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Autore: ChiiCat92    11/11/2019    0 recensioni
"Respirare era difficile con la gola stretta in quella morsa metallica. L’aria entrava e usciva con esasperante lentezza, resa pesante dal caldo, dal buio, dalla cappa di odori salati e sapori amari.
La catena era rovente dove toccava la pelle, i grossi anelli agganciati al collare tintinnavano quando si muoveva. Erano pesanti, erano impossibili da smuovere. Erano una condanna.
Selik alzò la testa verso l’alto, cercando un sorso d’aria pulita da rubare e ingoiare a tradimento agli altri schiavi stipati nello stanzone. Se solo il collare d’acciaio fosse stato più lento…"
Genere: Angst, Avventura, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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10/11/2019

 

Anello


Respirare era difficile con la gola stretta in quella morsa metallica. L’aria entrava e usciva con esasperante lentezza, resa pesante dal caldo, dal buio, dalla cappa di odori salati e sapori amari.

La catena era rovente dove toccava la pelle, i grossi anelli agganciati al collare tintinnavano quando si muoveva. Erano pesanti, erano impossibili da smuovere. Erano una condanna. 

Selik alzò la testa verso l’alto, cercando un sorso d’aria pulita da rubare e ingoiare a tradimento agli altri schiavi stipati nello stanzone. Se solo il collare d’acciaio fosse stato più lento… 

Si poggiò con la schiena contro il muro. Lurido di sudore e sangue, l’unico sollievo che dava era la freschezza, così necessaria in quell’inferno di effluvi umani.

Qualcuno piangeva sottovoce, stancamente. Dovevano essere i ragazzi nuovi, perché chi era schiavo da tanto tempo, come Selik, non aveva più forza per piangere. 

I singhiozzi convulsi di respiro che gli contraevano e gli espandevano il petto non bastavano, Selik sentiva la testa leggera e la vista cominciava a farsi annebbiata.

Pensò con distacco che forse morire era la cosa migliore che potesse capitargli. La sua famiglia era morta, il suo villaggio distrutto, il suo mondo sviscerato, perché continuare a combattere? 

Pensò ai suoi Dèi, a Ziri, avvolta di pelli e collane d’ossa che professava la vita eterna dopo la morte per i guerrieri meritevoli, ad Amah, ai suoi occhi grigio pietra, alle sue mani, al suo respiro, più veloce prima di diventare più lento, strascicato, soffocante… 

Gli anelli della catena che aveva al collo tintinnarono, fu strattonato in avanti e cadde, il colpo attutito dai resti gelidi di chi non ce l’aveva fatta. Una ragazza, un ragazzo, un corpo riverso faccia in giù, ancora umido di sudore: doveva essere morto da poco.

« Muoviti. » lo incitò una voce dura come il calcio che di lì a poco avrebbe ricevuto se non avesse ubbidito. Gli schiavisti non dovevano essere gentili, non avrebbero mai venduto qualcosa disfunzionale come uno schiavo che non sa sopravvivere a qualche leggero maltrattamento.

Selik portò una mano alla gola, il collare stringeva tanto che il suo respiro era diventato più un fischio. Nella cortina d’ombra che era calata di fronte ai suoi occhi colse le sagome degli schiavisti che si muovevano intorno a lui, spazientiti. Non avrebbero allentato il collare, ed erano nervosi perché gli era toccato entrare nello stanzone a prenderlo, in mezzo a corpi morti o morenti, tra escrementi e secrezioni di raccapricciante natura. Volevano solo uscire di lì, e così voleva anche lui.

Quindi si obbligò a tirarsi in piedi, anche se la pelle del collo bruciò dolorosamente al contatto con il metallo, anche se la testa leggera lo fece ondeggiare su gambe instabili. Se solo avesse potuto respirare

Camminò tenendo la testa alta, sulla punta dei piedi quasi, sperando che il collare gli desse tregua. Gli schiavisti risero di lui, scambiandosi occhiatine. Da un momento all’altro avrebbero tirato la catena e lui sarebbe finito a terra, nella polvere, tra gli arti ammucchiati di altri schiavi meno (o più?) fortunati di lui. L’avrebbero costretto a rialzarsi in piedi, minacciandolo, schernendolo, e poi avrebbero di nuovo tirato la catena, continuando quel perverso, infinito gioco di potere. Selik era così stanco da non riuscire neanche più a provare rabbia. 

Cosa avrebbero pensato di lui il Capovillaggio o Ziri stessa? Del modo in cui stava gettando la sua vita in pasto ai suoi carcerieri? Di come ignorava i momenti e lasciava scivolare via le occasioni per ribellarsi, impadronirsi di una daga o un coltello per ucciderli tutti, sgozzarli, bagnarsi del loro sangue e prendersi la sua vendetta? 

Gli schiavisti tirarono di nuovo, ma nonostante il collare e la debolezza riuscì a mantenere l’equilibrio. L’atteggiamento visibilmente non remissivo non piacque ad uno dei due schiavisti, che gli assestò un calcio alle ginocchia. 

Selik, reso fragile dagli spostamenti forzati, dalle catene, dalla fame, dalla stanchezza di vivere, cadde ancora, ma stavolta fu più umiliante.  

Gli uomini risero di gusto, sghignazzando cose come “non riesce neanche a stare in piedi!” come se non fossero stati loro a farlo cadere.

Selik sentì la mascella scricchiolare e il cuore prendere a battere più forte. Il pulsare contro il collare era insopportabile, la pelle si attaccava al metallo e bruciava. Si costrinse a prendere fiato con la bocca aperta, nonostante il puzzo che gli riempì la gola e gli bruciò gli occhi. Con quell’affare al collo non poteva permettersi di perdere la calma, neanche per un attimo, o sarebbe letteralmente morto soffocato dalla sua stessa rabbia.

Riuscì ad alzarsi, faticosamente, sotto la pioggia di risate degli schiavisti. Anche se avesse avuto la forza di disarmarne uno, non sarebbe riuscito a soggiogarli: grossi com’erano scoraggiavano anche il pensiero. 

Li odiò, con tutte le forze rimaste, e anche se ormai aveva perso speranza che ci fossero gli Dèi a vegliare su di lui, pregò comunque Thrakurd: che li fulminasse, che li punisse. 

Nessun segno dall’alto, e Selik fu costretto a camminare. 

Non aveva idea di dove si trovasse, avevano viaggiato per giorni e la marcia forzata aveva cancellato ogni percezione di tempo e spazio. Quel che sapeva è che il mercante di schiavi a cui apparteneva doveva essere molto facoltoso dal momento che possedeva quello stanzone dove stipare gli schiavi e si trovava poco lontano dalla piazza del mercato dove si tenevano le aste.  

Il via vai colorato di persone, gli strilli dei venditori, l’aria satura di spezie: doveva essere giorno di vendita.

Selik fu spinto di malagrazia, e più volte si dovette trattenere dal ringhiare verso i due uomini. 

Quel giorno si vendevano gli schiavi maschi tra i quattordici e i diciassette anni, la piazza del mercato era piena di ragazzini smagriti e spaventati, con catene al collo o ai polsi, che si guardavano intorno con occhi imploranti. Quel genere di schiavi era raro e prezioso, dato che i ragazzini avevano la brutta abitudine di morire durante il trasporto o di ribellarsi con troppa frequenza, o di cadere addosso alle spade degli schiavisti. Istinto di sopravvivenza e stupidità erano difficili da distinguere a quell’età. 

Selik venne spinto in quella che, ipotizzava, fosse la zona riservata al suo mercante.

Il sole era alto, angosciante e caldo nel cielo terso, i colori apparivano saturi per occhi che avevano passato ore nel buio. Ma l’aria era pulita, sgranata, e anche se gli odori delle specie davano fastidio allo stomaco, Selik era grato di respirare un po’ meglio. 

Una folla, ingioiellata e incuriosita, cominciava a raccogliersi in piazza di fronte agli schiavisti in semicerchio di fronte ai loro prodotti. L’asta sarebbe cominciata da un momento all’altro. 

Selik lasciò scorrere lo sguardo, fintamente distratto e ottuso come aveva imparato in quei mesi di schiavitù, sul brulichio di persone. Grossi insetti schioccanti e famelici che non aspettavano altro di affondare le tenaglie su carne giovane e tenera.

Si chiese se la vita sarebbe diventata più semplice diventando lo schiavo personale della bella donna velata accompagnata da una dama che teneva un ombrellino di tessuto sulla sua testa, o magari con la coppia grassa che si stringevano la mano convulsamente facendo brillare gli anelli ad ogni dito, o forse con…

Batté le palpebre e si costrinse a guardare altrove, a disagio. 

Un uomo in mezzo alla folla lo guardava con insistenza. 

Aveva distolto lo sguardo in tempo, o almeno sperava, ma era certo che l’uomo l’avesse puntato.

Brutto schifoso, lui come tutti in quella folla di melma umana. 

L’asta cominciò in un frastuono di campanelle, e urla seguirono alte. Si offriva un giovane vergine di tredici anni, un po’ magro ma in buona salute, capelli rossi come la gramigna, una vera stranezza! 

Di qua invece, cos’abbiamo? Giovanotto adatto ai lavori pesanti, massiccio, diciassette anni, una signora sola potrebbe approfittare dei suoi servigi… 

E qui? 

Selik sobbalzò quando lo schiavista gli schiaffeggiò il sedere, costringendolo a raddrizzare la schiena e portare il mento in alto. 

« Giovane guerriero della foresta, ultimo della sua specie, sedici anni e tutta una vita di schiavitù da dedicarvi. » serrò i denti, gli afferrarono i capelli scuri da dietro per scoprirgli il volto. Sentiva di avere le guance in fiamme, chiazze di rosso in petto per la vergogna, ma resistette all’impulso di chiudere gli occhi. « E guardate qui! Un’iride blu e una verde! Sfoggiatelo alle feste, sarà il vostro fiore all’occhiello! » 

Una marea di offerte gli si riversò addosso, come se dovesse essere lui ad accettarle. Indietreggiò di qualche passo, poi sentì gli anelli della catena tendersi e si costrinse a rimanere immobile. Lo schiavista che gli aveva tenuto i capelli lo lasciò andare mentre il mercante raccoglieva le offerte urlando e sputando per la foga. 

Cento!

Duecento!

Trecento!

Quanto poco doveva valere la sua vita.

Quattrocento!

Cinquecento!

Impreziosita da un dono casuale degli Dèi, ritenuta più interessante di quella di altri, di quella di Amah, di Baros, Gavriel. 

Seicento!

Settecento! 

Le lacrime impreziosivano maggiormente, come diamanti, le pietre preziose dissonanti che erano i suoi occhi e la folla quasi impazzì. 

« Diecimila. » 

Per un attimo ci fu silenzio, un silenzio attonito. 

La folla si aprì a ventaglio intorno all’uomo che aveva parlato e Selik lo riconobbe: era quello che lo fissava prima dell’inizio dell’asta.

« Signore, il pagamento sarà totale e in moneta sonante, non voglio insinuare che farebbe un’offerta senza poterla onorare ma… »

L’uomo piegò la testa di lato, era impossibile decifrare l’espressione sul volto d’alabastro. 

« Quindicimila. »

« Venduto, venduto, venduto! » strillò il mercante, scuotendo la campanella che segnava la fine dell’asta. 

Selik si vide spintonato tra la folla mormorante, ancora pacatamente silenziosa. L’attenzione scivolò via da lui quando un altro venditore annunciò uno strano ragazzo-bestia così grosso da poter sostituire cinque o sei schiavi normali.

Gli schiavisti trascinarono Selik verso l’uomo, fingendosi più gentili, come se il collare non gli avesse lasciato segni, come se il corpo non fosse provato dalle sevizie, come se non avesse lividi ovunque e ossa sporgenti. 

« Ha fatto un affare, signore. » proclamò compiaciuto il mercante. « Adesso se non le spiace… » allungò una mano verso di lui, agitando le dita, a Selik ricordò un mollusco con barbigli dentati che si muove nella corrente. 

L’uomo non sembrava facoltoso, non come altri nobili ingioiellati che si sbracciavano per avere lo schiavo migliore; non aveva gioielli, a parte un cordino d’oro con gemma rossa intorno alla fronte, come una goccia di sangue solidificata sulla pelle ambrata. La tunica che indossava era di certo di stoffa preziosa, ma non aveva alcun ricamo, o alcun colore, era un pezzo unico con una cintura rossa e oro, come a richiamare la gemma che aveva intorno alla fronte; i capelli biondo platino erano acconciati in una treccia a spiga, lunga e spessa sulla schiena.

Selik deglutì, infastidito dal modo in cui i suoi occhi di ghiaccio cercavano di scrutare dentro di lui. 

Da una tasca interna della tunica tirò fuori un sacchetto di monete sonanti. Lo porse al mercante che finse soltanto di non essere eccitato, dal momento che i baffi ballavano sulle labbra sudate e le dita grassocce continuavano a soppesare il bottino.

« Vi ringrazio, signore. Spero che godrete a fondo del vostro nuovo schiavo. » schioccò le dita e gli schiavisti, dopo quelli che a Selik sembrarono anni, sganciarono il collare di metallo.

Finalmente poté prendere una boccata d’aria dilatando completamente i polmoni, e con quell’unico, fresco sorso divenne consapevole di essere forte, pieno di energie. Poteva scappare adesso e nessuno sarebbe riuscito a stargli dietro. Il mercante era troppo impegnato a contare i suoi soldi, gli schiavisti avevano già perso interesse per lui: dal momento che era stato comprato non era più compito loro sorvegliarlo.

« Vuoi già scappare? » chiese l’uomo, quando ormai lui aveva già un piede indietro pronto a dargli lo slancio per correre.

La domanda gli contrasse le sopracciglia in un’espressione sorpresa. Si era tradito in qualche modo? Aveva mosso il corpo troppo velocemente? I suoi occhi avevano cercato un varco nella folla troppo in fretta? 

« Mi metterai un collare anche tu? » sputò, rauco. Erano giorni che non sentiva la propria voce, e di certo non aveva intenzione di usare educazione verso l’uomo che l’aveva comprato per quindicimila monete.

« No. » la risposta lo sorprese, più perché non l’aveva accusato per il suo tono sprezzante che altro. Poi si volse, le mani affondate nelle maniche della tunica, il passo leggero in sandali che scomparivano sotto l’orlo. 

Selik si ritrovò a fissare la sua figura mentre si allontanava e per la prima volta da quando aveva perso tutto ebbe paura. Fino a quel momento il suo futuro appariva doloroso ma stabile, ad una marcia ne seguiva ineluttabilmente un’altra, se riusciva a sopravvivere fino alla città successiva sarebbe stato nutrito, lavato e preparato per spostarsi altrove, verso un altro mercato, un’asta più conveniente. Ma non aveva mai veramente pensato a quel momento, pensava onestamente che sarebbe morto prima, per gli stenti o per sua scelta.

Adesso la folla lo ignorava, il mercante era intento a contrattare per un altro schiavo, le campanelle tintinnavano ad ogni vendita, e lui non aveva dove andare. Era spaventosamente libero, spaventosamente solo. 

« A-aspetta. » 

Corse verso l’uomo, il cuore in tumulto come non lo sentiva da mesi. 

Lui non gli rivolse neanche uno sguardo, continuò a camminare, il passo sicuro, quegli occhi di ghiaccio fissi di fronte a sé. La pelle brunita era quasi troppo scura, faceva apparire sottili i capelli biondi, quasi bianchi. Emanava uno strano, piacevole odore di fiori. 

« Perché mi hai comprato se non mi vuoi? » gli chiese, quando riuscì ad affiancarlo. Aveva una lunga falcata che rendeva difficile mantenere il suo passo. 

L’uomo non rispose, il suo volto sembrava incapace di esprimere emozioni, proprio come durante l’asta. 

« Mi fermerò a mangiare qualcosa prima di riprendere il viaggio. » gli disse all’improvviso, voltando in un vicolo così impregnato di odori e colori che Selik sentì la gola pungere e lo stomaco stringersi. 

Mangiare e riprendere il viaggio, sembrava una buona idea. Ma non aveva soldi con sé, non aveva niente se non se stesso, e gli schiavisti avrebbero potuto catturarlo di nuovo per rivenderlo altrove.

« Rimarrò con te. » gli si fece più vicino, l’odore di gelsomino era confortante, o forse voleva solo illudersi. « Finché mi fa comodo. » aggiunse, sottovoce. 

« Bene. »

L’uomo gli rivolse il primo, tenue sorriso, e Selik sentì il peso e il tintinnio di nuovi anelli di catene che gli stringevano il collo legandolo a lui. 

 
   
 
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