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Autore: Diana LaFenice    08/11/2019    0 recensioni
Sean Lestrange è un giovane pittore di sedici anni.
Mentre la maggior parte dei suoi coetanei preferisce il sole e il mare della Florida, lui preferisce la fantasia e le immagini che trasporta nella realtà tramite i pennelli. La sua natura profonda e riflessiva lo porta a essere evitato.
Per questo quando il padre gli comunica che andranno a vivere ad Hay River, lui accoglie la notizia con un misto di speranza e timore.
Hay River è il paese natio della sua famiglia. Situato tra i Grandi Laghi, fin da subito sembra di entrare in una leggenda. Il motivo del trasferimento è legato al lavoro del padre: deve catturare Terrence Himelich.
Nonostante il divieto di entrare nei boschi, Sean riuscirà a cogliere la bellezza di questi luoghi incontaminati e riportare in auge la leggenda locale della Foresta.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dicembre

 

 

Le settimane erano passate, portando con sé il Giorno del Ringraziamento, che trascorse rapido come un battito di ciglia. E adesso si stavano avvicinando le vacanze di Natale a una velocità sbalorditiva. In quell’occasione i Lestrange avevano deciso di recarsi in Arizona per partecipare all’annuale riunione di famiglia natalizia. Per il giovane era stato spiacevole lasciare i suoi nuovi amici. Ma comunque sarebbero rimasti in contatto, quindi non si preoccupò troppo. Il giorno prima delle vacanze di Natale si sarebbe tenuto il Ballo d’Inverno. Pensò che sicuramente l’avrebbe rincontrata lì. Ma non avvenne. Per dimenticarsi della delusione cercò di divertirsi e lo fece fino a che, al ritorno a casa, aveva bell’e dimenticato il motivo della sua sofferenza. Sean aveva rivisto i suoi cugini e i suoi nonni. Aveva ricevuto un set da pittore con tanto di tempere e acquerelli e matite acquerellabili che avevano l’aria di essere parecchio costosi. Invece Erol un maglione nuovo e una nuovissima consolle con dei videogame. Eppure, tra una festa e un cenone e l’altro, i due ragazzi non presero nemmeno un chilo. Avevano un metabolismo molto veloce. E poi, tornarono a Hay River. La casa non era ancora pronta. La buona notizia era che era già abitabile, e che potevano usufruire dell’impianto elettrico e idraulico e del riscaldamento e molte assi marce erano state sostituite. Pure i topi e i vari abitatori erano stati sfrattati dalla ditta di disinfestazione che avevano chiamato mesi prima. In compenso lui e suo fratello avevano imparato ad amare il freddo, la neve e a giocarci. Sean approfittava della neve per stendersi finché non sentiva che il calore corporeo la scioglieva e impregnava di gocce d’acqua i capelli mossi che aveva un po’ accorciato in quei giorni. E ripensava a lei, e molto spesso, si ritrovava a sospirare. Finché poi non gli arrivava una palla di neve in faccia e si risvegliava dal suo incanto, per scagliarsi contro di colui che l’aveva centrato e placcarlo per coinvolgerlo in una gigantesca battaglia di palle di neve con grida, scoppi di risa e imprecazioni vari.  Ma una volta finita riprendeva a pensare a lei, e molto spesso, si ritrovava a sospirare. Finché poi non gli arrivava un’altra palla che lo risvegliava per ricominciare a giocare.  

 

***

 

I due coniugi erano contenti che i loro figli giocassero assieme. Era da molto tempo che non li vedevano così uniti. Era come se il tempo fosse tornato indietro e gli avesse restituito i loro bambini. Dean e Sarah li guardavano fuori della finestra. Un momento di gioia in mezzo a tanta disperazione. Gli assassinati potevano essere molti di più di quelli che avevano rinvenuto, data la sua propensione a lasciarli a marcire nella foresta. E non tutti avevano avuto la solita veloce morte. Non si poteva fare a meno di pensare a chissà quanti altri non erano stati ritrovati ed erano scomparsi per sempre. Chissà quanti cadaveri e quanto sangue celavano quei boschi che quei selvatici cittadini conoscevano bene quasi come le loro tasche. Aveva mietuto così tante vite che perfino i poliziotti avevano paura di lui.

 

***

 

Terrence affondò nel soffice manto nevoso. Sbuffò e vide il suo fiato elevarsi nell’aria fino a scomparire. I fiocchi cadevano leggeri come piume tutti attorno a lui e su di lui, come se non avessero avuto paura. Era una cosa degli elementi che aveva sempre amato: la capacità di infischiarsi se la cosa che toccavano fosse buona o cattiva. E adesso che i capelli e la barba erano ricresciuti si sentiva sempre più sé stesso. Lo aveva piacevolmente scoperto quella mattina, quando si era alzato e si era lavato la faccia nella bacinella che usava a mo’di bagno. Poi aveva alzato la faccia e i suoi occhi si erano posati sulla propria immagine riflessa, restituitagli da uno specchio rotto e scheggiato. «Bentornato, vecchio mio!» Si era detto sorridendo.  

Anche rivedere le proprie unghie di nuovo lunghe e sporche di terriccio e altra lordura lo faceva sentire a proprio agio. L’unica pecca era che a un certo punto dell’anno necessitava comunque di lavarsi per evitare di vomitarsi addosso.

Quella radura sembrava uscita da uno di quei triti film natalizi che fioccavano in quella stagione. Una parte di sé pensò che era molto tempo che non vedeva la TV. Ma non era che gli importasse tutto questo granché. Non facevano altro che ripetere i soliti programmi triti e ritriti da un trentennio a quella parte. Anche se arrivava a capire anche lui che erano cambiate molte cose dal 1976. Di solito s’imponeva di non pensarci perché farlo, gli procurava dolore. Anche lui alle volte sentiva il bisogno di un contatto umano. Ma ormai non poteva, pochi lo sapevano, ma a volte, se la sua vittima era un’avvenente ragazza o comunque era dotata di quel tipo di corpo che suscitava le sue voglie, prima di ucciderla la seviziava. Una volta raggiunto l’amplesso le ficcava una freccia nell’occhio che aveva preventivamente estratto dalla faretra e usato per minacciarla prima di passare al dunque. Di solito le prendeva da dietro, sempre che non avessero gli occhi verdi e lui particolare voglia di immergersi nelle proprie fantasie. Allora diceva alla donna di ripetere tutto quello che lui le comandava di dire. E alla fine, come da copione sussurrava comunque: «Non ti credo, brutta puttana!» E continuava fino a finire sempre nello stesso modo. Per giustificarsi a sé stesso diceva: «Meglio questo che farsela con gli animali. Sapendo le malattie che portano» E così si metteva l’animo in pace.

Ma quel giorno non sentiva la necessità di occuparsi delle proprie voglie. In quella stagione nessuna ragazza sarebbe passata. E lui doveva andare a cercare l’occorrente per fabbricarsi altre frecce.

Costruirsele gli dava una specie di senso di pace, anche se a volte risvegliava ricordi che avrebbe preferito lasciarsi alle spalle. Ricordi delle sue manine paffute di bambino impegnate in quella stessa operazione; manine che spesso finivano per ferirsi da sole e altre, esangui e sfumate di un verde percepibile soltanto se si guardava molto attentamente, accorrevano, pronte a medicarlo e asciugare le sue lacrime. Quelle mani dolci e delicate come neve che si scioglie al sole lo incantavano ancora adesso che ci pensava.

«Ma no, non così.» Lo consolava poi una sorridente voce femminile.

«Non ci riesco!» Aveva detto buttando via gli attrezzi e il bastone. Ma la forza era quella che era, perciò, anche perché li lanciò malissimo, la sua opera atterrò ai suoi piedi, rimbalzando sul terreno. Il bambino ci saltò sopra nella speranza che si spaccasse, ma il legno era troppo duro anche per quello. Così alla fine si arrendeva e tornava seduto da lei che finalmente diceva: «Non è vero, devi solo fare pratica».  

«Non è vero, sono un incapace».

Non sapeva neanche lui da dove lei trovasse tutta quell’infinita pazienza. Era persino più paziente di sua madre. Ma dopotutto era stata lei a dargli una ragione per lottare. «Soffiati il naso.» Diceva soltanto ma senza toni riprovevoli.

«Non so come si fa!» Aveva esclamato lui. Allora la donna si era spostata di fronte a lui, aveva recuperato un lembo del proprio abito e gliel’aveva soffiato e tamponatogli gli occhi con delicatezza. Infine si era allontanata alla fontanella per gli animali per sciacquarsi ed era tornata. Nel frattempo che lui aveva fatto di tutto per tirare su col naso e smettere di piangere.    

Ricordava ancora come a quel punto i suoi occhietti di bimbo s’inumidissero e di come lei si spostasse per abbracciarlo da dietro, inglobandolo quasi. Poi, senza dire una parola gli prendeva le manine e le usava per recuperare il coltellino e il bastone. E, guidandole con gesti esperti, riprendeva a lavorare, correggendone gli sbagli e lasciandogli andare la mano solo per pulirgli gli occhi dalle cispe. Il ragazzino smise di piangere mentre lei gli spiegava che costruire un arco era difficile. Bisognava trovare il legno giusto, armarsi di tanta pazienza. «E poi a volte buttare tutto via lo stesso».

«Quindi anche tu a volte sbagli?»

«Tutti sbagliano».

«A sentire i miei sembrerebbe di no.» La sentì aprire e richiudere bocca molte volte nel tentativo di dire qualcosa. Allora si chiese perché non dicesse niente. Adesso non aveva alcun problema a immaginare quello che gli avrebbe detto se fosse stata più insensibile. Ma allora si limitò a dire: «Allora cerca di imprimerti nella memoria i movimenti che stiamo compiendo, così un giorno sarai capace di costruirteli anche da solo».   

Era arrivato al posto che gli serviva. Non era stato facile ma ne era valsa la pena. Alla fine ne valeva sempre. Si guardò attorno circospetto. Quelle foreste innevate potevano essere pericolose persino per lui, che le conosceva a menadito. Non si poteva mai sapere se un puma l’avrebbe attaccato. Forse lo stava spiando proprio in quel momento. Colto da un sospetto, incoccò una delle ultime frecce e si volse di scatto. Ma senza trovare niente. Peccato. Se almeno fosse stato un animale, avrebbe rimediato la cena. Ormai era talmente abituato a mangiare quella roba da non sopportare neanche più il cibo normale. Che poi, pensandoci bene, ricordava a malapena. 

Rimise a posto la freccia. 

Si sentiva un po’deluso. Non solo dalla fauna ma anche dalla specie umana. Era tanto tempo che nessuno metteva piede nella foresta.

Ed evitare quegli idioti dei poliziotti era stato un gioco da ragazzi. I loro cani poi li aveva uccisi tutti. Gli era dispiaciuto, è vero, ma l’aveva fatto per necessità. Non voleva essere catturato. Non ancora. Prima voleva attuare la sua vendetta. Poi magari si sarebbe lasciato catturare, o magari sarebbe espatriato in Alaska. Boh? Una cosa alla volta. Non era capace di elaborare più strategie insieme. Le sue strategie e capacità avevano un limite. Prima doveva trovare la sua vittima, vendicarsi nei modi più sadici possibili che conosceva e soddisfare tutte le sue voglie e domande represse fino a quel momento.

Finora aveva fatto tutte quelle stragi solo per attirarla. Ma non era servito a niente. Buttò a terra l’arco in un gesto di stizza. Possibile che fosse così insensibile? Emise un verso di stizza e lo raccolse, spolverandolo dalla neve. Poi si decise ad andarsene da lì, che stava cominciando a gelare.

 

***

 

Il ritorno per Erol fu una sofferenza a metà. A metà perché frequentava ancora la bella barista che aveva rimorchiato quella notte di Halloween e che non aveva ancora mollato, e i suoi nuovi amici servi. Però gli dette un gran fastidio che ricominciasse la scuola. E la prima cosa che fece appena rimise piede in paese, fu andare a cercare quei boccaloni per farsi una canna. Erol non era un tabagista vero e proprio, però gli piaceva fumare. E i suoi amichetti avevano le migliori canne che avesse mai provato. Davvero, le adorava. E la barista era ancora brava come ricordava. Era come se in tutti quegli anni non avesse fatto altro che darla, per essere così brava. Era per questo che non l’aveva ancora lasciata. Missy, ecco, forse era così che si chiamava.

Ma si ripromise di farlo se lei avesse mostrato segni di sentimento che l’avrebbero costretto a legarsi a lei. Fosse anche rimasta incinta di lui, Erol l’avrebbe costretta ad abortire. Non avrebbe usato le mani, chiariamoci, ma l’avrebbe convinta con le parole. Era un bravo oratore. Anche lei si sarebbe piegata a lui. Ma quell’eventualità, fortunatamente, non si era ancora presentata.

Era a questo che pensava mentre ascoltava l’mp3 accomodato sul sedile posteriore accanto al fratello minore e godendosi il calduccio dell’auto riscaldata, quel giorno che tornavano da scuola. Pensava che sarebbero tornati nello squallido motel dove avevano passato quei mesi e aveva dovuto dividere la stanza con suo fratello.

Era stata una vera seccatura ritrovarsi circondato dagli attrezzi da artista di Sean. Una volta aveva pestato per sbaglio un’appuntalapis di metallo. Non aveva avuto nemmeno un attimo per occuparsi di sé stesso - e non solo dal punto di vista estetico. Nemmeno per fumare un po’ alla finestra che quel rompicoglioni salutista avrebbe fatto la spia. Ma perché era nato in quella casa di pazzi? Tra suo padre poliziotto, sua madre dalla salute cagionevole e suo fratello artista non sapeva decidere chi fosse il più matto. Insomma, stava pensando a questo quando notò che non si erano fermati al motel. Ma che anzi, stavano andando avanti. Il diciannovenne aggrottò le sopracciglia con aria perplessa. Pure Sean se ne accorse.

Erol si rivolse al padre che guidava: «Papà, ma il motel è qua».
«Lo so, ma l’impresa di ristrutturazione ci ha informati che una parte della villa è tornata ad essere abitabile. Quindi da adesso andremo a stare là, contenti?»

«Avremo di nuovo due stanze?» Domandò trepidante.

«Sì.» Erol esultò e Sean sorrise. 

 

***

 

Tornarono alla villa. Adesso era quasi pronta. Non c’era più traccia di nessun ratto e parassita. Ma le fastidiose ringhiere decorative persistevano ancora. Questo perché la mamma aveva voluto che fossero sostituite con alcune nuove. «Per nulla togliere alla villa», aveva detto. Anche se la sostituzione andò ad assommarsi ai costi della ristrutturazione e il signor Lestrange fu costretto a firmare un bel quantitativo di cambiali.  

Anche la disinfestazione aveva voluto farsi pagare profumatamente. Se non altro avrebbero potuto avere delle stanze separate. E il bello era che avrebbero potuto scegliersi le proprie. Sarah fece entrare i figli che andarono subito alle rispettive stanze mentre il loro padre tornava al motel a recuperare le loro cose; o almeno la maggior parte di esse. Se mancava qualcosa - e sicuramente sarebbe stato così - sarebbe tornato a prenderla.

Erol volò su per le scale e si appropriò della stanza al secondo piano, la più grande, che aveva già adocchiato qualche mese prima. Sean invece salì nuovamente fino al terzo e ritrovò la sua porticina. Aprì e fu lieto di tornare nella torretta che si era scelto come camera. Rimase a bocca aperta mentre prendeva nuovamente confidenza con il paesaggio circostante dalle ampie finestre. Gli aspri monti dai profili ora aguzzi ora smussati, colorati dai raggi del sole, erano semplicemente magnifici, sembravano spuntare come denti dalle gengive bianche, verdi e marroni che erano le colline. Chissà come doveva essere in primavera. Si avvicinò alla finestra, estatico e cancellò con la mano il fiato sul vetro. Ancora una volta si ritrovò a pensare che anche se Erol si era accaparrato la stanza più grande, lui si era preso quella ideale. Sorrise pensando alla moltitudine di opere che quel magnifico paesaggio avrebbe potuto ispirargli. E il suo sorriso si trasformò in un ghigno al pensiero della sua faccia verde di gelosia, quando gli avrebbe detto della sua nuova camera. E la soddisfazione raggrinzì il suo volto in un sorriso quando gliela mostrò. Il fratello maggiore gli chiese di fare cambio stanza ma Sean ribatté: «Troppo tardi, Erol, quella me la tengo io».

 

***

 

Dean era appena tornato da un giorno, e già avevano preso ad assalirlo al lavoro. Fortunatamente non era successo niente di che durante la sua assenza. Persino Terrence sembrava andato in vacanza. Era bello starsene in panciolle in ufficio senza che accadesse niente di niente, a gustarsi il caffè e le ciambelle che gli facevano alzare il colesterolo, morso per morso. Ma sapeva che quella tregua sarebbe durata poco. Presto avrebbero ripreso le ricerche. E presto avrebbe dovuto infilarsi in quella labirintica tormenta gelata che era la foresta.

 

***

 

Quand’è che Jackie si era accorta di essersi infatuata del taciturno, esotico e misterioso Sean Lestrange? Forse il primo giorno di scuola. Si era accorta a malapena che non faceva altro che fissarlo e che, a mano a mano che lo conosceva, si rendeva conto che era un tipo interessante.

Cioè, nessuno si sarebbe mai messo in testa di rifiutare di pomiciare con Haley Wilson. E si stupiva del suo enorme sollievo. Cioè, ok che non c’era nessuno d’interessante da quelle parti ma Sean non era il suo tipo. A lei piacevano i ragazzi alti, muscolosi, con bei capelli biondi come raggi di sole e gli occhi azzurri fiordalisi. I classici bellocci attorniati da uno stuolo di amici e ammiratrici che si vedevano in TV. Non quei ragazzi che non avrebbero chiesto niente di meglio che scomparire tre metri sotto terra, sfuggenti, evanescenti, mori e con gli occhi scuri. E poi quella G strascicata che pareva una J, che contribuiva di molto ad addolcirne la pronuncia. Ma anche per quell’aria sempre pensierosa e intelligente. A volte pure un po’imbronciata che le facevano pena. Nessuna ragazza si era interessata a lui e questo l’aveva fatta felice, anche se aveva suscitato in lui una grande pena. Sembrava quel tipo di persona che per qualche strano intrinseco motivo sarebbe rimasta sempre a fare da tappezzeria e osservare. Domandandosi forse se un giorno sarebbe mai stato felice anche lui.  Mentre lei era al centro dell’attenzione e della vita e questa domanda neanche se la poneva. A volte, più di altre, avrebbe voluto fargli provare tutto quello che si stava perdendo. Un’altra cosa che le piaceva di lui era che non pendeva dalle sue labbra. Si infischiava di quello che avrebbe detto la gente solo perché mangiava verdura a mensa, rischiando di prendersi i vermi. Se ne andava a giro su una meravigliosa Kawasaki nera e lucente. E poi era intelligente e timido in quel modo che scatenava un’immediata simpatia. Ed era un artista. Non aveva mai conosciuto un artista prima d’ora.

A differenza di quella gentaglia, lui aveva qualcosa da dire. Li aveva sempre visti strani per definizione, con tutta quella storia del dolore alla base della loro arte. Quindi lei s’immaginava gli artisti, in questo caso i pittori, come tanti Van Gogh o Frida Kalo o quello che tagliava le tele. Adesso che conosceva Sean si rendeva conto che era quello che l’avevano abituata a credere. Sua madre aveva fatto una faccia strana appena gliene aveva parlato. Ma era perché nei paesini come quello i forestieri non erano ben visti. Anche se erano figli di figli di Hay River. Diciamo che c’era una specie di campanilismo. E se i bravi cittadini potevano soprassedere su molte cose, non potevano passare sopra questo. Perciò, almeno in casa sua, l’argomento Sean & parenti, era diventato tabù. Era stata proprio Jackie a supplicare i parenti, noti pettegoli, di non parlarne più. I quali avevano acconsentito un po’preoccupati per quella richiesta.

Anche se finora Sean non aveva manifestato nessun comportamento anomalo o stravagante.  Era contenta di essere amica sua ma come sarebbe stato come fidanzato? Non era la prima volta che si scopriva a pensare a lui a quel modo. Era da un po’ che la loro amicizia non le bastava più. Da dopo Halloween per la precisione. Da quando l’aveva intenerita con la sua goffaggine. Da allora aspettava con impazienza un suo sms o telefonata e si rileggeva ogni messaggio che si erano mandati, ogni conversazione, ogni microscopico dettaglio alla ricerca di un segno che indicasse lo stesso sentimento che provava lei.

Per questo fu felice di ricevere il suo messaggino di auguri di buon Capodanno. Rispose all’sms e poi andò a festeggiare con gli altri, adesso sì che il nuovo anno cominciava bene. E ricevere qualcosa da Sean, che fosse solo un’occhiata o un banale, innocente sms di auguri, per lei valse più di una scopata da ultimo dell’anno. Anche se dovette fare una faccia strana perché la sorellina si svegliò a causa della luce del telefono e cominciò a prenderla in giro.

   
 
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