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Autore: _Malila_Pevensie    11/11/2019    0 recensioni
Prima storia della serie "Le Saghe di Finian"
Il mondo di Finian non conosce giustizia da quasi cento anni, fin dall'istante in cui la tirannia della Regina Mirea ha avuto inizio.
Freya non l'ha mai vissuta in modo diretto, protetta dalla quiete delle Foreste di Confine in cui sua madre l'ha cresciuta. Le è stato fatto l'immenso dono della libertà e lei non ha mai pensato di lasciare il luogo che l'ha vista diventare ciò che è.
Aran, Principe alla corte di Errania, non ha mai visto in Mirea null'altro che la propria salvatrice. La sorte gli ha concesso ogni ricchezza e privilegio, ma gli ha lasciato anche un fardello d'immense bugie in cui non sa di star affondando sempre più.
La verità, celata dietro quelle esistenze che sembrano destinate a ripetersi sempre uguali a loro stesse, si rivelerà presto in tutta la sua schiacciante realtà.
Il loro destino, racchiuso in una Profezia antica di un secolo e ultimo lascito dei draghi, si presenterà proprio nell'instante in cui le loro vite entreranno inaspettatamente in collisione.
Il Tempo del Silenzio è giunto alla fine e il momento di scegliere si fa sempre più vicino.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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CAPITOLO 13
- LEZIONI DI BALLO -




Quella notte, dopo molto tempo, lo Spirito Guida tornò a farle visita. Era da prima del suo arrivo a Errania che non sentiva più la sua voce invaderle i sogni; in qualche modo, fu rassicurante sapere che almeno quella piccola parte della sua vecchia vita non l'aveva abbandonata.
Nel buio vellutato da cui emergeva la voce incorporea dello Spirito Guida, Freya ripeté la stessa domanda che si era fatta ancora mille altre volte da quando quel fiore era spuntato tra le sue dita: "Perché proprio ora?"
Sta per giungere il momento, rispose lui, enigmatico.
"Quale momento?" chiese ancora Freya, sempre più confusa, mentre il sogno iniziava a scivolare via.
Quello in cui dovrai scegliere, concluse la voce, appena prima che gli occhi della ragazza si spalancassero sulla nuova giornata che stava per iniziare.
Era stata un'altra voce a strapparla al sonno: sommessa, dal timbro femminile. Le ci volle qualche istante per capire che si trattava di Malia che, nel mentre, la scrollava con delicatezza. «Lady Freya...vi prego, svegliatevi» le sussurrava la donna con evidente impazienza.
«Te l'ho già detto Malia» rispose la ragazza con la voce ancora impastata dal sonno, seppur fosse stato scarso. «Basta che mi chiami Freya, non serve tutto il resto.»
Avvertì un sospiro e l'ancella alzò gli occhi al cielo. «Oh, e va bene... Freya. Ma ora è importante che ti svegli» acconsentì alla fine, seppur con una certa riluttanza.
Lentamente Freya si tirò su, la schiena terribilmente indolenzita a causa della posizione fetale in cui era stata raggomitolata per tutta la notte. Non era da lei faticare tanto ad alzarsi, ma la sera prima il sonno aveva tardato parecchio ad arrivare. I pensieri, che già per tutta la giornata l'avevano perseguitata, avevano continuato a vorticarle in testa anche con il calare della notte: quello che aveva provato vedendo il luogo dov'erano custodite le spoglie di suo padre, la paura di ciò che attraverso il solo contatto con la terra era riuscita a produrre. Poi, quando finalmente si era addormentata, le parole misteriose dello Spirito Guida. Le ricordava chiaramente, eppure non riusciva a interpretarle.
In ogni caso, non ebbe molto tempo per rimuginarci. Malia sembrava ansiosa di portarla da qualche parte, tanto che le aveva addirittura già preparato gli abiti. La giovane ebbe a malapena il tempo di rinfrescarsi nella stanzetta da bagno e vestirsi, prima che l'ancella la trascinasse lungo corridoi e scalinate fino all'ala ovest.
«Dove dobbiamo andare tanto di fretta a quest'ora del mattino?» domandò Freya a un certo momento, arrancando dietro al passo svelto della donna.
«Vedrai, mia cara» le rispose Malia.
Pochi istanti dopo, si fermarono di fronte a una piccola porta in legno scuro, incassata nella parete di pietra; senza esitazioni, l'ancella l'aprì e le fece cenno di andare avanti. Quando ebbe varcato la soglia, Freya si ritrovò di fronte a una stanza largamente illuminata da una vetrata che dava sui giardini interni del palazzo. Tutto intorno, lungo le pareti, correvano scaffali forniti di stoffe di tutti i tipi, a prima vista estremamente pregiate; davanti a loro, esattamente al centro della stanza, una donna bassa e in carne stava esaminando quello che sembrava uno di quei manichini che usavano i soldati per allenarsi. Era ricoperto di drappi di almeno dieci colori e materiali differenti.
Malia si fece notare con un lieve colpo di tosse. «Madama Cloelia?» chiamò a mezza voce, quasi temesse di deconcentrarla.
La donna si voltò verso di lei e allora Freya la vide in volto: aveva guance rosee, occhi di un penetrante color ambra e portava i capelli grigi e ricci piuttosto corti, raccolti in un fazzoletto ricamato. Aveva una veste lunga e rossa, fermata in vita da una cintura carica di strumenti da sarta.
«Hm, la figlia di Eleana» affermò, sicura, con espressione corrucciata.
Freya sorrise, oramai abituata a essere identificata in quel modo.
Senza attendere risposta, la donna si mosse in direzione della ragazza e in silenzio le alzò prima un braccio, poi l'altro e infine la fece girare su se stessa. Estrasse una fettuccia di cuoio graduata, con la quale le misurò il punto vita, il torace, la circonferenza delle spalle e del collo. Poi, senza un minimo di ritegno, le alzò la gonna e le misurò il polpaccio. La giovane si ritrovò in balia di quell'energica donnetta, senza poter protestare né fare nulla. Nell'angolo, Malia tratteneva le risa, cercando di restare seria e composta.
Solo dopo un lungo attimo di riflessione Madama Cloelia si voltò verso il manichino e finalmente parlò. «Nulla! Nessuna di queste stoffe è adeguata a creare un abito per te. Il colore, il tessuto... Tutto il lavoro di una notte in fumo!» esclamò, al colmo della frustrazione.
Prese tutti gli scampoli in una sola bracciata e li buttò alla rinfusa su uno scaffale; dopodiché, si voltò nuovamente verso Freya e la studiò con aria corrucciata.
Malia se ne stava in perfetto silenzio; evidentemente conosceva da lungo tempo la donna e sapeva che non andava interrotta mentre lavorava. L'aveva capito persino Freya, in quel breve lasso di tempo: pareva che anche il più lieve rumore proveniente dall'esterno la irritasse, facendole comparire in volto quell'espressione perennemente accigliata con cui l'aveva accolta.
Poi, d'un tratto, un lampo di genio illuminò il viso di Madama Cloelia. In breve la donna scomparve in una piccola stanza adiacente, che in un primo momento Freya nemmeno aveva notato. Si sentì un tramestio diffuso, ante aprirsi e subito dopo richiudersi, finché non si udì un'esclamazione trionfante. La sarta ritornò con un voluminoso involto tra le braccia. Lo posò delicatamente sul suo tavolo da lavoro, quasi fosse un neonato in fasce, e piano prese a svolgerne i lembi. Fece poi cenno alla giovane di avvicinarsi.
Dalla tela grezza apparve uno splendido abito di quello che sembrava raso morbidissimo, color blu fiordaliso. Il corpetto era semplice, attraversato solo da uno scollo ovale ricamato finemente. Il dettaglio più spettacolare erano certamente le maniche, intessute in un materiale quasi impalpabile: strette all'avambraccio, a partire dal gomito si allargavano morbidamente, arrivando a toccare la lunghezza della gonna. Tutta la superficie del vestito era ornata da una cascata di pietre sparse, cucite a mano su ricami leggerissimi, tanto piccole da risultare quasi invisibili. Nonostante Freya non avesse mai amato particolarmente l'abbigliamento femminile, non potè fare a meno di restare a bocca aperta.
L'espressione di Madama Cloelia si addolcì. «Questo è l'ultimo abito che ho potuto cucire per tua madre» le spiegò delicatamente, mentre la giovane si voltava a guardarla, ancor più stupita.
La giovane sfiorò la stoffa: era leggerissima.
«È stato in occasione di un rinnovamento dei voti nuziali suoi e di tuo padre» continuò la sarta. «Avete le stesse misure. Che aspetti, provalo.»
In men che non si dica Freya si ritrovò a indossare quel capolavoro di sartoria, che tra l'altro le calzava come un guanto. Si osservò nel grande specchio che trovò alla propria sinistra e quasi non si riconobbe in quella giovane donna che la fissava, sorpresa. Madama Cloelia e Malia sorridevano, estasiate. La sarta le si avvicinò solo per allacciarle una cintura di cuoio borchiata di giada e turchesi in vita, poi tornò a fare un passo indietro e a osservarla con attenzione.
«Ecco, questo tessuto e questo colore sono perfetti per la tua figura e il tuo incarnato. Al ballo sarai splendida» commentò infine. «A meno che tu non voglia un abito nuovo di zecca, naturalmente.»
Freya si affrettò a scuotere il capo. «Oh no, vi prego. È perfetto. Mi darà sicurezza avere addosso un abito appartenuto a lei» ribatté con un sorriso.
Un sospiro lasciò le labbra di Cloelia. «Appartenuto, ma mai indossato» mormorò.
Allo sguardo interrogativo della giovane, la donna rispose in tono malinconico: «Il rinnovo dei voti non ebbe mai luogo. Questa sarà la prima volta che la mia creazione vedrà la luce.»
Non servì che qualcuno specificasse cosa fosse successo: la tragica notte che aveva distrutto la sua famiglia era arrivata prima che i suoi genitori potessero giurarsi nuovamente amore eterno. Lottando contro l'improvvisa tristezza, Freya sorrise di nuovo e disse: «Un'altra buona ragione perché io porti quest'abito.»
Madama Cloelia la guardò intensamente, come se in lei ci fosse qualcosa che non riusciva a capire.
Infine, però, annuì con decisione. «E sia, dunque» concluse.
Mentre le facevano sfilare il prezioso vestito, a Freya sorse spontanea una domanda. «Madama Cloelia... voi... voi avete cucito anche l'abito da sposa di mia madre?»
La donna rivolse su di lei i suoi occhi penetranti, poi annuì. «Quella è forse la mia più bella creazione. A dire il vero, Eleana è stata per me una grande ispirazione. Per lei ho ideato certamente gli abiti più belli che io abbia mai cucito» le rispose.
Freya avrebbe tanto voluto chiedere di vederlo, ma proprio in quell'istante bussarono alla porta.  
«È stato un piacere vedervi, Madama Cloelia. Verrò a ritirare l'abito il giorno prima del ballo» si congedò Malia, mentre la ragazza le rivolgeva un cenno con la mano e un sincero ringraziamento.
Quando aprirono la porta, Freya si trovò faccia a faccia con Aran, il quale aveva un'espressione tutt'altro che felice. Era accompagnato dal maestro Athal, anch'egli con l'aria di chi avrebbe avuto di meglio da fare. I due giovani si salutarono con un cenno del capo e un sorriso distese per un solo istante il volto del Principe. Freya fece lo stesso anche con Athal e, nonostante la sua evidente irritazione, l'uomo le rispose cordialmente. Prima che il battente si richiudesse alle sue spalle, Aran la guardò un'ultima volta e alla ragazza parve di leggere nei suoi occhi una muta richiesta d'aiuto.
«Non mi sorprende che l'idea di cercare un abito non sia per lui delle più allettanti» spiegò Malia. «Le prove dei reali possono durare per ore.»


֍ ֍ ֍


Aran guardò oltre l'angolo, cercando di capire se avesse via libera.
Quando ebbe constatato che non c'era nessuno, tirò un sospiro di sollievo e si avviò verso la torre dell'Osservatorio, l'unico luogo dove nessuno l'avrebbe trovato. A meno che suo fratello non andasse a spifferarlo, o non lo facesse Freya. La cosa incredibile era che si fidava più di lei, la terza e ultima persona a conoscere il luogo dove si nascondeva più spesso, che del ragazzo con cui era cresciuto; Darragh non avrebbe certo esitato a farsi due risate mentre lo costringevano a prendere inutili lezioni di ballo e gli facevano un ripasso di etichetta per accertarsi che sapesse ancora come presenziare correttamente a un banchetto.
Sgattaiolò verso la torre e, varcatone l'ingresso, ne raggiunse in pochi attimi la sommità. La stanza dal soffitto a punta era colma di oggetti inerenti all'astronomia di cui sapeva solo, per la maggior parte, i nomi; un pesante tavolo di legno campeggiava al centro della sala, gremito di pergamene del suo maestro, e tante finestrelle rettangolari alte e larghe illuminavano a tratti il pavimento scuro. Fra le travi s'intravedeva la botola che sbucava sulla piccola balconata che circondava la torre, quella da cui, fin dai primi tempi della sua istruzione, gli erano state mostrate le costellazioni. Raggiunse la scaletta e la salì rapidamente, cercando di allontanarsi il più possibile dal castello e dalle sue imposizioni opprimenti.
Si sedette nel suo solito posto, da cui poteva godere di una perfetta visuale del paesaggio senza essere scorto. Non aveva molto a cui pensare, se non che tutte quelle ore inconcludenti trascorse a farsi ricordare come fare il Principe lo stavano tenendo lontano dalle ben più utili lezioni di Athal. E da Freya. Chiuse gli occhi; si era recato lì per tentare di rilassarsi un poco e quello doveva cercare di fare. Si era quasi convinto che ce l'avrebbe fatta, quando un tramestio proveniente dal basso lo mise in allerta, facendolo balzare sulle gambe. Tese le orecchie, sperando con tutte le sue forze che non fosse qualcuno venuto per trascinarlo nuovamente nel palazzo. In breve la botola si spalancò e ne spuntò Darragh. Aran non seppe se esserne felice o meno. Tornò a sedersi come se nulla fosse, mentre il fratello si issava sul tetto.
«Sei prevedibile a nasconderti qui, fratello» gli disse, appoggiandosi al parapetto.
«Lo so, ma per lo meno nessuno è mai venuto a cercarmi quassù. E nessuno lo farà, a meno che qualcuno non vada a spiattellare tutto» ribatté Aran, guardandolo piuttosto male.
Darragh ridacchiò. «No, non oggi. So quanto siano noiose le lezioni di corte, ma non sono in vena di metterti nei guai. Piuttosto, volevo parlarti e sapevo che ti avrei trovato qui» rispose il ragazzo, diventando stranamente serio.
Aran lo guardò, in attesa.
«Non ci vuole molto per capire che tu e Freya andate molto d'accordo. Che sia qualcosa in più di questo è un problema che, per adesso, non voglio pormi. Ma parliamoci chiaro: credi davvero che sia prudente fidarsi di lei?» esordì subito Darragh, diretto come al suo solito.
Aran rimase impassibile, per quanto gli potesse riuscire con una strana rabbia che iniziava a montargli dentro. La sola idea che stesse per parlar male di lei lo mandava su tutte le furie. «Sì, Darragh, sono certo di potermi fidare. Oramai la conosco molto bene e non sono un idiota. So di cosa parlo» rispose.
Non avrebbe lasciato correre quel discorso. Capitava spesso che il fratello si divertisse a stuzzicarlo, ma solitamente ci passava sopra.; quella volta non era sicuro che ci sarebbe riuscito.
Darragh lo squadrò, poi ribatté: «Aran, quella ragazza è diversa. Lei non è cresciuta come noi, non ha la minima idea di come ci si comporti a una corte reale e non l'avrà mai. Nemmeno se tentiamo d'insegnarglielo. Non la puoi chiamare nemmeno popolana, visto che la civiltà non l'ha mai vista. Il suo posto non è qui e prima o poi finirà col fare qualcosa che te lo farà capire nel peggiore dei modi.»
Aran guardò Darragh, cercando con tutte le proprie forze di non perdere il controllo e alzare le mani. Negli ultimi tempi gli capitava fin troppo spesso, con lui. In ogni caso, riuscì a mantenere la calma, seppur a fatica. Si alzò e fronteggiò il fratello.
«Cosa ti fa credere di avere il diritto di parlare di lei? Tu non sai nulla di Freya, non hai mai nemmeno tentato di capire chi fosse. Non sai niente della sua vita e non sai niente di ciò che l'ha fatta diventare quello che è oggi» rispose, serrando i pugni.
Darragh gli si avvicinò di un passo con aria quasi minacciosa, ma Aran rimase saldo al suo posto. Non erano più bambini, erano finiti gli anni in cui il fratello aveva il potere di intimidirlo.
«Ma ho un'idea molto chiara di ciò che è giusto e di ciò che non lo è, a differenza tua. Se l'avessi sapresti che Freya non va bene né per te, né per questa corte» continuò la propria arringa Darragh.
«No, Darragh, tu hai solo il terrore di quello che non conosci e va oltre la tua comprensione. Devi imparare ad aprire la mente al nuovo e al diverso, o vivrai tutta la tua esistenza nella paura e non potrai mai essere un buon sovrano per Riagàn» esplose Aran, senza più essere in grado di tenere la bocca chiusa.
Gli occhi del fratello lampeggiarono, ma Aran resse il suo sguardo senza battere ciglio. Era cresciuto col ragazzo che aveva di fronte, lo conosceva bene quanto conosceva sé stesso. Sapeva perfettamente che non amava affatto sentirsi dire la verità, o qualcosa che andasse contro quello che pensava e diceva lui.
«Quanto sei ingenuo, Aran. Non è con la bontà d'animo che si diventa un buon sovrano. Se non sei forte abbastanza da spazzare via dal tuo cammino ogni potenziale pericolo soccomberai di fronte a qualsiasi nemico e non sarai mai capace di mantenere il controllo di un regno. Questo è quello che tu devi imparare» ribatté Darragh, talmente infuriato che la sua voce tremò.
Aran scosse il capo, continuando a guardarlo dritto negli occhi. «Essere forti non vuol dire attaccare chiunque senza alcuna distinzione per non correre il rischio di essere colpiti. Non mi convincerai mai che questo sia il modo giusto per affrontare la vita. Risparmia il fiato» disse Aran, considerando, da parte sua, chiuso l'argomento.
Darragh lo fissò, quasi cercasse di riconoscere in lui il ragazzo con cui aveva vissuto gran parte della sua vita e non ci riuscisse. Poi, si allontanò verso la botola a passo pesante. Prima di scomparire oltre il rettangolo buio, disse: «Quando succederà qualcosa, e io so che succederà, non venirmi a dire che non ti avevo avvertito.»
Le tempie che gli pulsavano dolorosamente, Aran tornò a sedersi a terra e a osservare il cielo terso, cercando di non rimuginare sull'assurda discussione cui era appena stato costretto a prendere parte. Darragh era sempre stato pienamente convinto che le sue idee fossero le uniche valide, ma ultimamente sembrava intenzionato a imporle a tutti i costi anche a lui. Non avrebbe tentato di distoglierlo da quel proposito, decise Aran; semplicemente lo avrebbe ignorato. Se Darragh pensava che fosse tanto facilmente influenzabile, glie l'avrebbe lasciato credere.
Deciso a calmarsi, chiuse nuovamente gli occhi. Solo pochi istanti dopo dovette però riaprirli, perché passi molto lievi tornarono a farsi sentire al piano inferiore. Si mise all'ascolto, ancora una volta. Si alzò non appena sentì la presenza avviarsi lungo la scaletta a pioli e si avvicinò alla botola, in attesa. Oltre la sottile barriera delle assi di legno avvertì qualcosa di conosciuto: era un profumo delicato di giglio selvatico che, ormai, gli era diventato familiare. Rilassò i muscoli tesi, sapendo già chi aspettarsi; quando la botola si sollevò vide il capo di Freya comparire alla luce del sole. La ragazza era arrivata quasi in cima quando lo notò e si fermò, esitante.
«Oh, Aran. Scusa, non volevo disturbarti» disse la giovane, facendo un passo indietro sui pioli della scaletta.
Aran le sorrise; non aveva la minima idea di quanto fosse felice di vederla. «Non disturbi affatto» asserì infatti, tendendo una mano per aiutarla a salire, anche se sapeva che Freya non ne aveva alcun bisogno. «Sei sempre la benvenuta quassù.»
Rassicurata, Freya ricambiò il sorriso, afferrò la sua mano e si issò con agilità sulla balconata, richiudendosi la botola alle spalle. Per molto tempo nessuno dei due parlò. La ragazza si avvicinò al parapetto e osservò il paesaggio che si estendeva fino all'orizzonte; lentamente un'espressione rilassata le si dipinse in viso.
«Come mai sei salita fino all'Osservatorio?» le chiese Aran ad un certo punto, curioso.
Freya si voltò verso di lui e inaspettatamente un diffuso rossore comparve sulle sue guance. «Io... Ecco...» iniziò e nell'avvertire in lei quella strana incertezza un'idea andò formandosi nella mente di Aran.
«Nel caso stessi cercando un nascondiglio, non c'è nulla di cui vergognarsi. Sono qui per lo stesso identico motivo» la rassicurò, rinnovando il proprio sorriso e attendendo poi che fosse lei a proseguire.
Freya prese un respiro e si sedette a terra, la schiena contro la pietra della torre. Il suo sguardo vagò sulle terre assolate all'intorno. «Io non sono una persona che scappa, di solito» disse, torcendo fra le mani la catenella del medaglione che portava al collo. «Eppure, la verità è che non ci riesco. Non sono in grado di reggere tutte queste assurde lezioni in cui non fanno altro che dirmi come devo parlare, camminare e perfino mangiare.» La giovane posò il mento sulle ginocchia raccolte al petto. «Forse davvero questo non è il mio posto.»
Aran le si sedette accanto e prese a guardare nella sua stessa direzione. Non sopportava di sentirle dire quelle cose; era come ascoltare Darragh, come se le sue idee le avessero in qualche modo avvelenato la mente. Doveva levarle dalla testa quel pensiero assurdo, perciò rifletté con cura su quali potessero essere le parole giuste.
«Il fatto che non ti vada a genio perdere tempo dietro a inutili lezioni di ballo e galateo non significa affatto che qui non ci sia posto per te, Freya. A me sono state imposte fin da quando ero piccolo, ma non per questo le trovo più gradevoli» le spiegò, accantonando il suo turbamento personale per la discussione avuta con il fratello. «Non appena ne ho avuta l'occasione sono scappato a gambe levate, come puoi vedere.»
«Allora come hai fatto a vivere qui fino ad ora? Insomma, la tua vita non è stata un grande agglomerato di tutto questo?» gli domandò.
Aran scoppiò a ridere, cosa che fece sorridere anche Freya, rassicurandolo un pò. «Sì, in effetti ce ne sono state molte di giornate del genere. Venivo quassù e mi barricavo dietro questo parapetto, a guardare la foresta. Per un bel pò è stato l'unico modo per scappare almeno con il pensiero dalla corte, dalle regole, dall'oppressione» spiegò. «Non appena sono stato abbastanza grande, ho iniziato a prendere il mio cavallo e fuggire fisicamente. Capisco perfettamente come ti senti.»
Come ogni volta che confessava a Freya quello che normalmente teneva per sé, un piccolo nodo gli si sciolse nel petto. Forse lei sarebbe stata la persona a cui avrebbe rivelato il suo segreto più intimo, un giorno, quello a cui ogni tanto aveva persino paura di pensare. La convinzione che lei sarebbe stata l'unica cui avrebbe potuto dirlo si faceva sempre più forte.
La giovane continuava a guardare oltre una delle feritoie scavate nella pietra, ma lui sapeva perfettamente che lo stava ascoltando. Lo ascoltava sempre. Dopo qualche istante, infatti, si voltò verso di lui. Sorridendo, disse semplicemente: «Grazie, Aran. Davvero.»
Il giovane sorrise a propria volta. «Tu mi hai già ringraziato fin troppe volte. Sono io piuttosto che non te lo dico abbastanza spesso. Perciò, grazie Freya» ribatté, porgendole una mano per aiutarla ad alzarsi.
Freya lo osservava, forse sorpresa dalle sue parole, ma accettò il suo aiuto senza esitazione.
«Che ne diresti se restassimo ancora un pò qui a riprendere fiato e poi tornassimo insieme nella tana dei lupi?» le propose con fare scherzoso, poggiando gli avambracci al parapetto di pietra.
«Approvo pienamente la tua idea» rispose la ragazza, mettendosi al suo fianco. «In fondo, meglio che mi ci abitui adesso. Fra qualche giorno andrà ancora peggio.»
Aran si lasciò scappare una risata, poi il silenzio tornò ad avvolgerli. Rimasero così a lungo, senza dire una parola, lasciando che il calore del sole e l'incessante andirivieni del vento cancellassero qualunque altra cosa.
   
 
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