rough you up. I’m not new, neither are you.
Let me make my mark, stain and rumple, crush and crumple.
I know you. And you can take it.

(Suzanne Vega, Solitude standing)






Ecco uno dei suoi ricordi più recenti in quel bunker: un gradino della scala di metallo non era perfettamente fissato, se n’era reso conto per caso e da quel momento in poi il cigolio era diventato insopportabile. Così un sabato mattina aveva preso un cacciavite e, libro di bricolage alla mano, si era messo a ripararlo. Dean lo aveva trovato sotto la scala, con la scatola degli attrezzi ai suoi piedi e un principio di fastidio che, Castiel ne era sicuro, si sarebbe notato anche a miglia di distanza. Che stai facendo?, gli aveva chiesto Dean.
Organizzo una festa. Non lo vedi?
Quando Castiel aveva lasciato perdere le viti e il maledetto gradino difettoso e aveva sollevato lo sguardo in quello di Dean, vi aveva trovato qualcosa che non si aspettava di vedere. Non devi per forza aggiustarla, aveva detto Dean a bassa voce. Sorridendo, Castiel aveva risposto, non sarebbe un problema, se ci riuscissi.

Non era stato un momento speciale, nessun fuoco d’artificio né rivelazioni improvvise, ma quell’espressione di Dean ha lasciato un calco nella sua memoria. Castiel ricorda il misto di incredulità, gratitudine, soddisfazione e domande irrisolte che lo sguardo aveva irradiato.

Perché sembra che quel “qualcosa” sia sempre tu?

Mentre risale le scale del bunker nel silenzio tombale che lo circonda, tende l’orecchio: nessun cigolio. Lo aveva aggiustato proprio bene, quel gradino.

*


Guida per ore, a radio spenta. L’unico suono che riempie l’abitacolo è il vento che entra dai finestrini. L’aria lo fa sentire meglio: all’improvviso, sembra che i suoi polmoni abbiano bisogno del doppio dell’ossigeno e che il colletto della camicia non sia mai abbastanza largo.

La notte che si è lasciato alle spalle è stata piuttosto tranquilla e l’alba verso cui si dirige sembra limpida. Non ci sono molti altri mezzi sull’interstatale, davanti a lui solo una lunga linea di asfalto liscio.

Verso mezzogiorno arriva il primo messaggio di Sam. Che è successo? Dove sei? Se lo aspettava. Non per questo sa come reagire.

Ogni volta che lancia un’occhiata al telefono ha come la sensazione che possa animarsi e mettersi a parlare con la voce di Dean.

Puoi allontanarti quanto vuoi. Prima o poi tornerai, perché è questo quello che fai sempre. Anche Sam lo pensa: sono tutti bluff, i tuoi. Ti ho calpestato più di una volta e più di una volta hai gettato il tuo cuore ai miei piedi. In fondo, vuoi solo che ti chiami e ti chieda di venire da me. C’è qualcosa di profondamente triste, in tutto questo.

E perché sembra che quel “qualcosa” sia sempre tu?


Un paio di chilometri più avanti decide di spegnere il telefono.

*


Il serbaio si svuota dopo dieci ore di guida ininterrota. Non può fare altro che posteggiare in una stazione di servizio. Quando scende dalla macchina una fitta di dolore lo pungola alla parte bassa della schiena e lo costringe a restare piegato sulla fiancata per qualche minuto. La grazia sta bruciando molto più in fretta di quanto non voglia ammettere e la rabbia che lo consuma dall'interno non fa che accelerare la sua caduta in picchiata.

Beffa delle beffe, si ritrova a entrare in un Gas n Sip per comprare un antidolorifico. Già che c'è, fa rifornimento di acqua e di panini. L'ambiente gli provoca una bizzarra sensazione di familiarità. Gli scaffali sono uguali a quelli tra cui si affaccendava a Rexford, i prodotti in vendita sono gli stessi. Non ci ha lavorato abbastanza a lungo da scoprirlo, ma è quasi certo che, come ogni altra catena di negozi, il Gas n Sip sia uguale a se stesso in ogni interstatale. Stessi marchi, stessi prodotti surgelati, stesse macchine per preparare il frozen yogut. Probabilmente esistono anche centinaia di Steve.

In onore dei vecchi tempi, va a cercare un burrito preconfezionato. Dalla cassa, un ragazzo dall'aria annoiata e con un chewing gum in bocca lo squadra dalla testa ai piedi. "Lungo viaggio?" chiede con un sorrisetto. Non è davvero interessato alla risposta di Castiel. Sta solo cercando di attaccare bottone.

"Così sembra."

"Dovresti provare una di queste," continua lui, indicando un lattina di Red Bull. "Io vado per la Monster, ma quelli della tua età preferiscono restare sul classico, di solito."

Lo sguardo del ragazzo è arrogante. Gli sorride come se sapesse di poterlo convincere a comprare qualsiasi cosa con la sua parlantina e il fare sbarazzino.

È un Dean giovane. È esattamente così che se lo immagina a diciotto, diciannove anni. Irriverente, con un sorriso sghembo sul viso, gli occhi vispi. Incoscente. Terribilmente ingenuo.

Perché sembra che quel “qualcosa” sia sempre tu?

Castiel sistema sul bancone una confezione di antidolorifici, tre bottiglie di acqua, un paio di panini e il suo burrito preconfezionato.

"Sicuro?" insiste l'altro sventolandogli la lattina sotto al naso.

I modi di fare del ragazzo lo fanno sentire vecchio. E stupido. Gli sfila la Red Bull dalle mani e la aggiunge alla spesa con un moto di stizza.

"Wow. Forse era meglio consigliarti una camomillina."

*


Non so che cosa vi siete detti di preciso, ma Dean è ridotto uno schifo. È talmente chiuso in se stesso che si rifiuta di uscire dalla sua stanza. Possiamo parlarne?

Cas, per favore. Mio fratello sa essere un bastardo, ma puoi fare l'adulto almeno tu e mettermi al corrente dei fatti?

Senti, se non vuoi parlarne non parliamone, ma puoi almeno dirmi se stai bene e dove ti trovi?


Sam è un bravo ragazzo. Castiel non si sorprende di pensarlo, probabilmente quella è l'impressione generale più comune su Sam Winchester. È gentile, cortese e la maggior parte delle volte si sforza di assumere il ruolo di mediatore nei conflitti. È nel suo carattere. Ma non riesce a vederlo come tale, al momento. Non dopo Jack. È arrabbiato con lui. È deluso e amareggiato e ferito da Dean. E di un groviglio di sentimenti che lo avvelenano non sa che farsene. Si maledice per aver riacceso il telefono, ma più di tutto si chiede per quale motivo lo abbia fatto.

Perché sembra che quel “qualcosa” sia sempre tu?

Appena dopo essersi inoltrato nel Montana, la rabbia e il fastidio hanno la meglio. Ferma la macchina in una piazzola di sosta. È scesa di nuovo la notte e l'umidità appanna il parabrezza. Deve sembrare una figura spaventosa visto dall'esterno, parcheggiato a bordo strada e illuminato dalla luce tremolante del cellulare. Non spetta a me spiegare quello che non riesce a raccontare tuo fratello, ma se ci tieni: ha detto chiaro e tondo che vi sono d'intralcio e io credo che non valga la pena di accanirsi su qualcosa che non funziona.

Dopo aver inviato il primo messaggio, ci ripensa e aggiunge, Sono in viaggio per farmi un'idea di come riorganizzarmi. Sono a posto.

*


Alle quattro del mattino svolta e imbocca l'ingresso di un motel. È esausto e ha la schiena a pezzi. Le gambe tenute ferme nella stessa posizione per quasi 14 ore cominciano a non essere più così responsive.

Con movimenti rigidi e goffi entra nel cubicolo della reception. La donna alla postazione d'ingresso non lo degna di uno sguardo neanche quando il campanellino sulla porta segnala la sua presenza. Con voce automatica e incolore, dice: "Sono 20 dollari all'ora o 45 per una notte. Si paga prima di avere la chiave e per 10 dollari in più non ho bisogno di vedere i documenti."

Per un attimo resta interdetto. Non sa cosa rispondere: non ha un vero piano in mente. "Un paio di giorni," dice, tirando fuori il portafogli. Ha abbastanza soldi per coprire le spese per la stanza e quelle per evitare di mostrare un ID. La donna solleva la testa e gli lancia un’occhiata scettica. Il cartellino la identifica come Sally.

“Sono 100, allora. O vogliamo fare le presentazioni?”

“No, credo… facciamo tre giorni,” dice quasi con vergogna. È stanco, non sa dove si sta dirigendo. E in fin dei conti non è che abbia molti altri posti in cui stare. “Nessun documento,” chiarisce, le banconote sulla scrivania.

“Camera 666,” dice Sally, scrivendo sul registro clienti, “ops. Spero non porti sfortuna.”

Il senso dell’umorismo del mondo non lo stupisce neanche un po’.

*


Sotto il getto della doccia, si concede finalmente il tempo di rallentare. Fino a questo momento si è concentrato solo sull’allontanarsi il più possibile dal Kansas, ma adesso che non ha nient’altro da fare che ascoltare il rumore dell’acqua che lo lava è difficile non concentrarsi sui suoi pensieri.

Pensava che Dean lo avrebbe fermato.

Prova a immaginarselo per un attimo, lui che lo segue verso il portone del bunker, lo afferra per la manica e con l’aria di chi si arrabbia perché non conosce altri modi per interagire col dolore, gli chiede di smetterla di dire cazzate. Gli chiede di restare e risolvere con lui il problema.

Non crede che questo avrebbe fatto la differenza. Non sa neanche se è quello che avrebbe voluto, ma è quello che si aspettava.

Invece Dean era rimasto a guardare. Muto e immobile come una statua. Crudele. Arrabbiato con il mondo. Spaventato. Non aveva provato a seguirlo, nè aveva tentato di convincerlo a restare. Come se niente fosse, lo aveva lasciato andare. Castiel era finito in pezzi come un burattino a cui vengono improvvisamente tagliati i fili e Dean lo aveva calpestato, fino a quando di lui non erano rimaste che schegge.

L’acqua lo colpisce al viso e il calore che sente sulle guance è nulla in confronto alla vergogna che gli brucia nel petto.

*


Gli angeli non dormono, ma quella notte lui lo fa.

Cade in un sonno pesante, senza rendersi conto di quanta stanchezza avesse accumulato negli ultimi giorni. Negli ultimi mesi. Sogna momenti felici, la sua testa si riempie di immagini colorate in cui Jack fa colazione con cereali dai nomi irripetibili, riempiendo il suo caffè di una quantità di zucchero inaudita. Sogna un Dean che accarezza distrattamente le spalle di Jack entrando in cucina, sistemandogli la maglia e subito dopo sollevando lo sguardo in quello di Castiel. Sul suo viso speranza, devozione e un pizzico di soggezione, stiamo giocando a mamma e papà? Stiamo camminando sul filo del rasoio? Agli occhi di Castiel, Dean è sempre stato un padre perfetto. Dai modi burberi, certo, ma in fin dei conti buono e amorevole fino al midollo.

Perché sembra che quel “qualcosa” sia sempre tu?

Sogna la sua mano sulla fronte di Jack - di Belphegor e il nero profondissimo delle sue orbite. La voce del suo ragazzo, di suo figlio, distorta da un demone. Il suo corpo che incenerisce sotto le sue mani. Vorrei tanto ricambiare il tuo affetto, ma la verità è che non sento niente. Jack che uccide Mary senza rendersi conto di cosa sta facendo. Sei morto per me. Gli occhi di Dean che diventano vuoti e distanti anni luce, che non lo guardano più come prima. Sogna tutto quello che è andato in pezzi e si è consumato fino a quando non ne è rimasto più niente. Sogna tutto questo. E quando si sveglia di soprassalto, lo fa con le lacrime agli occhi e il sapore amaro della bile che risale per la gola.

Si porta una mano alla fronte, la pelle è bollente e sudata. Suda tantissimo da quando ha cominciato a perdere la grazia. L’ultima volta non era così. Adesso l’umanità fa male. È una lama che si conficca tra le scapole e affonda fino a perforargli il petto.

*


La telefonata di Sam arriva quando sta pagando la stanza per un’intera settimana. Il Montana gli piace. Hamilton gli piace. L’aria da piccola città incastonata nei boschi la rende il posto ideale per riprendere fiato, o almeno questo è quello che dicono le brochure gentilmente offerte da Sally.

Le legge con un certo interesse quando il suo cellulare comincia a vibrare nella tasca e la sua piccola bolla di apparente tranquillità si dissolve. Sa già chi c’è dall’altra parte del telefono.

“Cas,” il sollievo nella sua voce è così evidente e sincero che Castiel non può fare a meno di metterlo a confronto con l’odio che ha sentito nella voce di Dean l’ultima volta che si sono visti. “Ciao.”

Non risponde subito. Ascolta con fin troppa attenzione il silenzio in cui è immerso Sam. Si chiede se Dean sia lì a fumare di rabbia per il fatto che suo fratello sta parlando con lui o se non sappia nulla. Magari non gli importa. Magari in quel preciso momento si trova in un bar a bere una birra e a ridere in modo idiota davanti a una ciotola di arachidi come se non fosse successo niente. Come se Jack non fosse mai esistito, come se non avessero mai condiviso niente.

Non è un pensiero che dovrebbe sfiorarlo. Ma lo sfiora eccome. Lo sfiora, poi lo avviluppa e lo stringe alla gola fino a fargli vedere rosso dalla rabbia.

Sam si rende conto che Castiel non ha intenzione di partecipare alla conversazione, così continua, “penso che tu sappia perché ti sto chiamando.” Si ferma di nuovo ad aspettare una sua risposta e di nuovo Castiel tace. Non ha proprio niente da dire. “Cas, lo so che è un coglione. Credimi, lo so. E capisco perché te ne sei andato, ma-”

“Non ci sono ma,” dice e la sua voce è così cupa che quasi non la riconosce. È stanco che gli si dica di supplire a tutte le mancanze di Dean, di intervenire e correggere il tiro. Ed è stanco di fingere che tutto quello che è successo ultimamente sia niente. "Non potevo fare nient'altro."

Dopo l'ennesimo, imbarazzante silenzio, Sam si schiarisce la voce. "Stai bene?"

"Tu che dici?" Non aveva intenzione di aggredire Sam, è solo che c'è qualcosa che si ribella in lui. Ma non vuole discutere con Sam, vuole solo mettere fine alla telefonata e tornare alla sua tranquilla routine. Sally mastica rumorosamente un pezzo di carne secca, il riscaldamento dell'ufficio emette un ronzio continuo, nel parcheggio del motel due cani giocano a rincorrersi mentre un uomo li guarda con un sorriso serafico. È tutto quieto. Tutto regolare. Come dovrebbe essere.

"Senti," sospira Sam. C'è qualcosa di incredibilmente umano nella sua voce. Castiel non saprebbe dire cosa, ma c'è, "mi dispiace. Veramente. Se ti può interessare, quello che ti ha detto lo sta torturando. È un fantasma."

"Sam, so che ti dispiace e so anche che prima o poi anche lui arriverà con immenso sforzo a dire che gli dispiace. Ma ci sono delle cose che non si possono aggiustare così facilmente."

In un istante di pura lucidità, capisce che qualunque sarà la nuova strada da percorrere, per lui, niente potrà mai essere come prima. Ora che del suo cuore non sono rimasti neanche i pezzi da raccogliere, ha solo un mucchio di rimorsi e rimpianti. Se solo fosse stato meno ingenuo, se avesse commesso meno errori di valutazione, se non avesse perso di vista il quadro generale tante volte, se si fosse tenuto stretto Jack al petto e non avesse lasciato mai la sua mano. Se.

Si rende conto solo ora che Dean sapeva dove colpire perché conosce le sue paure e le sue remore. E ci è riuscito alla perfezione. Il fendente è andato a segno e Castiel, ancora una volta, si ritrova a sanguinare per lui.

Perché sembra che quel “qualcosa” sia sempre tu?

"Non so cosa dire, Cas." Il tono di Sam suona sconfitto e Castiel non ha intenzione di andare oltre. Non può.

"Non c'è bisogno di dire altro. È andata così."

"Non doveva. Non credo che sia quello che voleva davvero lui e non credo che sia quello che vuoi tu."

Castiel non sa esattamente cosa vuole. Se gli chiedessero di spiegarlo non riuscirebbe a indicare qualcosa di specifico al momento. I vecchi desideri gli sono stati strappati con la forza, i nuovi non sa nemmeno se esistano. Se mai esisteranno.

"Vorrei molte cose che non posso avere, Sam. La vita è così, me lo avete insegnato voi."

"Cas, per favore, possiamo…" la voce di Sam si spegne con una nota di tristezza finale che quasi lo spinge a rassicurarlo per automatismo. Ma non sa perché dovrebbe fare una cosa del genere.

"Ora devo andare. Ciao, Sam."

Quando chiude la chiamata, lo sguardo cade sullo schermo lampeggiante del telefono. La foto del contatto di Sam è un piccolo rettangolino con la sua faccia e parte della spalla. L'ha ritagliata da una foto più grande in cui loro tre si stringevano intorno a Jack, il piccolo della famiglia. Intravede la mano di suo figlio dietro il collo di Sam. È sottile, bianca e piena di un potere inimmaginabile. È la mano di un bambino.

"Ei 666, tutto bene?" Lo richiama Sally dalla scrivania dell'ufficio. "Non è stata una bella telefonata. Problemi in famiglia?"

"Non te lo immagini neanche."

Esce di lì con le tasche svuotate e la sensazione di essere solo al mondo. E forse è meglio così, perché non crede che potrebbe sopportare la presenza di qualcuno senza urlare di rabbia e frustrazione e dolore.

*


Un paio di giorni dopo vede di sfuggita un cartello affisso alla vetrina di una yogurteria. Cercano un commesso. Non è esattamente quello che si aspettava dalla vita, ma in qualche modo deve racimolare i soldi per andare avanti. Mentre andava via dal bunker non ha pensato ai dettagli tecnici della sua fuga e i pochi contanti che aveva sono volati via in benzina, viveri e motel. Con quello che gli è rimasto decide che è tempo di dismettere gli abiti da angelo caduto e comprare qualcosa di nuovo per fare una buona impressione al colloquio. Così si dirige verso il centro commerciale più vicino.

Il negozio in cui entra vende vestiti economici. Fa un rapido calcolo guardando le etichette dei prezzi: con i soldi che ha può comprare al massimo un paio di jeans e forse un maglione. Uno blu, in particolare, cattura la sua attenzione. È un riflesso condizionato. Uno scherzo della sua testa che si inceppa su un ricordo.

Il primo regalo di Jack era stata una maglietta blu. Gliel'aveva comprata per caso, senza che ci fosse alcun motivo o ricorrenza. Si era presentato in camera di Castiel con un pacchetto di carta fasciato con il nastro adesivo e un sorriso enorme sul viso. "Provala, dai" aveva detto. "Fammi vedere come ti sta."

Castiel aveva scartato il regalo, attento a non strappare i fogli di giornale in cui era avvolto. Lo aveva fatto piano e con cura, forse per godersi qualche secondo in più l'espressione entusiasta e orgogliosa di Jack.

La t-shirt era di colore intenso. Semplice e senza loghi. "Da mettere quando siamo in casa," aveva spiegato Jack. "Dean dice che la sensazione migliore del mondo è spogliarsi e mettersi comodi. Tu non lo fai mai."

Non era del tutto vero. Per un lungo periodo aveva apprezzato i jeans e le felpe. E le polo, anche se Dean rideva ogni volta che ne vedeva una. Ma come spiegare a Jack di un tempo in cui non aveva nulla se non due spiccioli in tasca e un sacco a pelo nel retro di un Gas n Sip senza suonare vecchio e pietoso? E a dire la verità era per questo che raramente indossava abiti diversi da quelli di Jimmy. Gli facevano venire in mente molte cose che lo costringevano a chiudersi in se stesso, intrappolato nei ricordi di quel periodo.

Ma Jack era così felice e i suoi occhi così entusiasti che non poteva fare a meno di infilarsi quella maglia ogni volta che metteva piede al bunker. Ogni volta che rientrava a casa.

Successe una mattina molto presto, intorno alle cinque, con l'alba che cominciava a colorare le finestre. Aveva quella maglia addosso e si stava versando un caffè dando le spalle all'ingresso della cucina; i capelli gli si erano rizzati sulla nuca quando aveva iniziato a sentirsi osservato. Voltandosi, si era reso conto che Dean lo fissava appoggiato allo stipite della porta.

Si erano guardati a lungo, storditi dal fatto di trovarsi uno di fronte all'altro in un giorno senza corse per salvare il mondo. Gli unici compiti da svolgere in giornata sarebbero stati fare la spesa in fondo alla strada, cucinare il pranzo, tenere Mary lontana dal computer almeno per un giorno, prima che scappasse via dal bunker per mettersi in strada al primo caso sospetto in qualche angolo sperduto degli Stati Uniti.

Dean aveva solo le calze ai piedi e i capelli arruffati dal cuscino appena abbandonato. Per qualche motivo a Castiel sembrava che fossero nudi uno davanti all’altro. E lo sguardo di Dean fermo all’altezza del petto di Castiel non aiutava. Una ruga di perplessità aveva cominciato a formarsi in mezzo alle sue sopracciglia, come se si stesse interrogando su qualcosa. C’era preoccupazione nei suoi occhi. Aveva l’aria di chi voleva qualcosa da lui, qualcosa che non era in grado di chiedere. Castiel non sa perché, ma si era sentito gelare sotto quello sguardo. Dalla pianta dei piedi nudi contro il pavimento fin dietro la schiena.

"Ne vuoi un po'?" aveva detto, sollevando la caraffa di caffè. Per spezzare la tensione o per trovare qualcosa di intelligente da dire che non fosse ti voglio da dieci anni, dalla prima volta che mi hai guardato in quel modo. Si sentiva teso e a disagio. Non c’era molto su cui soffermare l’attenzione e, in quel momento, il suo sguardo continuava a vagare verso il viso di Dean come una falena attratta da una fiamma. Una fiamma accecante, bellissima. E potenzialmente letale.

"Mi piace questa maglia,” aveva detto Dean, ignorandolo. Poi aveva cominciato ad avanzare sotto la luce gialla della stanza, “è nuova?"

Sembrava un bambino, con le spalle strette per il freddo sotto la felpa e le calze ai piedi che attutivano i suoi passi. Castiel si era goduto ogni fotogramma di quella vista. Era un’immagine intima e perfetta e in quel momento aveva deciso che l’avrebbe conservata per sempre nella sua mente.

“Me l’ha presa Jack.”

Dean non aveva smesso un secondo di guardarlo negli occhi come se fosse là la risposta a tutte le sue domande. “Il ragazzino stravede per te,” aveva sussurrato. Non c’era scherno o divertimento, in quelle parole. Solo una strana mescolanza di affetto e tenerezza e qualcos’altro di più profondo che Castiel non riusciva a ignorare.

C’era sempre un velo di malinconia di disperazione a coprire tutto quello che avevano, tutto quello che non riuscivano a dirsi fino in fondo.

Di momenti come quelli ne ha vissuti a ripetizione. Li ha mandati in replay nella sua testa per tanto tempo, studiandoli e analizzandoli con l’attenzione di chi cerca di tradurre una lingua sconosciuta. E in nessun caso è arrivato a una soluzione. O, almeno, non è mai arrivato a una soluzione diversa da quella che continua a rombargli nel cervello sin dalla prima volta in cui ha sanguinato per Dean Winchester.

Castiel ha sempre voluto un sacco di cose da lui. E non pensa di essersi sbagliato per tutti quegli anni a credere di non essere l'unico.

Quando Dean si era fatto abbastanza vicino da poterlo toccare, Castiel aveva risposto, “Stravede anche per te.”

“No, è diverso," aveva detto Dean. "Ti guarda come se fossi un supereroe. Io sono solo quello che rompe i coglioni e gli lascia bere una birra ogni tanto.” Aveva un’aria afflitta e, Castiel lo sapeva, le sue parole erano pregne della distorta convinzione di non essere abbastanza adatto al ruolo di padre.

“Vedi sempre e solo quello che vuoi vedere e nel modo in cui vuoi vederlo, Dean.”

Lui non ne era sembrato affatto convinto. Aveva annuito alle parole di Castiel come se dargli ragione potesse mettere fine alla questione. Dean odiava sentirsi lodare. C’era qualcosa di profondamente sbagliato in questo e Castiel lo aveva sempre saputo. Tutte quelle remore di Dean sulle proprie capacità di mentore e di punto di riferimento avevano dato miccia allo spirito polemico dentro di lui. “Ti vede come un modello da imitare più di quanto tu non creda.”

“Ma tu sei suo padre,” aveva insistito Dean, bisbigliando. “Lo vedo come ti guarda ed è come io guardavo il mio. È…” ogni parola era pronunciata in un sussurro così basso, che Castiel faticava a distinguerle.

“Dean.”

Lo sguardo di Dean era scattato nel suo e Castiel vi aveva visto tutta la devozione e il terrore e l'orgoglio e l’affetto e l’intimità di quella famiglia che, senza rendersene conto, avevano tirato su insieme. Era molto di più di quanto Dean pensasse di essere capace di sopportare, riusciva a leggerglielo in faccia. “Cas, io,”

Non c’era più un semplice legame affettivo in quella bolla che condividevano, ma qualcosa che aveva più a che fare con il calore di due persone che accudiscono qualcuno insieme e lo legano a filo stretto alla loro quotidianità. Qualcosa che li aveva portati pericolosamente vicini a perdere l’equilibrio dalla parte giusta del filo, quella parte in cui non potevano più fingere di essere due uomini adulti in grado di dividere una birra senza che il silenzio li trascinasse verso il pensiero di toccarsi, consolarsi, tenere insieme i pezzi l’uno dell’altro.

Non aveva fatto altro che appoggiare una mano sul braccio di Dean, esattamente dove anni prima aveva lasciato la sua impronta. Non trovando niente da dire che potesse sollevare la tensione dalle spalle di Dean, aveva deciso di smetterla di cercare di smorzare il momento e aveva lasciato che prendesse la piega che doveva.

Per qualche secondo, erano rimasti in piedi vicino al ripiano della cucina. Senza dire niente. Castiel si aspettava che Dean si allontanasse, che mettesse un punto all’ennesimo momento imbarazzante per tornare al sicuro dei loro non detti. Invece, come se stesse raschiando il fondo di un barattolo, aveva tirato fuori delle parole che si erano marchiate a fuoco nella mente di Castiel ed erano rimaste a bruciare come un’ustione. “Mi piace il tipo di padre che sei. Mi piace che,” il sussurro di Dean si era smorzato e aveva dovuto deglutire prima di continuare, “che siamo una famiglia.”

Castiel era sull’orlo del precipizio e si sentiva come qualcuno che aveva deciso di mollare la presa. Non sapeva bene cosa stesse lasciando andare, ma aveva deciso che era troppo stanco di impegnarsi. Non ne vedeva più il senso. Un tempo, avrebbe lasciato a Dean il tempo di vergognarsi di se stesso. Sarebbe rimasto a guardare mentre lui si rimangiava una a una le sue parole e i suoi tentativi di scavalcare i suoi stessi muri. Ma voleva qualcosa di diverso dal giocare a nascondino.

Perché sembra che quel “qualcosa” sia sempre tu?

Non aveva fatto molto. Era bastato un accenno di carezza sul braccio che teneva stretto. Un gesto che sarebbe potuto passare per un riflesso. Invece Castiel aveva insistito e, deliberatamente, aveva tirato Dean verso di sé. Lui non aveva smesso un attimo di fissarlo, gli occhi spalancati e pieni di terrore e speranza, come se Castiel avesse in tasca una soluzione magica per aiutarlo a tagliare gli ultimi, ingombranti fili che lo tenevano legato. “Anche a me piace,” aveva mormorato Castiel, l’odore del bagnoschiuma di Dean nelle narici e le mani che sudavano e fremevano, “mi piace avere una famiglia con te.” Era bastato questo e Dean si era sciolto come pasta frolla tra le sue mani. Con un lamento sommesso aveva appoggiato la fronte sul suo petto. “Mi piace quello che sei con lui,” aveva continuato Castiel, parlandogli all’orecchio, disperato all’idea che quella bolla si sarebbe rotta da un momento all’altro e lui non avrebbe più avuto modo di dire ad alta voce ogni singola cosa che gli ribolliva nel sangue. “Mi piace quando sei orgoglioso di lui, mi piace quando ci guardi come se fossimo un premio. Mi piace avere una famiglia con te,” aveva ripetuto, forse con una punta di soddisfazione per le reazioni che stava provocando. Ma in fondo non aveva più niente di angelico ormai, era solo un uomo.

Dean respirava pesantemente nell’incavo del collo di Castiel. La bocca premuta sulla sua giugulare, una mano chiusa a pugno tra le sue scapole e i capelli che solletivacano la guancia di Castiel. “Basta,” aveva detto, tenendo le labbra premute sulla sua pelle. “Cas, basta.”

“Non sto facendo niente,” gli aveva risposto.

“Sì, invece.” Una mano di Dean era risalita verso la sua nuca e lo sfiorava come se non sapesse come muoversi. Il resto lo aveva fatto Castiel.

La bocca di Dean era caldissima, insicura solo all’inizio. Sapeva di dentifricio. Le sue mani si erano aperte sulla t-shirt di Castiel e per uno stupido momento lui si era chiesto se potesse sentire il suo battito accelerato. Dean aveva continuato ad aggrapparsi alla sua maglia e a stringergli la nuca come se fosse un ancora di salvezza ed era così perfetto contro di lui che Castiel avrebbe voluto non aver bisogno di respirare. Invece aveva dovuto allontanarsi quel tanto che bastava per prendere aria. Dean aveva inseguito la sua bocca, baciandogli il mento, un angolo delle labbra. I suoi occhi brillavano sotto il lampadario della cucina. I suoi baci non erano teneri, c’era una nota di disperazione e bisogno nei suoi gesti che facevano sentire Castiel un elefante in un negozio di cristalli: un gesto sbagliato e ogni cosa sarebbe andata in frantumi.

La voce di Dean era roca e piena di desiderio quando aveva detto, “non riesco a pensare, non era così prima, ma non riesco più a…”

“Dean, va bene. Va bene così. Non c’è niente di male.”

“Sì che c’è. Non dovrei-”

Poi un rumore dal fondo del corridoio li aveva distratti: Jack si era svegliato, Sam stava camminando verso la cucina. Dean si era improvvisamente e irrimediabilmente irrigidito contro di lui. Le mani aperte sul petto di Castiel si erano immobilizzate. “Dean,” aveva cercato di richiamare la sua attenzione. E Dean lo aveva guardato ancora, impaurito e affannato e con le labbra gonfie.

Castiel lo aveva baciato di nuovo, più brevemente. Le labbra di Dean si erano aperte e richiuse; dopo un attimo di stordimento, si era lasciato andare ad un sorrisetto. “Stronzo,” aveva detto e per tutto il resto della giornata non avevano fatto altro che guardarsi di nascosto come adolescenti innamorati persi.

Poi Jack aveva cominciato a peggiorare, la sua anima era diventata una preoccupazione costante. E dopo… dopo erano arrivati dove erano arrivati. A toccare il fondo. Ogni cosa aveva cominciato a franare, seppellendoli sotto cumuli di problemi e disastri e dispiaceri.

Pensando adesso a tutto quello che hanno passato, osservando ogni cosa dalla sua nuova prospettiva, Castiel ha l’impressione di trovarsi al cospetto di un cadavere senza vita. Non c’è niente del loro rapporto che non sia stato ammaccato, nessuna parte di quello che avevano costruito che non sia stata avvelenata.

Qualcosa si è irrimediabilmente rotto.

All’improvviso, il maglione blu che ha tra le mani sembra fatto di fuoco e fiamme e lui deve lasciarlo andare, prima di bruciare per colpa sua.

Perché sembra che quel “qualcosa” sia sempre tu?

*


Quella notte, i sogni continuano a tormentarlo.

La bocca di Dean sul suo petto, le mani che ridiscendono lentamente il suo addome. La sua lingua che traccia ogni segno non rimarginato dalla grazia. Sogna Dean che lascia marchi e graffi sulla pelle, che si aggrappa alle sue spalle mentre fanno sesso strozzando ogni gemito in gola. Sogna di tutte le volte in cui si è permesso il lusso di sussurrare all’orecchio di Dean tutto quello che voleva, di dirgli, mi hai dato una casa, una famiglia, mi hai dato una vita mia e io ho bisogno di te, ho bisogno che tu sia con me, Dean, ho bisogno di te.

Sogna dei giorni in cui Dean lo abbracciava all’improvviso e di quelli in cui tornava ad essere freddo e distante, dei momenti in cui metteva da parte le tenerezze solo per sentire di avere ancora il controllo di se stesso. Sogna di quelle volte in cui il cuore gli si spezzava dalla voglia di prendergli le mani, stanche e sporche di sangue, e baciarle fino a farle smettere di tremare. Sogna di quelle volte in cui Dean fingeva che non ci fosse niente di nuovo tra loro due, offrendogli una birra e parlando di donne e di sport come con chiunque altro.

Sogna delle volte in cui gridava nel cuscino per la rabbia e la frustrazione e la disperazione.

Perché sembra che quel “qualcosa” sia sempre tu?

*


Va così per un po’. Ogni cosa scorre per inerzia. Nè bene nè male. Il dolore diventa un rumore bianco nelle sue orecchie. Non è capace di liberarsene, ma ci sono momenti della giornata in cui lo lascia respirare. A volte piange da solo, nella 666 del motel. Gli angeli non piangono, ma lui non ricorda nemmeno come fosse essere un angelo.

Il resto del tempo si tiene impegnato, si comporta come se avesse sempre un gran da fare. Ed è vero. È impegnato a far finta non essere un guscio vuoto, a non mostrarsi privo di emozioni e speranze. E spesso ci riesce.

*


Tre mesi dopo aver lasciato il bunker, Castiel ha costruito una routine. Lavora su turni alla yogurteria e il suo capo, che per ironia della sorte si chiama Steve, gli concede spesso il sabato libero, anche se lui non sa che farsene. Con il vecchio nome di copertura bruciato, ora si fa chiamare James e James è un tipo del tutto ordinario. Si sveglia ogni mattina alle sei in punto, beve caffè nero lungo per tenere le mani strette attorno alla tazza il più possibile e il giovedì sera mangia hamburger alla tavola calda vicino al motel. Ha risparmiato abbastanza da potersi permettere l’affitto di un appartamento, ormai, ma continua a rimanere nella 666. Sally dice che è perché ci prova con lei. In realtà, si tratta solo di una malsano nostalgia che gli impedisce di stabilirsi in una casa che non sia il bunker.

Non crede che la sua possa definirsi una vita del tutto normale, ma ci si avvicina molto. Un paio di clienti della yogurteria lo trovano simpatico e lo trattano come se facesse parte della comunità da anni. A volte, solo a volte, non può fare a meno di pensare a Dean. Una sera si è masturbato sotto la doccia pensando a lui: nell’istante in cui ha raggiunto l’orgasmo ha sentito le lacrime pizzicare agli angoli degli occhi. Si chiede cosa dica di lui il fatto che lo ami ancora adesso, nonostante tutto quello che è successo. Nonostante quello che si sono fatti. Si chiede se Jack potrebbe mai perdonarlo per quello che prova per Dean, nonostante quello che ha fatto a lui.

Ha ricominciato a cacciare: non si tratta mai di casi troppo complicati. Per lo più fantasmi. Un paio di settimane fa ha trovato un piccolo covo di vampiri: se l’è cavata bene, a parte una ferita alla spalla. Ci vorrà un po’ per farla rimarginare senza grazia e la pelle tira e prude e brucia, ma non lo prende come un cattivo segno. Al contrario, studia il decorso del taglio con interesse scientifico: deve ancora imparare a curarsi da solo, a darsi dei punti senza sentirsi svenire.

Di tanto in tanto, il telefono squilla. Sam gli parla della vita al di là del Montana, gli chiede come procedono le cose e il suo tono di voce tradisce spesso un sentore di preoccupazione e tristezza. Accenna a Dean, qualche volta, e alla sua abitudine malsana di tornare a casa ubriaco una sera sì e una no. Castiel non replica mai, ma ogni informazione scava un buco nella sua testa e lo costringe a tornare col pensiero lì dove non vorrebbe andare. Non può impedirsi di riconoscere uno strattone all’altezza del petto quando sente in sottofondo alle chiamate la voce di Dean. Sono solo echi lontani, ma tanto basta per dover mettere fine alle comunicazioni, prima che faccia cose inutili e umilianti, come chiedere come stia.

Altre volte è Dean a chiamare. Solo due volte, per la precisione, e in entrambi i casi ha lasciato che il telefono squillasse mentre il sangue gli andava a fuoco nelle vene.

A inverno inoltrato la yogurteria comincia a rallentare il ritmo: non ci sono abbastanza clienti per giustificare l’orario continuato. Da quando Steve gli lascia tutti i pomeriggi liberi, Castiel si sente impazzire. Si offre come volontario come guardaboschi pur di non dover tornare al motel a piangersi addosso. In realtà, è un lavoro che gli piace molto: gli permette di tenere sotto controllo le zone calde del territorio, nel caso in cui ci fosse l’insorgere di nuovi casi. Ogni prima domenica del mese è chiamato a tenere degli incontri con i bambini del posto per insegnare loro il rispetto per l’ambiente: sono i momenti che ama di più della sua attività di volontariato. Lo fanno sorridere. Non pensava che sarebbe successo: la prima volta ha temuto di crollare sotto il peso del dolore. Pensava davvero che si sarebbe ritrovato a nascondersi in un angolo. In realtà, il contatto con i ragazzini lo aiuta. A volte sono particolarmente indisciplinati e lo costringono a fare la voce grossa. Non sa se è del tutto credibile, non ha lo stesso polso di un tempo e, come spesso diceva Dean, è diventato un “pezzo di pane” nel corso degli anni. Ma si è guadagnato un certo rispetto da parte dei genitori e questo gli basta.

Una mattina di fine gennaio si ritrova a fare i conti con quasi quaranta centimetri di neve accumulatisi nell’arco di poche ore. La cabina di guardia in cui si trova è gelida, le fronde degli alberi ghiacciate. Non sa se sia la suggestione a condizionarlo o se sia la grazia ad aguzzargli i sensi e a farlo sentire sulle spine, ma guardando il bosco dalla finestra ha il sentore che ci sia qualcosa fuori posto. Decide di andare a dare un’occhiata e di tenere pronta la lama angelica.

Una volta fuori il freddo lo colpisce in viso e i suoi stivali affondano nella neve mentre avanza. Si guarda intorno alla ricerca di non sa bene cosa. Il vento soffia rumorosamente tra gli alberi e i cespugli e gli schiaffeggia la pelle. Ogni muscolo del suo corpo è in tensione e pronto a scattare, ma non riesce a capire il perché.

Non ci riesce, fino a quando non sente un familiare fischio all’orecchio. Lo coglie talmente tanto di sorpresa che la sua mano ha uno spasmo e lascia cadere la lama.

“Cas.”

Sembra impossibile, è impossibile, ma la preghiera di Dean arriva come un soffio languido dietro il collo.

“Non so se mi puoi sentire, o se vuoi sentirmi, ma io-” Dean prega in modo sommesso e timoroso, è come se stesse sussurrando ogni parola direttamente al suo orecchio. La grazia di Castiel sembra inseguire quella preghiera e anela all’anima da cui proviene. È come uno strattone al centro del petto che lo porterebbe in capo al mondo, se servisse, pur di raggiungere quella voce. Ed è frustrante e avvilente.

“Ascolta. Ho mandato tutto a puttane. Inutile girarci intorno. Ho sbagliato su così tanti fronti che non so come rimediare. Dovrei dirti un sacco di cose, ma non so- Non so che fare. Non so che dire per sistemare tutto.”

Il cuore gli batte nel petto come impazzito. Si odia per questo, per il fatto che ancora Dean riesca a ridurlo così, per come una voce sa farlo irrigidire sul posto. Si odia perché i suoi sentimenti lo tradiscono in modo meschino e subdolo.

Potrebbe smettere di ascoltare, lasciare che la preghiera si disperda nell’etere. Ma non ha abbastanza forza di volontà. È Dean quello che gli sta parlando e a lui è sempre bastato questo per vacillare. Che Dean gli parlasse, che Dean esistesse nelle sue vicinanze. E quanto è patetica una cosa del genere per qualcuno che era un essere potente che guardava l’umanità con aria di sufficienza? Quanto è ridicolo che sia distrutto nel profondo e che, nonostante tutto, il suo cuore di spezzi al suono della voce di Dean?

Perché sembra che quel “qualcosa” sia sempre tu?

“Ero incazzato, ma non era te che volevo e dovevo ferire. Ho mandato tutto a puttane,” ripete e la sua preghiera diventa disperata. “Cazzo. Per favore. Possiamo parlare?”

Sa a che cosa sta pensando Dean. Lo avverte. È come un impulso elettrico che arriva direttamente al centro della sua memoria e accende il proiettore sugli stessi ricordi evocati Dean. Una patina di nostalgia colora tutti i momenti che gli passano per la testa. Quando pensa a lui, c’è una mescolanza di dolore, desiderio e sconforto e… qualcos’altro. Amore. È amore. Castiel lo sa, lo sente da anni e deve costringersi a fingere che sia altro. Perché Dean non è mai stato pronto. Perché non ha mai voluto che si sapesse. Perché Dean non ha mai voluto amarlo. Adesso è diverso e nonostante tutto, questo non cambia le cose. Il rapporto che avevano è comunque compromesso e non crede che potrebbero mai tornare a quello che erano prima. Castiel non vuole che si torni semplicemente a come erano prima. Prima di Jack, prima della loro famiglia, prima di aver guardato Dean insegnare a suo figlio come sparare un colpo di fucile o come preparare un’omelette. Non crede che sarà mai capace di andare oltre e non lo vuole.

"Cas, ho ancora bisogno di te. Sono un egoista di merda e ho ancora bisogno di te. Non per il tuo aiuto e non perché mi salvi il culo."

Allora perché?, vorrebbe gridare, perché hai tradito la fiducia di Jack, perché hai continuato a calpestarmi. Perché hai smesso di guardarmi come prima. Ma è inutile, è tutto inutile. Non ha senso farsi questo. Così trova abbastanza forza per mettere a tacere la preghiera di Dean. Per tornare a essere morto per lui, per continuare a vivere come un James qualunque. Qualcuno che Dean non conosce, qualcuno che non può distruggere.

Perché sembra che quel "qualcosa" sia sempre tu?

Perché qualunque cosa tu faccia non riesco a scollare la mia esistenza dalla tua? Perché hai dovuto mostrare la tua faccia peggiore alla cosa più bella che ci fosse capitata, alla nostra famiglia, e perché adesso vuoi tornare a essere l'uomo per cui ho provato un amore blasfemo e osceno e puro?


Castiel raccoglie la lama dalla neve e si rintana nella cabina di guardia. Chiama il suo referente e chiede di essere sostituito. Due ore dopo guida verso il bar più vicino, per destinazione ha il fondo di una bottiglia di whisky.

*


Il tempo scorre.

Un minuto dopo l'altro. I giorni si accumulano senza che lui ne tenga il conto.

E le settimane diventano mesi.

Le preghiere di Dean arrivano come punture di spillo dietro la nuca. Castiel le lascia dove sono.

Fino a quando smette di ascoltare.

E il tempo scorre.

*


"Non ce l'hai una famiglia, 666? Un parente, una moglie… un marito? Figli?"

"Credevo che per quei 10 dollari in più non chiedessi informazioni personali, Sally."

"Solo a quelli che sono di passaggio… ma tu ti sei proprio trasferito qui, bello mio."

Sally è quel tipo di persona con cui sarebbe bello bere una birra e parlare da ubriachi della vita e dei massimi sistemi. Peccato che la sfumatura dei suoi capelli biondi sia così simile a quelli che cerca di dimenticare. "Non erano questi i piani, a dire il vero."

"Non lo sono mai," dice lei, incrociando le caviglie sotto la scrivania. Oggi indossa delle improbabili calze arancioni che gli risollevano stranamente l'umore. "Ma chi può dirlo, magari ti sta facendo bene."

Tu dici? vorrebbe risponderle. Invece, si limita a farle un saluto. Parlare con lei ogni mattina è la cosa più simile a una forma di amicizia che abbia avuto negli ultimi mesi. L'unica interazione umana che non gli faccia venire voglia di rinchiudersi in una bolla inaccessibile.

E il tempo scorre.

*


Ci sono pochissime cose che è in grado di fare con quella piccola scintilla di grazia che gli è rimasta nel petto. Trucchetti, per lo più. Cose stupide come smettere di sanguinare dal naso quando gli si rompe un capillare per via del freddo e della sinusite o bloccare un mal di schiena al suo insorgere. Non molto di più.

L'unica cosa che non fallisce mai è la capacità di avvertire quando qualcuno nelle vicinanze è alla sua ricerca. Non ha mai capito se la percezione sia effettivamente dovuta alla grazia o alle sue abitudini da soldato, ma al momento non ha importanza.

Sta chiudendo la yogurteria intorno all'ora di pranzo quando gli si rizzano i capelli sulla nuca. Si sente osservato. Quando si volta, il parcheggio sul retro è deserto. Se non fosse per l'impala parcheggiata all'angolo.

Il cuore gli batte all'impazzata nel petto. Si affretta a serrare il lucchetto della saracinesca, ma la chiave gli scivola dalle dita. Quando dà un'altra occhiata alle sue spalle, Dean sta scendendo dalla macchina.

Sapeva che lo avrebbe rivisto prima o poi. Non pensava che sarebbe successo adesso. Ha sentito le sue preghiere, ogni notte in cui Dean sognava di lui, Castiel veniva strappato al sonno con un sussulto. Conosce ogni singolo pensiero che gli abbia rivolto negli ultimi mesi. Ma non pensava che avrebbe percorso tre stati per venire a parlargliene di persona. Non è da lui.

Ma Dean è lì. In carne e ossa. Man mano che si avvicina, Castiel distingue occhiaie profonde e un viso segnato dalla stanchezza. Ma è la barba trascurata l'elemento che lo colpisce. Non sapeva neanche come fosse fatta oltre i tre millimetri di lunghezza. Una stupida abitudine lo costringe a catalogare anche questa nuova immagine di lui per impararla a memoria come ogni altra cosa che lo riguarda.

È ridicolo proprio come lo hanno descritto per anni demoni e angeli indistintamente.

Dean si avvicina senza proferire parola. Ha un'espressione tirata e si vede che non sa bene come comportarsi. Castiel, intanto, pesca le chiavi della sua auto dalla tasca. Dean coglie il movimento con la coda dell'occhio e questo sembra spingerlo a dire qualcosa.

"Ti sto cercando da mesi." La sua voce è ruvida, molto più di quanto Castiel non ricordasse, e le sue parole suonano come un'accusa. In fondo Castiel sa che non lo sono, che è solo colpa delle maschere che a Dean piace indossare, ma al momento non è abbastanza razionale da lasciar correre.

"Come mi hai trovato oggi avresti potuto trovarmi quattro mesi fa."

Non sa perché abbia improvvisamente voglia di aggredirlo, non sa neanche se sia esattamente quello che vuole, ma è quello che ottiene. Vede l'espressione rigida di Dean vacillare e il suo sguardo sicuro spegnersi.

"Non sapevo se volevi essere trovato."

No, non voleva. Ma probabilmente una parte di lui aspettava che accadesse.

"Perché sei venuto?"

Nota il modo in cui Dean stringe i denti e tira indietro le spalle. Come se incassasse un colpo. "Per parlare."

Castiel non risponde, non subito. Dean lo guarda negli occhi e per un momento sembra che lo stia implorando. Castiel non vuole essere implorato. Vorrebbe, piuttosto, andare verso di lui e tirargli un pugno sulla bocca. Oppure passargli accanto e tirare dritto per la sua macchina senza guardarsi indietro. Alla fine non fa niente. Continua a guardarlo in attesa di capire, tra tutte le cose che vuole, quale sia quella che ha la meglio.

"Non dobbiamo risolverla per forza," dice Dean a un certo punto, "voglio solo dirti delle cose guardandoti in faccia."

"Io qui ho finito. Stavo andando a casa."

"Vengo con te," replica Dean. Poi torna sui suoi passi, "va bene? O vuoi andare da qualche altra parte?"

Sembra un bambino e, allo stesso tempo, l'uomo più solido e forte della Terra. Castiel non sa come muoversi in sua presenza, non sa neanche come reagire al fatto che sia qui veramente. In realtà lo sa: dovrebbe chiedergli di andarsene, dovrebbe ricordargli che per lui dovrebbe essere morto. Dovrebbe dirgli di chiamarlo solo se è strettamente necessario per un caso.

Invece, si ritrova ad annuire e a dirigersi verso la sua macchina sentendo lo sguardo di Dean bruciargli tra le scapole. Anche quando sale in auto, quegli occhi non lo abbandonano: Castiel lo vede dallo specchietto retrovisore. Per tutto il tragitto sente formicolare ogni parte del corpo.

Ma non è niente in confronto al modo in cui si sente mentre attraversano il parcheggio del motel. Dean gli lancia occhiate interrogative che Castiel legge come si trattasse di un libro, non avevi detto che stavi andando a casa? E quella è un'altra cosa che proprio non può sopportare: la pietà di Dean Winchester.

Entra in camera girando la chiave nella serratura come se fosse sua la colpa di ogni singola cosa che sta accadendo al momento. Una volta dentro, si rende conto di quanto sia freddo il pavimento, delle enormi macchie di umidità sul soffitto e dell'odore sgradevole che c'è nell'aria. Questa è l'ennesima cosa ridicola: provare vergogna per la vita che conduce. Lo sa, sa perfettamente che non dovrebbe neanche pensarci, ma non può farne a meno come non può fare a meno di raccogliere le camicie sporche mentre passa vicino al suo letto per nasconderle nel bagno.

Dean resta impalato al centro della stanza, tenendosi la giacca sulle spalle e le mani cacciate in tasca. Un elefante in un negozio di cristalli. Indossa dei jeans larghi e sformati che cadono peggio dell'ultima volta che glieli ha visti addosso. È dimagrito, non in modo sano. "Possiamo parlare adesso?" chiede nervosamente.

"Ma che c'è da dire?" Castiel non ha intenzione suonare ironico o pungente, ma lo è. Lo è perché per mesi ha provato rabbia, rancore, frustrazione, dolore. E vengono fuori tutti adesso per finire ai piedi di Dean come gli ultimi regalo che Castiel ha da fargli.

Dean non lascia mai andare il suo sguardo. Lo cerca, lo rincorre, e i suoi occhi sembrano spaventati. "Che mi dispiace. Che ho fatto un casino."

"Dean," si bagna la bocca in cerca di qualcosa da dire, ma viene interrotto.

"Cas, devi credermi: mi dispiace."

Gli sono mancati quegli occhi. Si sente un verme mentre lo ammette a se stesso, ma è così. Gli è mancato il suo sguardo su di lui, il modo in cui scivola da un punto all'altro del suo viso alla ricerca costante di conferme. Gli è mancata la ruga tra le sue sopracciglia quando non sa come comunicare quello che pensa e che prova. Gli è mancato il suo odore e la sua presenza e le lentiggini sul suo viso.

Perché sembra che quel "qualcosa" sia sempre tu?

Gli manca il modo in cui Dean si sdraiava sulle gambe di Jack per vedere un film in tv e come costringeva Castiel a lasciar perdere i piatti da lavare per raggiungerli e passare la serata a criticare i polizieschi in onda. Gli mancano le mattine in cui lo trovava in cucina all'alba perché solo la sera prima Jack aveva accennato di aver voglia di pancake.

Gli manca la sua famiglia.

"Perché?" dice assorto. "Non ha senso adesso."

"Se non ha senso perché mi hai lasciato venire?"

E questo è il problema con Dean: riesce a metterlo nella posizione di dover giustificare le sue decisioni, i suoi passi falsi, le sue debolezze. Fa di tutto per allontanare il riflettore dal vero problema.

"No, perché sei venuto tu fin qui. Mi hai già chiesto scusa, ti ho sentito mentre pregavi." Una parte di lui, la parte vendicativa, è contenta di quello che ha detto.

Dean si irrigidisce. "Non è lo stesso. Sono venuto a dirtelo di persona. Avrei dovuto farlo subito, ma te ne sei andato e io-"

"Me ne sono andato perché hai detto che ero morto per te."

"Ho detto un sacco di cazzate, Cas, lo sai che erano cazzate-"

In quell'esatto istante vede nero. Bastano quelle poche parole a farlo scattare. "Quelle che per te erano cazzate, per me sono state batoste. Io ero in lutto, Dean, e avevo bisogno di te, ma non c'eri. Non mi parlavi e non mi guardavi neanche."

"Ero impazzito" replica lui, muovendo un passo verso Castiel. Per provare a raggiungerlo. "Per la storia di Jack e per… per mamma e non-"

Castiel si sposta sul lato opposto della stanza per evitarlo, per non ritrovarsi con le spalle al muro come sempre. Dean gli viene dietro e, ironia della sorte, è Castiel a fuggire stavolta. "Dovevi rispettare quello che stavo provando come io ho rispettato te. Invece no. Volevi punirmi a tutti i costi per non averti detto dei miei dubbi su Jack. Buon per te, se ti ha fatto sentire meglio, ma lo sai anche tu che eravamo tutti preoccupati. Lo hai portato da Donatello per questo motivo. Tutti e tre avevamo capito che qualcosa non andava e nessuno ha fatto niente. Non ero solo io."

"Lo so!"

"No, non lo sai. Se lo sapessi non avresti detto quello che hai detto."

"Cas, adesso lo so!" Gli occhi di Dean sono enormi e inquieti e, per un attimo, Castiel ha paura di cadervici.

Sbatte le palpebre fino a quando riesce a riprendere fiato. La conversazione lo sfianca e ogni parola gli si appiccica addosso come colla corrosiva. Deve distogliere lo sguardo. "Ma adesso è tardi e non so che dirti."

"Non è tardi."

"E chi lo ha deciso? Tu? Come hai deciso tutto quello che mi riguarda? Come hai deciso quando dovevo essere un tuo amico, tuo fratello o quello con cui fare sesso?"

"Cazzo!" la voce di Dean rimbomba per un attimo tra le pareti sottili della stanza. Castiel lo vede portarsi le mani al viso e poi tra i capelli. Gli ci vuole un attimo prima di riprendere il controllo. "Non è così, Cas, non è-"

"Sì, che è così." A questo punto, non ha nessun motivo di provare a calmarlo. Quello di cui ha bisogno, da mesi ormai, è di dirgli ogni singola cosa che è rimasta a scavare grossi buchi nel suo petto, ogni cosa che ha formicolato per tutto questo tempo sotto la sua pelle, infastidendolo e torturandolo. "È questo che hai sempre fatto. Hai deciso tutto tu. Anche di chiudere Jack in una cassa e buttare la chiave, alle mie spalle, tradendo la sua fiducia e la mia."

Non riesce più a guardarlo. La rabbia, la vergogna, il dolore bruciano agli angoli degli occhi e lo fanno sentire impotente.

Stravede per te. Ti vede come un modello da seguire. Mi piace avere una famiglia con te.

È stato un essere millenario e niente, niente nell'universo, è riuscito a distruggerlo dall'interno come ha fatto Dean.

Perché sembra che quel "qualcosa" sia sempre tu?

"Mi dispiace," gli sente dire ancora e ancora e ancora. Ascolta i suoi passi attutiti dalla moquette mentre gli si avvicina. Gli volta le spalle, per non dover subire anche l'umiliazione di lasciarsi guardare mentre crolla come un palazzo senza fondamenta. "Mi dispiace, Cas, mi dispiace. Sono stato un coglione, mi dispiace, devi credermi, non so che fare, non so che dire-"

Una mano di Dean gli sfiora una spalla. Castiel non si volta a guardarlo. Non può, non ci riesce. "Non è un mio problema. Non posso aiutarti a sentirti meglio. Non voglio aiutarti." È una bugia. Per quanto se ne vergogni, l'impulso di correre in suo soccorso è onnipresente. La differenza è che non vuole assecondarlo, stavolta.

"Non ho bisogno di aiuto," mormora Dean. La sua mano sul braccio di Castiel stringe la presa e lo forza a girarsi. Si ritrovano faccia a faccia. La bocca di Dean è distorta in una smorfia di angoscia e dispiacere, mentre dice, "ho bisogno di te. Anche se non me lo merito."

Castiel lo guarda. E lo guarda, lo guarda, lo guarda in cerca di tutto quello che ha perso. Più di qualsiasi altra cosa vorrebbe che gli dicessero che è tutto uno scherzo, che niente di quello che ricorda è successo veramente.

"Avevo bisogno di te anch'io," non può impedire ai suoi occhi di pizzicare e inumidirsi mentre lo dice. È colpa della sua stupida grazia che si consuma e del fatto che negli anni è diventato una persona diversa, troppo fragile, troppo impotente. Troppo innamorata. "Dean, avevo bisogno di te e tu mi hai detto che per te ero morto."

Quello è il momento in cui le braccia di Dean gli si stringono intorno così forte da sembrare una gabbia. Castiel lo respinge, punta le mani sul suo petto. "Ti odio per quello che hai fatto," dice e ha tutto l’intento di ferirlo e allontanarlo. Dean, invece, lo stringe più forte. Appoggia la fronte tra il suo collo e la sua spalla e le sue mani si aggrappano al trench che Castiel ha ancora addosso. "Per quello che hai fatto a Jack, per quello che hai fatto a me. Era la nostra famiglia-"

"Mi dispiace," continua a ripetere Dean, premendo la bocca sul suo collo, come per smorzare la sua stessa disperazione. "Mi dispiace, Cas, mi dispiace. Ascoltami. Sono stato un coglione e abbiamo perso Jack. E ho perso te. Ho perso tutto. Ma non- ti prego, non andartene di nuovo."

Non riesce a ragionare. Non riesce a capire se le lacrime che gli bagnano la maglia siano le sue o quelle di Dean. L'unico pensiero che gli attraversa la mente è che domattina, di nuovo, faranno finta che niente di tutto questo sia successo. E il tempo continuerà a scorrere. Ma Dean solleva la testa e lo guarda negli occhi. Non ripete ti prego eppure è come se lo facesse. La grazia di Castiel lo sente e il suono di quella disperazione vibra tra le sue ossa. Questa volta Dean appoggia la fronte sulla sua. "Ho sbagliato tutto."

È il suo turno di lasciarsi andare in avanti, la testa che crolla sulla spalla di Dean. Vorrebbe piangere, vorrebbe urlargli contro. Ma Dean lo stringe ancora più forte e a Castiel è mancato così tanto e ormai è diventato così egoista che non riesce a respingerlo di nuovo. Una mano di Dean risale fino alla sua nuca e lo accarezza in un modo delicato e sconosciuto. Non è mai stato così tenero con lui. “Mi dispiace per tutto quello che è successo,” mormora con la bocca premuta sulla sua tempia. “Mi dispiace per non esserci stato quando anche tu avevi bisogno di me.”

Mentre lo ascolta parlare, Castiel si odia. Si odia per quello che prova, per il ronzio che sente nelle orecchie e per il cuore che batte con insistenza contro il suo torace. Si odia perché ha bisogno delle braccia di Dean e del suo odore e di appoggiarsi a lui. E si odia perché stare qui ad amarlo è come tradire Jack per la seconda volta.

Perché sei sempre tu,” dice, capitolando e aggrappandosi alla sua maglia.

“Cosa?” Dean si scosta quel tanto che basta per riuscire a sentirlo.

“Perché sei sempre tu?” ripete, questa volta guardandolo. “Perché ogni volta che mi mandi via resti sempre e comunque l’unica persona da cui voglio tornare?”

Un lamento strozzato risale dalla gola di Dean. Castiel lo vede chiudere gli occhi, forse per non stare a guardare tutto il dolore e l’angoscia che ha provocato. Forse per non guardare il guscio vuoto che è rimasto di lui. "Ogni volta mi calpesti e ogni volta non riesco a-"

Dean gli afferra il mento con una mano e preme le labbra sulle sue. Respira nella sua bocca e Castiel sente solo calore e lingua e denti e “mi dispiace,” ansima Dean, “Cas, ti prego.”

E Castiel lo lascia fare. Perché gli è mancato, perché rivuole indietro la sua famiglia. Perché è solo un uomo e ama Dean. Lo ama in modo disperato. E non può combattere contro questo.

“Erano tutte cazzate” mormora Dean, guardandolo negli occhi, “ogni singola cosa che ho detto."

Castiel vorrebbe dirgli che non è così, che lo sa che c'è una parte di Dean che ha riversato su di lui ogni colpa, se di colpe si può parlare in una situazione come questa. Sa che Dean ha proiettato su lui tutto quello di cui si sentiva responsabile. E non è giusto, non lo è mai stato, ma, "Cas, voglio aggiustare le cose," dice Dean.

Castiel non sa se questa sia una cosa possibile. Un istinto, uno che proviene dalla sua parte più cinica e incattivita, vorrebbe rispondere che non sa se sia rimasto molto da aggiustare. Non sa quel sentimento stupido che non riesce a morire nel suo petto sia abbastanza per sistemare quello che avevano.

"Io non lo so che cosa dobbiamo fare per aggiustare le cose."

Sente il respiro di Dean fermarsi con una specie di singhiozzo. "Forse," dice tenendo una mano sulla sua nuca, nel tentativo di tenerlo vicino, "forse possiamo capirlo strada facendo."

Castiel resta in silenzio, incapace di trovare una risposta. "C'è una parte di me che mi terrorizza, Cas. Faccio cose orrende. Dico cose orrende. E poi passo il tempo a darmi del coglione. Forse, se vuoi, puoi insegnarmi a fare meglio."

Il tempo scorre. Secondo dopo secondo. Minuti che si accumulano e li rinchiudono in una bolla di silenzio.

Il tempo scorre e Castiel non smette di amare Dean. E di maledirsi per questo.

*


Le mani di Dean scivolano sul suo corpo come se stesse studiando qualcosa di sacro. La lingua, gli occhi, i denti percorrono ogni centimetro della sua pelle. E ogni volta che si ferma per prendere fiato, un lamento nasce e muore sul fondo della sua gola. Non dice nulla, non ripete che gli dispiace, non proferisce parola mentre lo tocca, con le dita che tremano.

Castiel vede i suoi occhi lucidi alla luce fioca che entra dalla finestra. Smette di percepire le lenzuola ruvide sotto la sua schiena quando Dean si sdraia nudo su di lui. Non sa se lo stia immaginando o se sia tutto reale, ma ha l'impressione di ripetere all'infinito al suo orecchio, voglio indietro la mia famiglia, Dean, ridammi la mia famiglia.

Stavolta, le lacrime cha gocciolano sul collo di Castiel non sono le sue. "É colpa mia, è tutta colpa mia, Cas, ma ho bisogno di te, ho bisogno di te, ho bisogno - "

Le parole si mescolano le une con le altre sulle labbra umide e Castiel sente le sue spalle scosse dai singhiozzi. Restano così, nudi, stretti nella loro pelle. Troppo fragili per lasciarsi andare. Castiel non riesce a non abbracciarlo, a non stringerlo, premendo le mani sulla sua schiena nel tentativo di fermare quel pianto che potrebbe andare avanti per l'eternità. Dean sembra un bambino troppo cresciuto, in quel chiarore che proviene dalla strada. Un bambino disperato e pieno di un dolore insanabile.

"Ti amo," dice con sincerità. Sono due parole pure e semplici. Le ha già dette una volta. Ha provato a infonderle in ogni gesto, in ogni sguardo, in ogni passo compiuto accanto a lui. Ma non gliele ha mai dette così, in una stanza vuota. Spogliato di qualsiasi cosa, soprattutto della sua felicità. "Anche se non dovrei, anche se in questo momento non ti sembra così."

Perché sei sempre tu, sempre tu, sempre tu.

E la verità è che non ha idea di cosa succederà da quel momento in avanti. Non ha idea di cosa possa fare Dean per 'aggiustare le cose'. Sa che non riesce a guardarlo come faceva prima. Non riesce a toccarlo senza pensare a quello che ha fatto a Jack.

Ma non riesce neanche a odiarlo fino in fondo.

Questa è una verità pura e semplice. Inattaccabile come un principio della fisica.

Castiel non riesce a lasciare andare Dean.

In silenzio, con la bocca premuta contro la sua tempia, Dean sussurra "anch'io. Anch'io, Cas."

E il tempo scorrerà. I giorni si trasformeranno in mesi. Forse non avranno mai più quello che condividevano un tempo. Forse questa è l'ultima volta che terrà Dean stretto al cuore.

Ma lo ama. Lo amerà sempre così: inevitabilmente.

E il tempo scorrerà.
   
 
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