Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Ackerbitch    10/11/2019    0 recensioni
COMPLETA
ModernAU - MiniLong /// EreRi-RiRen
"Credo che tutti siamo bersaglio di una componente di sistemi infinitamente più grande di noi, che non siamo altro che piccoli e insignificanti ammassi di carbonio organico agli occhi dell'Universo. Siamo sottoposti alle sue leggi e invischiati nei suoi meccanismi, vittime della ruota della sua casualità, spaventosa e ingiusta. E lo sa cosa rende questa cosa ancora più spaventosa? Il fatto che siamo esonerati da niente, anche se tendiamo a conferirci una sorta di immunità di fronte alle eventualità negative che sappiamo esistere, ma che non associamo mai a noi e alla nostra vita. Forse lo facciamo per rendere l'esistenza un po' più sopportabile, o forse perché l'animo umano è animato da un disgustoso senso dell'ottimismo e tende a lasciare fuori dal proprio campo visivo e dalla propria concezione stessa tutto ciò che non è oggettivamente considerabile come positivo. Quello che voglio dire, è che non sappiamo mai come la ruota girerà. Adesso ci sei, fra cinque minuti non si sa. Ora stai bene, ma fra tre giorni potresti essere in un letto d'ospedale e combattere fra la vita e la morte [...]"
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eren Jaeger, Hanji Zoe, Isabel Magnolia, Kuchel Ackerman, Levi Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Legge uno - Tutto è interconnesso

Si era imposto che non avrebbe pianto una sola lacrima.

Aveva passato qualche minuto a guardarsi allo specchio prima di uscire di casa quella mattina, indugiando un po' più del dovuto sui cerchi neri che contornavano i suoi occhi metallici e sul modo in cui creavano un contrasto malsano con la sua pelle nivea. Non s'era nemmeno curato troppo di sistemare i propri capelli, che ricadevano scompigliati poggiando appena sugli zigomi alti del suo viso smunto e provato. Eppure, a stento riusciva a vederla la propria immagine riflessa mentre indossava quei vestiti neri meccanicamente, muovendo muscoli e articolazioni per pura forza d'inerzia. 

Immaginava come sarebbe stato, si figurava mentalmente ogni singolo particolare di quell'evento con una vividezza tale da risultare quasi inquietante. Il carro funebre sarebbe arrivato davanti alla chiesa, i becchini avrebbero preso la bara lucida e se la sarebbero caricata in spalla per percorrere gli scalini del duomo, le fronti appena imperlate di sudore per il sole cocente di quella giornata. Poi l'avrebbero adagiata delicatamente davanti all'altare, sul pavimento di marmo venato parzialmente nascosto da un tappeto rosso scuro, e lì sarebbe stata ricoperta di fiori. Ma nella sua testa, quelle immagini non avevano mai fatto rumore.

Invece era folla, concitazione; il clangore cupo e sordo delle campane suonate a lutto pareva perforare i timpani, pianti e grida. Un solo, muto interrogativo permeava l'aria e rimbombava stridente nella mente dei presenti. Faceva un fracasso assordante, e Levi se ne sentì sopraffatto.

Perché?

Le mani sicure dei becchini raggiunsero il portellone posteriore del carro funebre, e al corvino quei movimenti fluidi ed esperti parvero eseguiti a rallentatore. Il metallo scaldato dai raggi bollenti di quel sole beffardo che si sollevò, rivelando l'abitacolo che custodiva tutta la crudezza che il mondo aveva offrire, la sprezzante insensibilità dei meccanismi della vita. Il colore bianco di quel legno funebre, trafiggeva e abbagliava più di centinaia di lame affilatissime. Levi le sentì affondare e aprire una voragine nel suo stomaco, squarciare la carne cedevole della gola e lambirgli l'anima, riempendola di ferite che nessun tipo di punti di sutura sarebbe riuscito a risanare. 

Non piangere.

Ed ecco che la bara veniva caricata in spalla, ecco che quei pinguini dalle espressioni disgustosamente neutre e disinteressate, completamente impassibili, si accingevano a salire quegli scalini bassi. E Dio, se era agghiacciante quel colore.

Gli gelava l'animo, gli era entrato nelle vene nel primo e infinitesimale istante in cui gli aveva contaminato gli occhi col suo candore. 

Non piangere.

Perché faceva tutto così tanto rumore? Perché era tutto improvvisamente così vivido? Perché faceva tanto male guardare in faccia quella realtà che aveva tentato di ignorare? Perché nei suoi pensieri, quelle immagini che aveva passato due giornate intere a creare avevano una consistenza così impalpabile da essere quasi onirica, mentre ora apparivano così tanto stridenti e maledettamente reali da avere quasi una consistenza propria? 

Non piangere.

Si era rifiutato categoricamente di visitare la camera mortuaria, di vedere il pallore della morte cucito addosso alla sua pelle liscia, di cedere all'immobilità di quel corpo traditore che l'aveva strappata via dalla vita che tanto amava. Come avrebbe potuto arrendersi all'idea di averla persa, quando dieci giorni prima passeggiavano e conversavano tranquillamente? Ancora la ricordava la smorfia infantile dipinta sul suo viso gentile incorniciato dalle solite codine rosse che le piacevano tanto e che la facevano sembrare ancora più bambina, mentre con la bocca impiastricciata di gelato al cioccolato gli raccontava dei programmi per la gita scolastica di quell'anno. Levi si ritrovò a sperare che sua sorella avesse quell'espressione anche nella bara, che i suoi capelli fossero acconciati in quel modo che la contraddistingueva, anche se avvolta dal freddo abbraccio della morte. Probabilmente, vista la sua personalità esuberante e sprizzante di gioia ed energia, sarebbe stata capace di sorridere pure alla signora con la falce; e chissà, forse Isabel lo aveva fatto davvero. 

La morsa alla gola si faceva stretta e asfissiante, l'aria pareva diventata irrespirabile e densa, viscosa; la bocca improvvisamente arida, l'esistenza pesante come mai l'aveva avvertita prima di allora.

Non piangere.

Erano vere e proprie grida, quelle di sua madre; latrati di dolore urlati al cielo, al mondo, alla vita. Un lamento senza fine che si conficcava nell'anima, saturo di disperazione, stridente e acuto come vetro che viene infranto; e allora, qualcosa in Levi si ruppe. 

Pianse lacrime amare, salate e inconsolabili, singhiozzò le emozioni che si era tenuto dento per due giorni stringendo il corpo della donna a sé; tentavano di soffocare i lamenti sulla spalla dell'altro. 

Pianse per l'ingiustizia del mondo, per l'essere rimasto solo, per il sorriso di sua sorella capace di spegnere il Sole e per la sua gentilezza; Isabel era quel tipo di persona che aveva sempre una parola carina per tutti, anche per quel caso umano di Hanji, di cui sentiva lo sguardo umido trafiggergli la schiena. Il dolore prese forma liquida, la disperazione assunse il suono di singhiozzi strozzati nella gola, la consistenza quasi violenta dell'abbraccio di sua madre, quasi pretendessero di ancorarsi alla vita con tutte le forze e di non lasciarsi mai andare. Erano rimasti soli.

Quando furono costretti da quel corteo funebre a muovere i primi passi, a Levi quasi sembrò di fluttuare. Era tutto irreale, ovattato, dalla colonna sonora fatta di campane e mormorii di disperazione alla percezione del suo stesso corpo. Le gambe parevano ridotte in gelatina, il petto vuoto e leggero, ma colmato da una pesantezza emotiva che lo corrodeva dall'interno e che alimentava un incendio di emozioni. Si rese conto di aver preso posto nei primi banchi della chiesa soltanto quando la sensazione del legno freddo dietro la schiena e sulle cosce lo fece trasalire; Isabel gli sorrideva, nella foto che era stata posta sulla bara.

Di quella cerimonia, tutto gli aveva dato alla testa. Il coro che aveva intonato una canzone che tanto sembrava un inno alla vita, il colore immacolato del legno, il cuscino di fiori bianchi che, troppo lungo, copriva completamente la bara; e l'odore di quel posto, di polline misto a quello pungente e asfissiante dell'incenso, l'eco delle parole del prete che riverberava fra quelle pareti in pietra costellate di immagini sacre. Quel tizio, poi, lui sì che lo aveva mandato davvero in bestia e gli aveva fatto ribollire il sangue nelle vene, tanto che Levi dovette imporsi di trattenere una generosa dose di bestemmie incastrate fra le labbra e il palato per tutta la durata della funzione.

Lui che tentava di dare un senso a quella morte prematura, lui che aveva detto che la bellezza dei suoi sedici anni sarebbe stata luminosa davanti al Signore, così tanto da uguagliare quella degli Angeli. Lui che aveva detto che quella era l'età migliore per essere strappati alla vita, semplicemente per essere ricoperti da un bell'involucro. Come avrebbero dovuto consolarlo quelle parole, che invece gli annebbiarono la vista di nero? Se Levi non si mise a urlare, fu semplicemente perché Kuchel al suo fianco sembrava sull'orlo di un collasso. Singhiozzava incurante di fare rumore, le mani strette nei capelli e il capo chino, gli occhi strizzati come a voler scacciare via un'orrenda visione. Lacrime calde scorrevano sui suoi zigomi pallidi, solcavano il volto emaciato.

Allora la strinse a sé, accogliendola fra le sue braccia e posandole delicati baci fra i capelli d'inchiostro mentre continuava ad ascoltare stronzate su quella fede vuota che idolatrava un Dio ingiusto, un Dio che, ai suoi occhi, aveva smesso di esistere nel momento in cui il medico, scuro in volto, aveva chiesto a lui e sua madre di valutare la donazione degli organi. La testa gli si riempì di quelle parole, mentre mentalmente imprecava contro lo stesso essere che fra quelle quattro pareti chiamavano misericordioso. Era forse una manifestazione della sua misericordia, quella? Come poteva essere giusta una cosa del genere? Come poteva quel Dio aver colto il fiore più bello del giardino per il solo gusto di ammirarne i petali delicati e impalpabili?

E ancora, lo aveva reso livido l'applauso all'uscita dal duomo, lo avevano animato di una rabbia cieca le lacrime di decine e decine di suoi coetanei, perché quella non era l'età adatta per piangere i propri amici. Si era sentito mancare allo stormo di palloncini bianchi che erano stati fatti volare sulle note della canzone preferita di Isabel, quella di quell'artista che a Levi faceva davvero storcere il naso e urlare i timpani, ma di cui l'aveva accompagnata comunque ad un concerto. Gli aveva dato fastidio pure il sole, perché anche il cielo sarebbe dovuto essere in tempesta come la sua anima di fronte alla crudezza spietata delle leggi che lo governavano. E mentre le note melense di quella canzone commuovevano quella fittissima folla e lui rivolgeva i suoi ultimi insulti a quel cielo stesso, cristallino e traditore, gli rimbombarono nella testa le sue ultime parole. 

Quelle che gli aveva detto sembrando così piccola e fragile, avvolta dal camice verdastro e dall'aspetto sterile che aveva dovuto indossare per l'intervento.

"Sii gentile e abbi coraggio."

________

"Credo che tutti siamo bersaglio di una componente di sistemi infinitamente più grande di noi, che non siamo altro che piccoli e insignificanti ammassi di carbonio organico agli occhi dell'Universo. Siamo sottoposti alle sue leggi e invischiati nei suoi meccanismi, vittime della ruota della sua casualità, spaventosa e ingiusta. E lo sa cosa rende questa cosa ancora più spaventosa? Il fatto che siamo esonerati da niente, anche se tendiamo a conferirci una sorta di immunità di fronte alle eventualità negative che sappiamo esistere, ma che non associamo mai a noi e alla nostra vita. Forse lo facciamo per rendere l'esistenza un po' più sopportabile, o forse perché l'animo umano è animato da un disgustoso senso dell'ottimismo e tende a lasciare fuori dal proprio campo visivo e dalla propria concezione stessa tutto ciò che non è oggettivamente considerabile come positivo. Quello che voglio dire, è che non sappiamo mai come la ruota girerà. Adesso ci sei, fra cinque minuti non si sa. Ora stai bene, ma fra tre giorni potresti essere in un letto d'ospedale e combattere fra la vita e la morte; oppure, quando uscirò da qui, potrei essere investito da una macchina. O magari potrebbe colpirmi un fulmine, con questo tempaccio."

"Dirlo con quel sarcasmo nero e quel tono sprezzante non ti porterà a nulla, Levi."

Il corvino fissò gli occhi in quelli scuri della psichiatra, sottilissimi fili di perla ad incorniciarle il volto appena segnato dalle rughe. Se ne stava seduta sulla sua poltrona, picchiettando una penna sul supporto rigido che usava per prendere appunti e guardandolo con quell'aria di saccente di chi sa frugarti fra i pensieri e leggerti l'anima. Il ragazzo sbuffò, lasciandosi affondare ulteriormente nel velluto verdastro della seduta della sedia e portando un braccio a sorreggersi il mento con fare scocciato.

"Cosa dovrei fare, dirlo piangendo e sbraitando? Le cose non cambierebbero, il fatto che io sia fottutamente terrorizzato da questa... Cosa, non cambierebbe. Sono inerme, non posso difendermi; e posso pure disperarmi, ma non verrei comunque ascoltato da niente e da nessuno. Le mie volontà non contano, davanti a certi meccanismi. Quelle di Isabel di certo hanno avuto lo stesso valore di un granello di polvere."

La donna rimase in silenzio, scrutando l'espressione algida e impassibile del paziente. Levi era sempre stato così, da quando avevano iniziato quel percorso di sostegno psicologico tempo addietro, immediatamente dopo la morte della sorella. Il corvino era durato a malapena qualche mese, prima di interrompere le sedute e ripresentarsi in terapia dopo quattro anni, alla soglia dei ventuno. Eppure, era rimasto uguale a come lo ricordava, se non per il fatto che il suo sarcasmo si era fatto più cinico e freddo e che i suoi modi si erano inaspriti con il tempo, diventando più ruvidi. Levi si lasciava scivolare addosso qualunque cosa facendo appello alla sua maschera senza emozione, si scrollava tutto dalle spalle con una finta indifferenza; la verità, però, quella che celava a tutti,era un'altra. La sua anima urlava, faceva un casino assordante. Scalpitava, tremava, si disperava per quella vita che gli aveva dato poco e tolto troppo.

Era silenzioso, Levi. Tendeva a voler passare inosservato alla vita non facendo rumore, forse nel tentativo eludere quel meccanicismo universale che tanto lo spaventava e di non attirarne le attenzioni.

"Hai paura di morire?"

"No."

La risposta fu secca, lapidaria.

"È maledettamente stupida, la paura di morire. Ho..."

Prese un respiro profondo, stringendo le mani a pugno e imprimendo con le unghie sottili mezzelune rossastre sui palmi. Non si spiegava come mai l'aria profumata di quella stanza sembrasse a tutti i costi volerlo calmare; non era sicuro che sarebbe riuscito a farci l'abitudine.

"Ho paura del dopo, di quello che lascerei dietro di me se dovesse accadermi qualcosa di brutto. Ho paura di far soffrire gli altri, di ridurli nella stessa condizione in cui sono stato gettato io dopo la sua morte. Nessuno si meriterebbe di stare male in quel modo a causa mia, non valgo la pena."

Erano crude quelle parole, sussurrate a voce bassa come fossero peccatrici; Levi se ne vergognava. Se ne vergognava perché lui, che poteva ogni giorno bearsi dei colori, dei rumori e degli odori della vita, se ne privava volontariamente in una sorta di circolo vizioso che attuava per protezione.

Era paralizzante quella paura di far soffrire, totalizzante al punto da costringerlo a chiudersi in sé stesso e a rifiutare qualunque forma di interazione col mondo. Si confondeva nelle ombre e tentava di nascondere la propria esistenza ora sotto il cappuccio della sua felpa preferita, ora con un paio di cuffie nelle orecchie che gli impedivano di ascoltare i suoni di quel perpetuarsi di vita e di quotidianità. Il contatto sociale, -quello che non prevedesse interazioni con sua madre o con quella squinternata della quattr'occhi, che si era ostinata a rimanergli attaccata come una cozza anche dopo che lui aveva tentato di tagliarla fuori dalla sua vita, dopo la morte di Isabel – 
gli era sconosciuto da anni. Inavvicinabile, così lo avevano definito fra i banchi del liceo e quella sua fama lo precedeva ormai anche all'università. 

Era uno dei migliori studenti della facoltà di Astrofisica di Shiganshina, e studiava semplicemente perché quelle materie scientifiche e complicatissime lo distraevano. Forse perché così tentava di dare un senso all'esistenza e al suo essere così mutevole e beffarda, e segretamente perché anelava al trovare la formula matematica che governava l'Universo intero, quella che gli avrebbe concesso di eliminare la parola imprevedibilità dal suo dizionario personale e dal suo microcosmo. 

"Cosa potrebbe succedere agli altri?"

"Qualunque cosa."

Sputò fuori scuotendo la testa e chiudendo gli occhi, tentando di regolarizzare il respiro con quelle tecniche che proprio la sua terapeuta gli aveva insegnato.

"Potrebbero stare male, ritrovarsi nella mia stessa situazione a dover vivere attaccati alla boccetta d'ansiolitico per non impazzire. O magari potrebbe pure andargli peggio, io questo non lo so..."

Ancora una pausa di riflessione, prima che quella voce calma e pacata riempì la stanza.

"Credi nel destino, Levi? Credi che in qualche modo la nostra vita sia scritta da qualche parte, che ci sia una predestinazione?"

"Non sono il tipo da farsi abbindolare da cazzate come il destino o l'oroscopo. Vuole per caso leggermi la mano, già che ci siamo? Perché non mi sembra che lei abbia una palla di cristallo, sennò avrei senz'altro optato per la divinazione."

In risposta ottenne uno sguardo severo che lo fece sospirare. Si portò una mano sul volto e si stropicciò gli occhi stanchi, tornando poi a fissare i pozzi d'oscurità della donna.

"Credo nella sfiga, semplicemente alcune persone sono più sfortunate di altre e sembrano attirare negatività all'interno della loro vita. Isabel era bellissima e fragile, piccola e forte, eppure non è stata fortunata. Però non credo che fosse scritto da qualche parte nelle stelle che le sarebbe toccato mettere entrambi i piedi nella fossa a sedici anni, se è questo quello che mi sta chiedendo."

Era sempre difficile tirare fuori quell'argomento, lo stancava a livello emotivo in una maniera che poteva essere definita solo come estenuante. Il ricordare il suo bel sorriso ed i suoi capelli rossi, riapriva le cicatrici infette della sua anima e le faceva sanguinare come fossero ferite appena inferte. Ne parlava con distacco e tentando di non dare peso alle sue parole, forse proprio per allontanare il più possibile quel dolore da proprio corpo.

"Lo capisce che io non ho neanche il diritto di lamentarmi e stare male, quando a lei invece è toccata quella sorte? Vivo il mio dolore, ma non mi merito di piangermi addosso e di soffrire per così poco; c'è sempre chi sta peggio di me."

La colpa del sopravvissuto, così la psichiatra aveva definito quel sentimento che aveva messo radici nel suo petto in una insolitamente calda giornata di inizio ottobre e che aveva coltivato per anni. 

"Meriti di lamentarti e di vivere il tuo dolore, Levi; l'hai detto tu stesso, che ad alcune cose non si può porre rimedio. La morte è il punto di non ritorno, e non possiamo fare altro che accettarla ed andare avanti. Cosa ti spaventa così tanto? Cosa ti fa chiudere in te stesso e rifiutare qualunque forma di contatto con gli altri da anni?"

Le sue labbra tremarono impercettibilmente, quando rispose con un filo di voce e tentando di ignorare il groppo in gola. Maledetta Hanji e quando lo aveva letteralmente costretto ad un appuntamento con quella donna che mirava ai suoi tasti dolenti e ad i suoi pensieri più reconditi con una precisione da cecchino!

"L'imprevedibilità, il fatto di non poter avere un controllo su di me, sulla mia vita, sul mio corpo. In questo momento una malattia letale potrebbe essere insediata in me a mia insaputa, potrei tornare a casa e rimanere vittima di un incidente domestico, o la mia mente potrebbe completamente impazzire. Io mi sento impazzire, perché sono incapace di esercitare il controllo che vorrei sulla mia vita."

"Ma ci sono cose che non puoi controllare per definizione, come le azioni degli altri. Come ti senti a riguardo?"

"La maggior parte delle persone sono talmente scialbe che i loro comportamenti sono perfettamente prevedibili, e soprattutto, evitabili. Non mi sento in nessun modo a riguardo, perché non mi mescolo alle persone e loro non cercano me; provo solo indifferenza e va bene così, dev'essere così. Sono piuttosto asociale, se non se n'è resa conto."

Il rombo di un tuono in lontananza ruppe il silenzio carico di interrogativi che permeava l'aria, seguito dal tamburellio di grosse gocce di pioggia che colpivano intermittenti il vetro della finestra. Levi sospirò.

"Ho una paura malata, fottuta di quello che potrebbe succedermi. Ho paura di soffrire, di arrivare a toccare la felicità con un dito, di assaggiarla e vederne il colore per poi venirne strappato via e riportato alla brusca realtà delle cose. E mi sento in colpa nei confronti di tutte quelle persone che vorrebbero poter stringere il mondo fra le mani per sentirne la consistenza e vivere alla giornata e che non possono farlo, mi reputo un fallimento totale come essere umano se penso alla gioia con cui Isabel affrontava ogni giornata. Io non ne sono capace, non dopo aver visto con i miei occhi quanto è labile e indefinito il confine fra la vita e la morte. Vivo col presagio sulla pelle, tento di scacciarlo rimanendo nel buio della mia camera a confondermi con le ombre, lo alimento studiando le stesse leggi fisiche che muovono il cosmo e che tanto odio per la loro noncuranza. Eppure, mi affascinano come non dovrebbero."

L'espressione della donna si ammorbidì a quelle confessioni, e il suo sguardo saettò sul grosso orologio da parete che scandiva i secondi: il loro tempo era quasi giunto al termine.

"Vorresti davvero questo, Levi? Vivere una vita completamente organizzata a tavolino, controllando ogni minimo dettaglio? Non pensi che l'imprevedibilità possa essere anche positiva? Quello che è successo ad Isabel è terribile, ma le cose inaspettate possono anche essere belle e arricchire le nostre giornate."

Levi fece schioccare la lingua sul palato, poi si alzò dalla poltrona con uno scatto fluido e recuperò il suo giubbotto dall'appendiabiti. Lo indossò sotto lo sguardo vigile della terapeuta, calandosi il cappuccio sul volto e rivolgendole un'ultima frase ed un cenno di saluto prima di abbandonare lo studio.

"Sarà come dice lei, probabilmente."

Fanculo, fanculo alla pioggia che bagnava l'aria e l'asfalto, fanculo ad Hanji, -che avrebbe dovuto come minimo legarlo ed imbavagliarlo, per farlo tornare in quel posto – e fanculo alla psichiatra, che tentava di convincerlo che quello che per lui era il male del mondo, potesse avere aspetti positivi. Avrebbe vissuto la sua vita pianificandone ogni fottuto momento a tavolino, senza tralasciare neanche un secondo. Non erano ammesse variabili o imprevisti, nel suo piano perfetto; doveva solo trovare la formula matematica della casualità e passare inosservato ai suoi meccanicismi.

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SPAZIO AUTRICE

Questo è l'ennesimo tentativo fallito di one-shot. 😂Non è neanche una delle storie che avevo nelle bozze, è nata ieri per caso ed è qualcosa di estremamente personale. Dovrebbe essere una mini-long di non so quanti capitoli, per ora questo è l'unico pronto ma scriverò presto gli altri. Sentivo davvero l'impulso di pubblicarla, e mi mancava aggiornare di domenica. Alla prossima! ❤️✨

Ps: questa settimana vedrò anche di revisionare Of Leather and Lust, che è sgrammaticata da morire💕

   
 
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