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Autore: wanderingheath    11/11/2019    0 recensioni
Clara attende da mesi che la Fortuna bussi alla sua porta, sperando in un colpo improvviso, in un campanello di novità. In un'umida serata primaverile, però, a bussare alla porta di casa è soltanto Arturo e non preannuncia alcunché di buono.
Infatti, Irene sembra scomparsa nel nulla.
Senza un messaggio, una telefonata, una lettera, un post-it: niente.
Nella vita caotica e confusa di Clara, ancora intenta a ricomporre i pezzi della propria esistenza, la questione passerebbe in quarto piano, ma l'insistenza di Arturo la porta a cedere.
Imbarcatasi quindi in un'assurda avventura ai confini del reale, del mondo concreto e conosciuto, alla disperata ricerca dell'ex coinquilina ed amica, Clara sarà costretta a mettere in discussione la fredda razionalità che l'ha finora guidata.
Se c'è qualche possibilità di salvezza o redenzione, per sé e per Irene, dovrà cercarla dall'Altra Parte.
Genere: Fantasy, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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0. Il Vuoto




La spiaggia era deserta.
Fatta eccezione per le loro orme, non vi era alcuna traccia di presenza umana.
Sulla brochure che aveva trovato nella camera della pensione spiccava un’immagine lucida e dalle tonalità pastello, in una miscela di rose, fragole e violette.
In definitiva, tutto ciò che la costa non offriva.
Ai visitatori si presentava piuttosto un litorale piatto, calmo, compatto nella sua lingua di sabbia talmente umida da sembrare orzo coperto d’acqua.
Il sapore di salsedine si scioglieva in bocca, graffiava la gola, scorticava le narici di qualunque passante.
Non le piaceva il mare con quello strano, regolare, irritante sciabordio, quel battito che si armonizzava adesso con il suo polso.
Lo stesso promontorio che aveva notato dalla finestra della stanza centodieci, s’intravedeva sulla linea dell’orizzonte, spezzando un tramonto già cinereo. 
Alla pensione – che sul Web vantava ben tre stelle e una cascata di recensioni positive, nella realtà un agglomerato di camere prive di televisione e mini-freezer –  la proprietaria si stava lamentando proprio del tempo, riconoscendovi la causa di una stagione turistica piuttosto magra.
Forse per quello, nel vederli arrivare in gruppo, le si erano spalancati entrambi gli occhi, anche il destro, affaticato dalla cataratta.
Le aveva consegnato la chiave con una certa reticenza, facendola scivolare sul ripiano del bancone come se si trattasse di chissà quale miracoloso filtro.
“Ti ci vuole davvero una bella vacanza, ragazzì. Sei tutta sciupata”
Avrebbe potuto essere sua nonna – e in effetti, per la montatura grigia che ingolfava un volto già di per sé rigonfio, le ricordava un po’ nonna Ada – con la sola, banalissima differenza che sua nonna non si sarebbe mai permessa di notare arie sbattute, sciupate o simili.
Per quieto vivere e stanchezza, mordersi il labbro e abbozzare un pessimo sorriso le erano sembrati strumenti sufficienti a togliersi d’impaccio. La signora le aveva poi gridato dietro qualcos’altro, un dettaglio di poca importanza che stava quasi dimenticando.
“Ah! La centodieci è al terzo piano”.
Niente ascensore, solo una serie di scale a chiocciola dei primi anni Venti.
Una buona mezz’ora doveva averla passata a fissare il rubinetto aperto, seduta sul bordo della vasca in marmo rosa, mentre il getto d’acqua fredda si riversava nel lavandino. Si era sentita incapace di compiere qualunque movimento, anche il più banale, trascinandosi addosso una pesantezza che le appariva secolare.
La grande “F” blu che sbiadiva sulla manopola davanti a sé aveva calamitato il suo sguardo.
Chiaramente, aveva evitato con cura d’incrociare, anche per sbaglio, la propria immagine nello specchio. Sapeva già quale aspetto l’attendeva nel riflesso impietoso.
Adesso uno strano vento primaverile, che di leggero e piacevole non aveva proprio nulla, le scompigliava i residui di una capigliatura agli sgoccioli della decenza.
Clara si strinse nel maglioncino di ciniglia, rimpiangendo di aver scelto un capo così leggero per la serata.
Sarebbe voluta tornare indietro. Per quanto codarda, per quanto sbagliata potesse risultare una simile scelta, il suo istinto le suggeriva quella strada.
Il lungomare le sembrava un percorso costruito a regola d’arte, una serie di caseggiati, bar e locali vuoti da riempire con esseri imbalsamati; una fila di case per le bambole, in plastica.
Appariva tutto troppo spento, troppo strano, con quella cappa bigia a gravare sulle loro teste, ad inquinare ulteriormente un piano che non la convinceva affatto.
Il resto del gruppo non era toccato da altrettanta angoscia.
Poco distante dalla sua posizione, adesso le sembrava distante eoni, come smorzato o fuoricampo.
Gli altri erano immersi in una bolla aranciata, nell’unico spicchio di tramonto che filtrava tra le nubi, e in discussioni da complici, di chi si conosce da troppo tempo per non permettersi di scherzare.
Forse, rifletté Clara, quella fuoricampo era lei.
Fuoricampo, fuori dal mondo… sicuramente fuori da quell’istante di assurda serenità.
Ad osservarli dall’esterno, sarebbero potuti passare per turisti precoci, una comitiva d’amici che si ritagliava una vacanza fuoristagione. D’altronde, era stata la proprietaria dell’albergo ad augurare loro un “tranquillo soggiorno”. 
Clara sollevò lo sguardo sull’orizzonte, riprendendo una serie di calcoli mentali che aveva abbandonato per stupide elucubrazioni paesaggistiche. Come se avessero avuto tempo da dedicare al panorama.
Secondo le sue previsioni, sarebbero rientrati per un soffio nel conto di un’ora, un’ora e un quarto, se tutto fosse andato secondo i piani.
Il punto era quanto tempo sarebbe stata in grado di guadagnare Sienna, con i suoi modi generalmente spicci, perfino iperattivi, da lince.
Anche prima, nel tragitto verso la pensione e poi lungo le scale a chiocciola, l’aveva vista fresca, trotterellante, energetica e propositiva come al suo solito. Se non l’avesse conosciuta, avrebbe detto che l’intera situazione la rinvigorisse.
E più cresceva la sua lucida euforia, la soddisfatta elettricità, più si accartocciava nello stomaco di Clara un rivolo di bile, alimentandolo secondo dopo secondo.
«Niente male qui, vero?»
Clara si lasciò strappare un sussulto.
Non aveva sentito il rumore di passi sulla sabbia, che completavano il semicerchio impresso dalle sue scarpe.
«Enne, mi hai spaventata.»
L’altro le rivolse un sorriso per metà ironico. «Vedo che siamo un po’ tesi stasera.»
Calò un silenzio che nessuno dei due si curò di interrompere o sanare.
Il promontorio veniva lentamente inghiottito dal buio, spegnendosi all’accensione dei primi lampioni sulla strada che costeggiava il litorale.
Nicola le si era piazzato accanto, gambe divaricate, mani allacciate al petto, il solito, stoico, finto autocontrollo di sempre. Il vento colpiva anche lui, lambendogli una delle infinite camice a scacchi che teneva stipate nell’armadio. Non le stirava mai, gli piaceva indossarle stropicciate per mantenere il look trasandato.
Clara detestava doversi sbilanciare, recitare la parte dell’insicura. In genere era lei a dispensare consigli e rassicurazioni; l’idea di piegarsi al conforto dell’amico, come un animale da lisciare prima di essere ingabbiato o scorticato, la innervosiva.
Affondò le mani in tasca, dondolandosi sul posto. La battigia si squagliava sotto le sue scarpe, riassorbita dai flutti.
«Ci sono venuto una volta, da queste parti», disse infine Nicola.
Davanti allo sguardo perplesso dell’altra, annuì con decisione. «Da piccolo. Mi ci portò mio padre.»
Ricordava spiazzi enormi affollati dai viaggiatori, l’odore di brace, gli ossi della frutta abbandonata sulla spiaggia libera, il camper arrostito dal sole allo zenit.
Clara interruppe il suo monologo.
«Ni, pensi che sia un buon piano?»
Il ragazzo parve rimuginarci, prima di esibire un secondo sorriso amaro. «È un piano. Non buono, ma di certo il migliore che abbiamo al momento.»
 «Questo perché è l’unico», replicò lei secca.
«Appunto.»
Clara sentì le proprie corde vocali attorcigliarsi in un groviglio. Una nuova morsa le costringeva il petto.
Un compito banale come la deglutizione era diventato quasi impossibile. Non riusciva a capacitarsi del fatto che tutte le loro speranze convogliassero in una proposta così sciocca.
Ciò che la preoccupava era come non ci stessero nemmeno provando, ad afferrare, a trattenere un minimo di razionalità; scivolava via il tempo, scivolava via il controllo, scivolava via la speranza di avvicinarsi ad una soluzione concreta.
«Ci rimettiamo ad un visionario», fu l’unico commento che riuscì a sputare.
La replica di Nicola si esauriva in una semplice scrollata di spalle. «È un tentativo.»
Clara sospirò, rilasciando tutto il fiato che aveva compresso nei polmoni.
«Sei riuscita a riposare un po’?»
La ragazza annuì, gli occhi ancorati al bagnasciuga. «Penso di essere crollata. Di nuovo.»
Dormire, tuttavia, non sembrava esserle d’aiuto. Ogni volta che provava a chiudere gli occhi, le si accalcavano dietro alle palpebre una serie di immagini scompaginate che prendevano a roteare, a tormentarla. Se poi riusciva a superare la fase di limbo, la prova successiva risultava ancora più angosciosa.
«Ho fatto uno strano sogno», ammise.
Nicola tentò di incrociare il suo sguardo, ma l’amica non si smuoveva di un centimetro. Era una statua di cera incastrata fra granelli di sabbia. A giudicare dall’incarnato, dalle guance scavate e dalle mezzelune livide disegnate sotto alle iridi chiare, sarebbe potuta davvero finire al Madame Tussauds londinese.
«Che sogno?»
L’intenzione di raccontarglielo si era palesata solo davanti alla domanda. In qualunque altro contesto, avrebbe tenuto tutto per sé, specialmente perché si trattava solo di un sogno.
Ma prima Leandro, adesso questo… aveva bisogno di dividerlo con qualcuno.
Si decise a guardare Nicola per la prima volta dal suo arrivo, consapevole che da lui avrebbe ottenuto una reazione diversa da quella dei presenti, senza liquidare la questione.
«Mi trovavo… in una specie di teatro. Mi ci esibivo da piccola, o almeno ricordava lo stesso su cui salivamo.»
Clara si strinse ulteriormente nel maglioncino, sperando di congiungere il tessuto alla pelle, di schermare lo scheletro che percepiva esposto.
«Era notte. Fuori, insomma, non si vedeva niente. E questo palco era immerso in una… sorta di luna park precario, di quelli ambulanti. Hai presente?»
Nicola annuì piano. Il sogno si snodava su di un sentiero immerso nelle tenebre, al centro esatto del parco inselvatichito dalla sterpaglia, dai prati incolti, dalla macchia uniforme di profondo buio che mangiava il perimetro recintato.
«Io… o meglio, la ragazzina che ero io, ma che non mi assomigliava per niente,» riprese Clara con difficoltà, «lei credo che aspettasse qualcuno. Sì, forse i genitori o parenti che la riportassero a casa».
Riusciva a ricordare pochi fotogrammi, di passi accennati nell’ombra, in una coltre di nebbia spessa come una vera e propria porta. Soprattutto, le era rimasto attaccato addosso il senso di nudo terrore, di spaesamento che aveva provato il suo alter ego.
La bambina si dirigeva a caso da una parte all’altra della strada, percependo solo con la coda dell’occhio una matassa di corpi avvoltolati sul ciglio, in mezzo all’erba alta. Degli uomini che somigliavano a cadaveri, eppure si mantenevano vivi, parlavano con voce appena rauca, il viso sciolto in una maschera come di trucco sbavato. Si perforavano un punto, proprio sull’avambraccio, con una penna o qualcosa di simile.
«Hai sognato degli eroinomani?»
Clara scosse la testa, facendogli cenno di aspettare. «Non finisce qui.»
«Poi mi fermavo davanti a questa grande casa, in una parte del parco talmente risucchiata dalla nebbia da non permettere di vederne nemmeno la porta. Però…»
Un lieve singulto la scosse, rendendole difficile inghiottire pochi granuli di saliva.
«Io lo sapevo. Cioè, lei lo sapeva… insomma, sapevamo che quella era la casa della Morte, o qualcosa del genere. E ti prego, Enne, non scherzare su questa cosa perché ti giuro che ho ancora i brividi.»
L’altro se ne stava raccolto in un atteggiamento pensieroso. Di scherzi, non se ne leggeva nemmeno l’ombra.
Alla fine di una lunga pausa, Clara sentì di non riuscire a tollerare ancora il silenzio. Gli pose un’unica domanda.
«Pensi che c’entri qualcosa?»
«Tu…», Nicola la guardò intensamente. «Tu sei entrata, poi, in quella casa?»
Clara scosse il capo. Qualcuno l’aveva chiamata prima che potesse oltrepassarne la soglia, costringendola a voltarsi. Dopodiché, si era risvegliata nella stanza della pensione.
Gli ripropose la domanda, ottenendo solo un mugugno come risposta.
«Penso che tu sia molto stanca, Clara.»
La ragazza si pentì immediatamente di averlo coinvolto nella sua assurda speculazione. Al tempo stesso, però, non poteva evitare di difendere la propria teoria. «Ma è un sogno piuttosto strano, date le circostanze. Non può essere soltanto suggestione, Ni.»
«D’accordo,» concesse lui, «ma non deve necessariamente costituire una svolta. Giusto?»
Riaffiorò il sogno precedente, quello di Leandro. No, non doveva essere una svolta. Probabile che i suoi pensieri, turbati da tutto quel succedersi di eventi, stessero solo provando a… rielaborare.
Sì, quella era la spiegazione più logica.
Una corsa soffice, attutita, accompagnò l’arrivo di Sienna. «Siamo pronti all’azione», annunciò con malcelato entusiasmo. «Tommy ha detto che la strada fino alla chiesa prende un quarto d’ora, che con il passo della vecchia diventerà una mezz’ora buona. Quindi, dovremmo essere coperti per almeno due ore.»
Poi, come accorgendosi solo allora dei propri interlocutori, la ragazza aggiunse: «Clara, va tutto bene?»
Clara si riscosse. Lanciò un’ultima occhiata al promontorio, ormai sprofondato nel buio. 
Un pensiero, fugace e veloce come un treno merci lanciato su rotaia, le attraversò la mente: si stavano per mescolare all’oscurità, ma senza certezza di redenzione o ritorno.
«Sì.»
Una schiarita di voce.
«Sì, certo», riprese con maggiore convinzione. «Andiamo.»
   
 
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