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Autore: wanderingheath    12/11/2019    0 recensioni
Norwall, Connecticut.
Melanie Prescott, nata e cresciuta tra le grandi vie di scorrimento in periferia, diventa l'obiettivo preferito di Cindy Butler e delle sue sottoposte. Abbandonata a se stessa nella scuola più prestigiosa della città, osserva con dolore legami ormai strappati e l'instabile equilibrio raggiunto dalla madre.
Dall'altro lato del vetro c'è Daphne Barnett, con gli storici amici Logan e James, che non riesce a trovare la propria voce e si aggrappa ad ideali di amori fittizi. E mentre lei si consuma per Ethan Sallinger, ragazzo travolto dalla corrente di eventi drammatici, Isaac Barnett finisce nella rete di criminali che opera nel "Black Market"; rete che coinvolge anche gli abitanti della società dabbene, baluardo di una finta integrità.
In questo labirinto sporco ed intricato si snodano le vite di comuni adolescenti, equilibristi in bilico tra prime esperienze amorose, relazioni interpersonali danneggiate, un passato ombroso e un futuro sbiadito. Soli in balìa di forze esterne, i ragazzi si ritroveranno annodati alle vicende di Norwall e alla migliore detective da poco tornata in città: Ellen Ward.
Otto drammi diversi ma non distanti, otto vite parallele che troveranno un punto di incontro per conoscersi e riconoscersi negli altri.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 8.

Take me back



 
 
«Tell me how to feel about you now
Oh, let me know
do I suffocate or let go?»
 
6:30 p.m. - Lowhood
 
 
 

La fermata della linea 114 era stata spostata sul vicino cavalcavia, dove i binari del tram segnavano la strada, simili a bisce color catrame.
C’era sempre un gran vento, lì sopra, e di sera la zona pedonale era poco trafficata; gli abitanti a Lowhood preferivano girare in macchina o sui mezzi, quasi fossero affezionati alle matasse di smog che soffocavano il cielo.
Daphne Barnett controllava il segnale dello smartphone con crescente apprensione.
Sullo schermo oscurato, l’icona della batteria prosciugata e l’avviso della modalità di risparmio energetico le annodavano la gola.
Lo lasciò scivolare nella tasca del giubbotto. Ormai non poteva farci molto.
Un brivido le serpeggiò lungo la schiena, mentre il vento le asciugava le ultime ciocche umide della giornata, infiltrandosi nei lembi di tessuto più nascosti.
Melanie procedeva accanto a lei, con la solita andatura oscillante, le spalle ricurve e lo sguardo incollato al marciapiede. Non aveva aperto bocca, né sembrava avere il coraggio di guardarla in volto.
Si chiedeva se stesse aspettando un’iniziativa da parte sua, se Mel si aspettasse che fosse lei la prima a parlare, o semplicemente si chiudesse nel suo scrigno di pensieri e silenzi solo per sfuggire alla realtà.
Dal canto proprio, Daphne non riusciva a smettere di rimuginare su pretesti per avviare la conversazione.
Ma poi, in fin dei conti, voleva davvero parlare con Melanie? E di cosa?
Di sottecchi riusciva a scorgerne il profilo devastato dal viaggio in autobus: la felpa scura extralarge che le abbracciava i fianchi, la chioma disordinata, lo zaino scolastico con una minuscola zip aperta che la stava mandando ai pazzi.
Continuavano a camminare nei colori smorti della sera, fasciate da una luce decadente; le automobili strombazzavano impietose accanto a loro, rendendo il compito di Daphne Barnett ancora più arduo.
Erano anni che non si trovavano così vicine, le braccia quasi a sfiorarsi, e sembravano aver perso la capacità di essere semplicemente… loro stesse. Nel loro autentico, genuino spazio di complicità.
Daphne intese solo allora, con un forte avvolgimento di viscere, che non esisteva più.
Non esisteva più un “loro” spazio, un “loro” silenzio, da tanto, troppo tempo.
L’amore offerto non finisce da nessuna parte”, le aveva detto Logan.
Avrebbe desiderato crederci, ora più che mai. Se avesse avuto quell’unica, striminzita certezza, allora non sarebbe sussistita alcuna esitazione; niente più bugie, niente più pianti strozzati in gola – smettila di frignare e prova a parlare con Melanie – niente più fortini da elevare per tenersi una scusante, una ridicola scusante, pur di non agire. Perché temeva così tanto il rischio?
Il profilo della pensilina cominciava a delinearsi all’orizzonte. Ancora pochi metri e poi sarebbe sfumato… tutto.
Daphne avvertì l’agitazione sconquassarle il petto.
Non voleva che finisse.
Le sembrava di vivere in una dimensione ultraterrena, oppure onirica, come a galleggiare in una viscosa teca per insetti; eppure, avrebbe dato qualsiasi cosa pur di allungare la giornata di qualche minuto.
Si guardò attorno, frettolosa, ansiosa, un filo ansimante, non badando agli abbaglianti delle auto, alle urla di qualche passante al telefono, né alle cime dei palazzi di fronte a loro.
Ma nella ricerca disperata – qualcosa, una qualsiasi cosa, Dio, cosa, cosa, cosa – il pavimento era di sabbie mobili e un calore improvviso le inghiottiva lo sterno.
Alla fine, il cielo accolse il suo sguardo. Ci leggeva carta da zucchero e intrichi di fumo, misto a cirri.
Sentì di poter respirare di nuovo.
«Ma questo è il Cotton Bridge», disse. Un piccolo sorriso a scioglierle le labbra. «Me lo ricordo.»
Melanie si voltò verso di lei. Indecifrabile.
L’avevano battezzato loro così, quasi una decade prima; tuttora il ponte conservava un soffitto di nuvole cotonate, simili allo zucchero filato che un carretto ambulante, dall’altro lato della strada, vendeva.
Quella sera non faceva eccezione.
Daphne riuscì ad incrociarne lo sguardo sfuggente, in attesa di una conferma. Lo sapevano entrambe che una conferma non sarebbe stata necessaria, eppure, a loro, in quel momento, serviva.
Melanie tentennò. Troppi cavi si stavano intrecciando nel suo animo, troppi segnali contrastanti a creare cortocircuito.
Il volto della ragazza accanto a sé adesso svaniva, si frammentava come per effetto di un glitch, di un’interferenza con il passato.
Le due figure sul ponte si rimpicciolirono, perdendo notevoli centimetri d’altezza. In realtà, l’illusione si rifletteva solo su di lei, perché la statura di Daphne Barnett negli anni non era poi cambiata così tanto; sarebbe sempre rimasta la stessa bambina minuta e paffutella.
Lampioni accesi irradiavano campane aranciate sul percorso, in contrasto con gli alberi, inframezzati ai grattacieli spogli, che sembravano risucchiare l’intera oscurità della sera.
Melanie poteva sentire la voce di Daphne, mentre lanciava un acuto e le faceva segno di affrettarsi a raggiungerla. Attaccata alla ringhiera del sovrapassaggio, si dimenava per riuscire a guardare le automobili che scorrevano di sotto, entusiasta come se fosse stata l’attrazione migliore al luna-park.
Forse, loro due erano state le uniche a vedere in Lowhood un caleidoscopico mondo di divertimenti, trasformando il cielo in zucchero filato, le macchine in cavalli imbizzarriti, lo smog nella cenere lasciata da una pioggia di comete. Si sentivano le prescelte, una specie di osservatrici privilegiate dell’universo.
«Melanie, guarda! Ci stanno attaccando!»
«Daphne, scendi immediatamente da lì.»
L’ordine di Emma Barnett era stato eseguito non senza dissenso e delusione. Sophie Prescott intanto faceva strada all’amica, sorridendo compiaciuta, mentre sua figlia allungava il passo e si riuniva a Daphne.
«Sono proprio due scimmiette», aveva sospirato Emma.
Melanie avvertì una fitta all’altezza delle costole.
Alla fine, annuì.
Sì, era proprio quello, il Cotton Bridge.
Nello sguardo di Daphne fiorì speranza.
«C’era un punto,» riprese con maggiore sicurezza, «in cui viveva il Mandriano Rosso e, dall’altra parte della carreggiata, la stalla del Mandriano Blu.» Ripercorse mentalmente la distanza che separava il semaforo, perennemente bloccato sul rosso, dall’insegna al neon blu del benzinaio: circa due corsie, se non errava.
Poi, senza ulteriori esitazioni e ripensamenti, si aggrappò alla ringhiera di metallo e, sporgendo il busto, in punta di piedi, provò a individuare l’obiettivo che cercava. Aguzzò la vista.
All’orizzonte, solo una tavolozza mista di azzurri. I mozziconi di sole erano ormai oltre i palazzi di Lowhood.
Melanie l’aveva imitata, rigorosamente in silenzio, incapace di spiegarsi cosa diamine stesse avvenendo.
Ed eccolo, un unico braccio disteso davanti a loro, l’indice puntato come una lancetta svizzera o una balestra ad alta precisione.
«Eccolo lì.»
L’altra ne seguì la traiettoria, sempre più confusa.
«L’autogrill de lo infierno.»
Era un puntino insignificante, nascosto tra alcuni tigli e spezzato dalla processione di automobili che lo sorpassavano, incuranti. Melanie riconobbe il cancello. In realtà, il vecchio autogrill non esisteva più. Non era stato ancora demolito o trasformato in qualcos’altro; se ne stava lì, dimenticato dal mondo, carcassa un tantino lugubre. 
«L’hanno chiuso, purtroppo», dichiarò asciutta. «Diversi anni fa.»
Daphne parve rimanervi davvero male.
«No…»
L’altra annuì di nuovo, incapace di aggiungere altro.
«E cosa vogliono mettere, al suo posto?»
«Credo che non ci siano progetti in corso. Se lo sono semplicemente scordato.»
«Beh, meglio così,» considerò Daphne, «almeno evitano di mandare al pronto-soccorso altri clienti.»
Melanie abbozzò un primo sorriso, costretta a convenire con lei. Daphne Barnett la scrutava di filato, mentre il suo, di sorriso, cresceva spontaneo. «Ti ricordi quella volta che ci avevi preso un cheeseburger? Cos’era? Chili e cipolle?»
«Oh Dio, sì», ridacchiò l’altra. «Non sono più riuscita a sentire sapori, per una settimana intera.»
«Anche il bottiglione di latte che ti hanno dato era stato inutile!»
«La cameriera era spaventatissima», concordò Melanie. «Mi aveva ustionato il palato.»
Si guardarono per un attimo. Il tempo di far smorzare le risate ed erano di nuovo diciassettenni, spaesate e sferzate dal presente, ignare di come avrebbero dovuto comportarsi.
Chi avevano davanti?
Daphne si domandava se la compagna dormisse con il capo ingolfato dalle coperte. Era ancora freddolosa e intimorita dal buio?
Cancellò in fretta il sospetto, provando a trattenere gli ultimi granelli di complicità che avevano ricreato.
«Grazie», disse soltanto. «Per quella sera, alla festa di Cindy. L’ho fatto solo ora, ma avrei voluto ringraziarti da diversi giorni.»
«Nessun problema.»
Melanie abbassò il mento, spegnendosi d’improvviso. «Tu avresti fatto lo stesso per me.»
Buio.
Fu come precipitare all’indietro, inaspettatamente, di quattro piani. O di quattro anni.
Crepe nere e brucianti si impossessarono del suo ventre.
Certo. Certo, che lei avrebbe fatto lo stesso. Se non altro, si trattava di un riflesso naturale, uno spontaneo istinto alla conservazione, o come volevano definirlo.
O forse no.
Ebbe la sensazione che Melanie conoscesse bene la risposta. Quel giudizio muto, non ebbe bisogno di esternarlo. Spesso, Mel sembrava dire molto più nel proprio silenzio che a voce.
E fu proprio Melanie a spezzarlo, quel silenzio, mostrandole la pensilina del 114.
«La fermata è lì.»
Era un invito implicito.
Daphne lo colse con sofferenza, senza però smuoversi di un centimetro dalla posizione attuale.
«In genere, passano ogni venti minuti. A quest’ora non dovresti trovarlo neanche pieno.»
La gente di Lowhood non andava in centro, se non per esigenze lavorative o personali. Ma quel pensiero lo tenne per sé.
Melanie si raddrizzò lo zaino in spalla, esitando appena.
Poteva proseguire da sola, da lì in poi.
«Tu…» Una schiarita di voce. «Tu stai andando a casa?»
«Sì. Mia zia inizia a preoccuparsi, se rientro tardi.»
Un campanello si accese nel cervello di Daphne Barnett. «Come sta, tua zia?»
«Se la cava», mormorò l’altra. «Sempre a recriminare su qualcosa.»
La ragazza assentì. Era impegnata a ricomporre mosaici scompaginati, come a voler fermare un flusso di dettagli, un’emorragia di ricordi, che le scivolavano tra le dita senza il tempo di trattenerli.
Un clacson fece sobbalzare entrambe.
Poi, la luce dei fanali scivolò sull’asfalto e il bus 114 fece la propria apparizione dalla fine del ponte.
Con un cenno del capo, Mel le disse: «Meglio se vai. Rischi di perderlo».
L’altra s’incamminò a passo indeciso, strusciando i piedi l’uno contro l’altro.
Si fermò. Voltatasi: «Una cerniera dello zaino è aperta».
Melanie lo fece scivolare lungo il busto, tastando la tasca anteriore. Le sorrise debolmente.
«Grazie.»



 
*     *     *
 
 
 
 
Isaac Barnett se l’era sbrigata in fretta, quella sera.
La signora Krimston lo aveva liquidato, una volta effettuato il pagamento, senza troppe cerimonie. Attendevano ospiti per cena, gli aveva confidato la figlia; non che ad Isaac facesse la minima differenza.
Al contrario, il pensiero di un po’ di tempo tutto per sé, della possibilità di girovagare per il quartiere quando il Black Market era ancora attivo, lo scombussolava ed eccitava al tempo stesso.
Non era ancora sceso il buio, quando si ritrovò nei pressi del famigerato Black Market.
Stavolta, non vi era capitato per caso. Costeggiate le vie laterali, buttato un occhio alle spalle per assicurarsi che nessun conoscente lo individuasse tra i passanti, aveva finalmente imboccato la principale.
Ed eccoli, i tendoni gonfi, gli odori di antiquariato e spezie in una miscela talmente contraddittoria da risultare reale e seducente. Tutto, in quel posto, gridava realtà.
Realtà era percorrere i vicoli saturi di urina e cibo marcio, infilarsi tra le schiene sudaticce dei residenti impegnati a mercanteggiare con i venditori; realtà era sentire perle del suo stesso sudore insidiarsi nel colletto, mentre un estraneo lo scrutava diffidente da sotto il cappotto scuro, pesantissimo, che indossava.
«Ehi, ragazzino», lo chiamava. Dispiegò un lembo dell’indumento, simile all’ala di un condor. «La vuoi della roba forte?»
Isaac aveva proseguito, affamato di ogni singolo oggetto che scintillava sulle bancarelle.
Più di un bancone esponeva armi da taglio, bellissime e letali, in un ventaglio di tipologie e prezzi. L’idea di acquistare una baionetta lo stuzzicava terribilmente; magari un’antica sciabola che aveva bevuto chissà quanto – e quale – sangue.
Ciò che lo tratteneva era la mancanza di una scusa adatta da rifilare ai genitori. Non sarebbe stato un oggetto gradito, in casa Barnett; introdurlo senza che la madre se ne accorgesse? Impossibile. Emma Barnett sembrava avere un fiuto straordinario per gli elementi pericolosi, con la sua protettiva ossessione.
Un paio di commercianti avevano provato ad agganciare la sua attenzione, ma la maggior parte lo teneva a distanza: era pur sempre un estraneo – e soprattutto un adolescente – stonante con il resto della clientela abituale. Forse temevano si trattasse di un infiltrato, di un’esca utilizzata dalla polizia per monitorarli.
Il fatto era che Isaac stesso cominciava ad avvertire una forma di inadeguatezza e, mano a mano che il tempo scorreva ed avanzavano le ore più scure del tramonto, quelle occhiate da gufi lo turbavano.
Ormai lo sfizio di vedere il famoso Black Market, se l’era tolto. Poteva anche rincasare ora.
Come scusandosi della propria esistenza, Isaac scivolò tra la massa di acquirenti, stavolta nella direzione opposta, percependo una resistenza maggiore nei corpi con cui entrava in contatto.
«Ehi, tesoro», una donna dall’angolo della strada lo appellò. «Ti sei perso, per caso?»
Isaac scantonò lateralmente, evitandone l’alito pestilenziale e le lunghe dita rachitiche.
Quando fu certo di essere di nuovo solo, riuscì a lasciar defluire un po’ di tensione.
Per quanto attraente, l’idea del Black Market non si era rivelata così entusiasmante; anzi, l’aveva lasciato un filo deluso, sebbene vi si fosse addentrato senza un preciso scopo.
Adesso, coperto dalle alte mura di un vicolo cieco, si sentiva stanco e sicuro insieme.
C’era un unico elemento a turbare la ritrovata quiete: un paio di figure appoggiate ad una parete, accanto alla retrobottega di un locale. Entrambe in controluce, entrambe con indosso degli abiti spenti.
Isaac si accorse, un istante più tardi, della posizione svantaggiata di uno dei due: schiacciato contro il muro, pareva in ostaggio del suo opponente. Poi, giunsero alcune parole smorzate.
«Che significa che non li hai? È passata una settimana.»
«Non… li… ancora.»
«E la tua ultima bravata? Eh? Vuoi dirmi che sono spariti anche quelli
Il ragazzo alle strette aveva un’aria familiare. Seppure più alto del proprio aguzzino, era in chiara difficoltà; la voce faticava ad uscire, mentre l’altro sconosciuto gli teneva le mani ben premute sul collo.
Lo stava supplicando.
«Qualche… giorno…»
«No, no, Oliver. Non me ne faccio niente delle tue promesse.»
Isaac si portò d’istinto una mano ai jeans. In una delle tasche posteriori, riconobbe il profilo del portafoglio.
Camminò come un automa verso la coppia di sconosciuti, guadagnandone l’attenzione solo quando si trovò ad un passo da loro.
«Che vuoi, moccioso? Non vedi che siamo occupati?»
Isaac lo ignorò, concentrandosi esclusivamente sul ragazzo in svantaggio.
I capelli lunghi, biondastri, gli zigomi definiti e l’aria trafelata: si erano già incontrati.
Mentre nella nebbia della sua memoria prendeva forma il volto del tipo in fuga, incrociato la settimana precedente, Isaac estrasse il portafoglio con cautela, tendendo delle banconote all’estraneo.
«Ce li ho io», disse soltanto. «Me li aveva prestati, stamattina. Quant’era?»
L’uomo guardò prima lui, poi la propria vittima, in confusione. «Lo conosci?»
L’altro annuì piano, cercando lo sguardo del più giovane.
Comunicato il prezzo dovuto ed esatto il denaro, lo sconosciuto mollò la presa su Oliver. Teneva d’occhio entrambi, alternativamente, come aspettandosi che uno dei due gli tirasse un rovescio. Per uscire dal vicolo, indietreggiò in una corsetta accelerata. «Ci becchiamo in giro, Oliver.»
Rimasero soli.
Oliver si piegò in due, tossendo vigorosamente. Alcuni schizzi di sangue bagnarono l’asfalto.
«Stai bene?»
Quando fu in grado di rialzarsi, squadrò il ragazzino che lo aveva salvato. Di nuovo.
«Perché l’hai fatto?»
Isaac si strinse nelle spalle. «Quello ti stava stritolando.»
«Non era affare tuo.»
«Potresti anche solo ringraziarmi.»
«È la seconda volta che mi pari il culo», osservò sospettoso. «Curioso, no?»
Isaac sospirò, esasperato. «Senti, non voglio niente in cambio. È successo e basta, non ti sto pedinando.»
L’altro continuava a studiarlo con crescente interesse. Prese a girargli intorno, mani in tasca, mento alzato.
«Mi sto solo chiedendo...» un sorrisetto gli increspò le labbra, «cosa ci fa un rampollo come te da queste parti? Non sembri di qui.»
«Affari miei.»
Oliver si lasciò sfuggire una risata strozzata; più uno sbuffo, a dire il vero. «Ti ha mandato qualcuno?»
«Scherzi?» Ora era decisamente indignato. Anziché mostrare riconoscenza, gli si rivoltava contro?
Dopo essere fuggito la prima volta, senza alcuna spiegazione, adesso gli faceva il terzo grado.
Si rimise sulla propria strada, liquidando la storia con un’alzata di mano. «Lascia stare.»
«Aspetta.»
Oliver stava riflettendo. Era chiaro che il ragazzino non abitasse allo Zenzer Bazaar, quindi rimanevano solo due ipotesi: un frequentatore assiduo del Black Market o un ingenuo malcapitato.
Non sapeva quale delle due lo affascinasse maggiormente.
«Vieni», si decise infine. «Ti voglio offrire qualcosa per sdebitarmi.»
«Davvero, non ce n’è bisogno. Devo tornare a casa.»
«Che c’è? Mamma e papà stanno in pensiero?»
Quel tono e l’espressione provocatoria, lo fecero vacillare. Certo, non doveva dare spiegazioni ad uno sconosciuto che gli era, per di più, debitore. Eppure…
C’era qualcos’altro.
Gli stava dando del bambino e quello non riusciva a mandarlo giù. Ricambiò l’aria di sfida.
«D’accordo. Tanto non avevo niente di meglio da fare.»
Oliver apparve soddisfatto. «Seguimi. Ti assicuro che non te ne pentirai.»
 
 
 
*     *     *
 
 
 
 
In macchina regnava un’atmosfera soffocante.
Quel lunedì mattina, per qualche strano motivo, Emma Barnett aveva insistito per accompagnarli a scuola.
Di solito, era talmente sbrigativa e presa dai propri pensieri, da dimenticare di salutarli, ma a differenza degli altri giorni ora si era imputata su quello sciocco passaggio in auto; come se scarrozzare i figli all’Arcadian potesse assolverla da ogni altra mancanza. Acquasantiera della sua esistenza era diventata la Porche blu.
Daphne lo trovava irritante.
Le era impossibile leggere dell’autentica affettuosità in qualunque comportamento materno, specialmente in momenti simili, quando la situazione era appesa ad un filo.
Per ogni domanda su quanto avessero dormito, quali lezioni li aspettassero in giornata, che cosa preferissero mangiare per cena – questione onnipresente e di vitale importanza, apparentemente, nell’universo di Emma – Daphne avrebbe voluto attaccarsi al sedile anteriore e urlarle addosso.
Perché non si occupavano delle problematiche vere e importanti? Perché passava tutto in secondo piano, a scapito della loro salute mentale?
Ad esempio, le sarebbe piaciuto sapere che fine avesse fatto suo padre, dato che il weekend li aveva scaricati nelle braccia dei nonni materni e ancora non era riapparso nelle loro vite, se non con un paio di telefonate di rassicurazione. Stava bene. Ma sì, non dovevano preoccuparsi per lui. Sarebbe tornato il prima possibile, aveva delle faccende da sbrigare fuori città.
«Magari deve ricomprare i piatti e i bicchieri che hanno distrutto», aveva ironizzato Isaac.
Non l’aveva alleggerita neppure la battuta.
L’unica cosa che desiderava era di scendere dall’auto, sbattersi dietro la portiera, e buttarsi a capofitto tra le pagine dei libri, anestetizzando il tutto con le lezioni soporifere.
«Aspettate un secondo.»
Emma Barnett aveva fermato il veicolo ad un incrocio, lasciandoli soli senza alcuna spiegazione.
Sembrava una specie di vizio famigliare quello di scomparire ingiustificatamente.
Il silenzio gravava sulle loro teste. Per quanto potesse sentire il braccio del fratello incollato addosso, Daphne lo percepiva distante anni luce. Era un pianeta isolato, a gravitare nella propria piccola orbita.
Dovette rompere la quiete, perché intollerabile.
«Dove è andata?»
Isaac si sollevò appena dal proprio posto, spiando il circondario. Sembrava essere entrata nel vicino McDonald.
«Qui al Mc, credo.»
L’altra sbuffò, assestando un calcio al sedile anteriore. «Guarda come facciamo tardi, per questa stronzata
Il fratello si strinse nelle spalle con un sospiro.
Probabilmente aveva avuto un rigurgito di pentimento, sua madre, e voleva farsi perdonare negli svariati modi che riteneva risolutivi. Sciocco, ma umano.
«Come è andata, poi, da Alyssa?»
Sperava, in tal modo, di tergiversare l’attenzione di Daphne altrove. D’altronde, non ne avevano affatto discusso ancora, del pigiama party organizzato da Alyssa Russmith.
Quando la sorella gliel’aveva comunicato, lui aveva preso la notizia come doppiamente stonante, perché avevano passato da un pezzo l’età per certe cose e perché pensava che l’influenza della Russmith non fosse affatto benefica.
«Bene, immagino.»
«Oh-oh.»
«Cosa?»
«Evasiva», decretò Isaac. «Non preannuncia mai niente di buono.»
Daphne si voltò dall’altra parte, abbracciando la cartella. «Beh, tu non mi hai detto dove sei finito, quando sei rincasato all’una di notte.»
«Ti prego, risparmiami la ramanzina. Ha già dato mamma.»
«Sei scomparso, Isaac.»
«Non devo rendervi conto di tutti i miei spostamenti», replicò l’altro. «Comunque, immagino che la risposta sia: “male”.»
La ragazza si scostò alcune ciocche dal volto, stringendosi nelle spalle. «Siamo state bene. Abbiamo chiacchierato, visto un film, fatto le ore piccole. Le solite scemenze.»
«Immagino che gran divertimento», sghignazzò lui. «C’erano anche le sue amichette speciali?»
Un singolo sopracciglio inarcato. «Che intendi?»
«Dai, hai capito. La combriccola al completo.»
«Non capisco perché le detesti così tanto. Sono ragazze tranquille.»
Isaac sollevò i palmi, ridacchiando. «Come vuoi. A me sembrano persone terribili e non so come faccia tu a sopportarle. Ti fai sempre mettere i piedi in testa, Daphne.»
La conversazione venne troncata dal rientro di Emma Barnett.
Si abbandonò al posto del guidatore con un sospiro di piena soddisfazione.
Aveva comprato delle buste di dolci e alcuni sandwich, che adesso sventolava sotto il naso dei figli come preziosissime reliquie. Forse, era davvero il tentativo di deporre l’ascia di guerra. O di rabbonirli.
Per il tutto tragitto verso l’Arcadian, Daphne si chiuse nella propria prigione mentale.
La notte passata da Alyssa era stata, nel complesso, tollerabile; non l’avrebbe definita emozionante, ma neppure impossibile. Nel suo pigiama oversize, si era sentita fuori posto, tra lunghe gambe e braccia affusolate, con unghie curate e capelli voluminosi; tutte impeccabili, perfino in procinto di andare a dormire.
Un turbamento più forte, però, l’aveva avvertito prima di scendere nel seminterrato che i signori Russmith avevano arredato come sala per gli ospiti. Fiore all’occhiello, accanto ai poster di Marylin Monroe e ai quadri astrattisti – opere originali – illuminati dalle candele profumate, era il gigantesco schermo al plasma incastrato nella parete principale. L’avevano coperto con dei tendaggi carmino, per spettacolarizzare il tutto.
Nel complesso, tuttavia, Daphne ne era rimasta stregata.
Il mare di coperte e cuscini colorati che tappezzava il pavimento di legno, la luce soffusa delle candele, l’idea di appartenere a qualcosa – anche se per poco, anche se per finta – le avevano riscaldato il cuore.
Si lasciava scivolare addosso l’illusione dell’amore, di sentirsi accolta tra le braccia di Alyssa come se davvero le bastasse solo lei nell’universo e non le importava niente – niente, niente, niente – di tutti quei pensieri intrusivi, di quelle bocche traboccanti liquido nero e rabbioso, che parlavano dentro di lei.
Eppure, eccola la nota stonante.
Avrebbe dovuto aspettarsela, prevederla.
«Ragazze,» aveva cominciato Alyssa, mentre se ne stavano sedute sul letto, in camera sua, «dobbiamo fare qualcosa per quella nuova arrivata».
Tutte avevano assentito al volo, complici e ben informate sulla discussione intavolata.
Solo lei, stretta nel cerchio di braccia e gambe – braccia e gambe perfette, perfette, perfette – e pigiamini lindi, graziosi, era stata il pesce fuor d’acqua.
«Chi?»
«Ma, Daffie, la nuova. Devi averla vista per forza.»
Ronnie Marbles le aveva dato man forte. «Sì, quella con i capelli corti», aveva detto strascicando le vocali. «Porta sempre roba cortissima, anche se fa un freddo boia. Occhi azzurri, lentiggini – mi sembra – una specie di elfo. Ha pure un nome strano», aveva concluso addentando del pop-corn.
«Frances» era stato suggerito da un’altra ragazza.
Daphne aveva finto di comprendere, quando in realtà non l’aveva mai vista prima. «Beh, che ha fatto?»
«Questo è il punto, Daffie. Non sa cosa sta facendo, poverina.»
Alyssa aveva ripreso la parola, con un sorriso blando. «Si sta appiccicando a Prescott.»
Un colpo. Affondata.
Qualche strano vortice interno le aveva risucchiato tutta l’aria dai polmoni, lasciandola senza respiro.
«Sì,» la conferma di un’altra voce, «sono già un paio di volte che le vediamo insieme. L’altro giorno, le abbiamo parlato, durante la pausa pranzo.»
E così, Daphne aveva appreso di come tale Frances passasse il proprio tempo a fumare in cortile, dove l’avevano trovata, placidamente seduta su un muretto. Del loro ammonimento, rispetto alla proibizione sulle sigarette, se ne era infischiata e altrettanto sorpresa, se non infastidita, era apparsa davanti alle raccomandazioni su Melanie Prescott.
Le avevano detto di tenersene alla larga, che era un tipo pericoloso e violento, che portava soltanto guai, e un mucchio di malignità gratuite. Come risposta, quella si era permessa di scrollare le spalle.
«Ci ha risposto: “E allora?”»
Ronnie aveva scosso il capo, sbigottita e delusa insieme. «Capisci?»
La rassicurazione di Alyssa era stata: «Quando realizzerà con chi ha a che fare, cambierà idea».
«Cosa volete fare?»
Tutte l’avevano squadrata con un certo sdegno. Il piano, gliel’avevano esposto in modo sintetico.
Prima di spostarsi per vedere il film, Daphne aveva indugiato un istante.
«Daffie, andiamo?»
«Sì… sì, do la buonanotte ai miei.»
Era rimasta impalata davanti alla finestra che dava sul balconcino privato. Sola, nella stanza, quella casa le era sembrata improvvisamente troppo grande.
Aveva tenuto il cellulare in mano, con una tachicardia improvvisa, scorrendo i nomi in rubrica convulsivamente. Quante volte si era fermata su quello di Melanie Prescott?
Conservava ancora il suo numero.
La voce materna la riportò al presente.
«Siamo arrivati. Buona giornata, piccolotti.»
Stava strizzando una guancia ad Isaac, mollando nelle sue mani il pranzo rimediato al fastfood.
L’ultima frase venne smorzata dal vetro, mentre Daphne si richiudeva lo sportello dietro: «Ci vediamo stasera!»
Aspettò di arrivare al portone principale, di uscire dal campo visivo della madre, per poi svuotare le buste in un cestino dei rifiuti.
Sarebbe dovuta passare in biblioteca, nel pomeriggio. Almeno quello l’avrebbe tenuta lontana dal “nido Barnett” un po’ più a lungo.
Quella notte, da Alyssa, le si erano strizzate le viscere al solo pensiero di premere il tasto per la chiamata.
Un messaggio? Sarebbe stato sufficiente un breve, conciso, messaggio.
Nella scatola mentale in cui si era auto-intrappolata, Daphne aveva sentito rimbombare una sola parola: debole.
 
 
 
 
*    *    *
 
 
 
 
 «Mia!»
Il tonfo venne amplificato dalle mura della palestra.
Un secondo dopo, il corpo di Alexandra era disteso sul pavimento.
Era atterrata con un movimento da acrobata, con l’eleganza che solo una ballerina avrebbe potuto esibire.
Il pallone schizzò in aria, rilanciando un’azione che era apparsa conclusa.
Un palleggio, poi la schiacciata di Melanie a rompere il muro delle avversarie. Dritto nel campo, nessun salvataggio, punto decisivo: partita terminata.
La coach Britts chiamò la fine dell’allenamento.
«Ricordate che le vostre avversarie non saranno altrettanto distratte, durante il gioco.»
La frecciatina diretta a Ronnie Marbles, che era rimasta in squadra, nonostante i propositi espressi poco tempo prima, colse nel segno.
«Dovete rimanere sempre attente. Vigili. Presenti.»
L’allenatrice scandì le parole con determinazione, accompagnando ciascun aggettivo con un pugno contro il palmo libero. «Si gioca per vincere.»
Doveva essere il suo motto, perché l’aveva ripetuto dall’inizio delle lezioni, senza tregua, ad ogni occasione favorevole. «E gli sbadati non vincono mai,» concluse, «sono troppo persi nelle loro elucubrazioni, per concentrarsi sulla vittoria.»
Ricevuto un segno di generale assenso, mandò la squadra negli spogliatoi. L’unica trattenuta in palestra fu Alexandra, con cui aveva da sbrigare alcuni atti d’ufficio.
Melanie lasciò che le altre si cambiassero per prime, attendendo come sempre il proprio turno seduta sulla panca, fuori dalle docce.
Le sentiva ridacchiare su qualcosa. Non se ne diede particolare cura.
La sua mente, al momento, era occupata da un pensiero fisso: la C- in storia.
Aveva dovuto parlare in privato con l’insegnante, accampare scuse, assicurare di poter recuperare in fretta per risollevare la media. Ma in verità, lo sapeva benissimo che da sola non sarebbe riuscita a combinare un bel niente.
Una volta terminato il turno e svuotate le docce, si alzò dalla panca. Come al solito, preferiva spogliarsi lontano da sguardi indiscreti. I panni, li accantonò accanto al borsone e ricevette il getto bollente come acqua santa. Le ristorò le membra, pulendole di dosso sudore e tensione accumulata.
Quando uscì dalla cabina, cercò l’asciugamano, di solito adagiato sul vetro.
La mano scivolò nel vuoto.
Lo trovò fuori, insudiciato sulle mattonelle, accanto alla pila di vestiti sporchi.
Sopra, nel suo centro esatto, c’erano delle chiazze di vernice scura. Grandi lettere vi campeggiavano: pazza.
Anche sul retro, colavano schizzi nerastri.
Gettò il panno in un angolo, andando a recuperare gli abiti ammassati.
«Ma che diamine…» sussurrò.
Guardandoli sotto il fascio delle luci elettriche, poteva distinguere dei netti tagli trasversali, che correvano come cicatrici per tutta la lunghezza di maniche e pantaloni; la tela della maglietta, così come i lacci delle scarpe, erano stati mozzati. La fascia, la sua fascia, distrutta.
Si mise indosso quel che restava dei propri indumenti ed uscì fuori, in cortile.
Un gruppo, quello delle sue compagne di squadra miste ad altre studentesse, se ne stava impalato davanti alla cancellata principale, per metà avvolto dalle ombre.
Ignorò il freddo, la scarsa illuminazione, le ciance strombazzanti tutt’intorno. Melanie si diresse, decisa e impietosa, all’inferriata.
Qualcuno assestò una spallata a Cindy Butler, che sorrideva accanto ad Alyssa Russmith. La prima si voltò subito, accogliendo la nuova arrivata come se l’avesse appositamente attesa.
«Ti è piaciuta la ripulitura, Prescott?»
«Quale. Cazzo. Di. Problema. Hai?» ringhiò Melanie.
La ragazza rimase impassibile. Fu proprio Alyssa a sottolineare, candidamente: «È tempo di fare il cambio stagionale».
Cindy annuì. «Occhio per occhio. Giusto?»
«Ancora con la storia della tua festa. Io non c’entro nulla, smettila di diffondere voci.»
«Quali voci? Lo sanno tutti che sei una pazza, dopotutto. Tale e quale a tua madre.»
L’altra sollevò una mano stretta a pugno in aria, strappando al resto del gruppo un urletto di scandalo. Cindy, però, si manteneva salda nei propri propostiti. «Fallo, coraggio. So che muori dalla voglia di colpirmi.»
Detto ciò, le assestò una lieve spinta, il tanto che bastava a far indietreggiare Melanie, nonostante fosse ben più robusta della propria avversaria.
«Colpiscimi, Prescott. Hai già provato ad ammazzarmi, eppure sono ancora qui. Non ho paura.»
Alyssa la spalleggiò, affiancata da un altro paio di ragazze, compresa Ronnie Marbles. La stavano stringendo in cerchio.
«Avrebbero dovuto rinchiuderti in un istituto, insieme a tua mamma. La cara Sophie Prescott e la figlia», proseguiva Cindy. Il colpo di grazia giunse dalla Russmith: «Le avresti tenuto un’ottima compagnia».
Mentre accanto al cancello il capannello si trasformava in aggressione, da un’uscita secondaria emergeva Daphne Barnett.
Stava rientrando dalla gita in biblioteca, forte dei nuovi volumi che aveva preso in prestito. Li aveva deposti accuratamente in una busta bianca, che teneva in mano con soddisfazione.
Precipitarono tutti a terra, accanto alle scarpe vernaccia, quando vide da lontano la scena.
Cindy Butler affibbiò un’ultima spinta all’altra giovane, sbilanciandola all’indietro. Stava urlando come un’ossessa: «COLPISCIMI, PRESCOTT».
«O forse sei tu ad avere paura di me
Il pugno fendette l’aria. Giunse a destinazione con un sonoro scricchiolio.
La mandibola della ragazza schizzò di lato, mentre il resto del gruppo si avventava su Melanie.
Cindy rimase per un attimo paralizzata, a massaggiare il punto offeso, mentre un rivolo di saliva rossiccia si snodava dal labbro inferiore. Se lo ripulì con soddisfazione estrema. «Te la sei cercata.»
La loro vittima giaceva a terra. Si difendeva, per quanto possibile, a morsi; ma la scena svoltasi nei corridoi, quasi un mese prima, si riponeva adesso con maggiore crudeltà.
Alyssa e un’altra coetanea le bloccavano gli arti, ancorandola al suolo, mentre le altre la ingiuriavano con sputi, calci, offese. La chiamavano assassina, mentre Cindy le scaricava addosso una raffica di percosse.
Daphne parve riscuotersi d’improvviso, inciampando nella pozza di libri ai propri piedi.
Nei corridoi scolastici rientrò come in preda ad un sogno, aggirandosi simile ad un fantasma tra un armadietto e l’altro. Il cuore martellava incessantemente, offuscando ogni decisione razionale al suono della familiare parola: debole.
Non voleva più esserlo.
Non voleva più essere una vittima delle proprie inazioni.
Dallo studio privato della coach emersero le figure di due sconosciute, di pari altezza e fasciate da una tuta sportiva. Conversavano fra di loro, mentre la più anziana indicava con la penna una serie di cifre su di una cartellina plastificata che portava con sé.
L’allieva, dal canto proprio, annuiva con aria assorta.
Daphne prese un profondo respiro.
E poi urlò.
 
   
 
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