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Autore: Celtica    12/11/2019    3 recensioni
La conquista della Rocca.
"«Mante, dove stavi andando? Non dovresti tornare nelle sue stanze?» chiese il cavaliere.
Lei sgranò gli occhi dal terrore. Salire in cima alla fortezza era un suicidio. Presto sarebbero morti tutti. Tutti.
Guardò alle sue spalle, l’uscita che avrebbe già dovuto varcare. La salvezza.
«Fatemi prendere un po’ d’aria, vi prego.»
«Quando avrai finito i tuoi doveri. Se non sarà già calato il buio.»
Avrebbe dovuto dirgli di estrarre la spada, di dare l’allarme. Avrebbe dovuto fare tante cose, ma gli occhi del monaco si inchiodarono ai suoi e lei non riuscì più a dire nulla.

Questa storia partecipa alla WordWar indetta dal gruppo facebook Il Giardino di Efp (contro Subutai Khan e Elgul1).
Genere: Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Medioevo
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Deo Juvante

 

 

Deo Juvante

 

 

 

 

1297.

 

 

«Ci sono dei monaci alle porte, mio Signore.»

Diamante tenne gli occhi a terra e rimase vicina al camino. Strinse le mani sulla tunica, cercando di scaldarle. Inutile. Era un gennaio troppo freddo.

«Monaci?»
«Francescani, mio Signore.»

Lei sollevò appena lo sguardo, giusto il tempo di cogliere l’espressione annoiata del suo Signore, inviato da Genova.
Vide il tramonto dall’apertura, il rosso che scivolava lento sul giaciglio.

«Chiedono un riparo per la notte» aggiunse l’uomo.

Stavolta Diamante lo guardò davvero: il suo Signore alto e grasso, investito di un feudo che in realtà apparteneva alla Repubblica. Non riusciva a immaginarlo stringere un ramoscello d’ulivo. Figuriamoci una donna.

«E sia.» Agitò una mano nell’aria, poi si avvicinò a lei. «Aprite le porte. Lasciateli entrare.»
Poi le sollevò il viso con le mani. Diamante cercò di nascondere il ribrezzo.

«Vai anche tu, Mante. Sarai i miei occhi nel castello. Poi torna a riferire.» Le accarezzò languidamente la guancia, tanto che Diamante dovette stringere i denti per non urlare.
«Non metterci troppo.»
Lei uscì in fretta, coprendosi la bocca con le mani.

«Mante» la chiamò qualcuno nel corridoio buio. «Stai bene?»
«Sì» rispose, non riuscendo a riconoscere la voce.
Poi vide un’altra serva del castello venirle incontro. Era Ricca.

«Dovresti tornare a casa. Se rimani, prima o poi…»

«Lo so.»
Era dal suo arrivo che sentiva quelle parole. Da quando aveva sanguinato la prima volta e suo padre l’aveva mandata a servire alla Rocca.

«E allora tornaci, bambina.»

«Non è sicuro come qui, Ricca.» Abbassò la voce. «Questa fortezza ha mura alte, invalicabili. Mentre a casa…»
Ricca le prese le mani. «Temi che possa accadere qualcosa?»
Lei si guardò in giro prima di rispondere. «Sì.»

«Anche i tuoi genitori hanno coltivato la terra della Turbia?»
Diamante annuì. Non avrebbe dovuto parlarne, non lì. Ma era così tanto che mancava da casa…

«Non vogliono pagare?»

Tributi e imposte. Genova e la Turbia. Ma come diceva suo padre: loro erano sudditi di Genova. Non era giusto pagare i Signori della Turbia.
Abbassò gli occhi, e dovette essere una risposta sufficiente per Ricca, perché le lasciò le mani.

«Ora va’, bambina. Cosa ti ha chiesto di fare?»

Scrollò le spalle. «Sono arrivati dei francescani. Devo solo osservare e riferire.»
Ricca le parlò all’orecchio. «Cerca di metterci del tempo. Io corro a riempirgli il boccale.»

«Dormirà?»
«Sai quanto ami il vino… Resta lontana per un po’, e quando tornerai non ti darà nessun fastidio.»

Diamante si allungò a darle un bacio sulla guancia. «Grazie.»
Poi si allontanò. Raggiunse le scale e si godette la vista del sole che moriva sul mare. Monaco aveva una tinta purpurea, quasi violenta, tanto che dovette distogliere lo sguardo.

Arrivò all’entrata nello stesso istante in cui le porte venivano aperte.
Guardò i monaci entrare scortati da due guardie, poi notò un rosario a terra.
Lo raccolse e sfiorò la spalla di chi l’aveva perso, facendolo voltare.

«È caduto.»
Le sembrava così strano che un monaco potesse perderlo! Come un sacrilegio. Ma forse per loro era diverso. Forse loro non avevano bisogno di chiedere perdono.

Il francescano sembrò sorridere sotto la folta barba.
Diamante sentì il rossore salirle fino alle orecchie quando incontrò i suoi occhi.
L’ombra del saio non riusciva a spegnere quel fuoco che vi leggeva dentro. Mai, senza quell’abito, avrebbe detto che era un monaco.

«Grazie.»

Lei chinò la testa.
Lui fece per andarsene, poi si voltò ancora. «Il tuo nome?»

«Mante.»

Li guardò allontanarsi, poi decise di seguire il consiglio di Ricca. Tenersi lontana dal suo Signore non sarebbe stato un problema, se fosse riuscita a evitare le guardie.
Vagò per i corridoi, nascondendosi nell’ombra ogni volta che passava qualche membro della guarnigione.
Stava camminando verso le cucine quando sentì un rumore. Come di un uovo che cadeva a terra, ma molto più forte.
Tanto da farle battere il cuore.

Riconobbe delle voci, l’accento genovese del suo Signore.
Scivolò lungo il muro, restando nel buio. Trattenne il respiro quando si affacciò a un altro corridoio.
Vide i monaci in piedi, intenti a parlottare tra loro.

«I Del Carretto ci sosterranno?»

«Aurelia pensa di sì.»

Vide qualcosa scintillare alla luce delle torce, ma non riuscì a capire cosa fosse.
Poi vide le guardie. A terra, in una pozza di sangue.

Si coprì la bocca con le mani per trattenere un grido.
Aderì al muro con la schiena, temendo che potessero udire il suo cuore battere all’impazzata.

L’avrebbero uccisa. Avrebbero ucciso tutti, nel castello. Lo sapeva.
Doveva avvertirli, correre ad avvisare la guarnigione, dire a Ricca di scappare. Anche lei sarebbe dovuta fuggire.
Ma le gambe non rispondevano ai suoi comandi. Era paralizzata lì, con la paura che la teneva inchiodata alla parete.

Ora non aveva più freddo. Sentiva l’odore acre del sudore attraverso i vestiti.
Il suono dell’acciaio che accarezzava la pietra riuscì a ridestarla. Diede un’altra occhiata, incapace di evitarlo.

«Ti chiameranno Malizia per questo, lo sai?»

Il monaco che aveva perso il rosario abbassò il cappuccio ridendo.
Diamante vide le spade scivolare di nuovo sotto al saio, e notò gli stivali da cavalieri.

Quelli non erano francescani. Che fossero inviati dai Signori della Turbia? Che stesse scoppiando una guerra?
E se davvero erano loro uomini, le case dei contadini erano già state attaccate? E quelle dei pescatori di Monaco?
Aveva il terrore che fosse accaduto qualcosa ai suoi genitori. E il pensiero di morire lì, così lontano da casa, la stava uccidendo.

«Pensiamo ai bastioni, adesso?»

«No, Ranieri» rispose Malizia. «Prima la guarnigione. E che qualcuno vada alla postierla.»
«Vuoi farli entrare adesso?»
«Con il buio. A che servono uomini armati nascosti nei boschi?»

«Ci hanno raggiunti da Genova…»
«Appunto. Avranno bisogno di un motivo per aver camminato tanto a lungo.»
«Una nuova casa non è sufficiente?» ribatté Ranieri.

Diamante sentì la testa scoppiare. Non capiva. Non capiva proprio niente. Cercò di muoversi lungo il muro, senza perdere il contatto con la pietra fredda della fortezza.
Avrebbe voluto correre, ma non era sicura di riuscirci. E loro avrebbero potuto sentirla… avrebbero potuto ucciderla.
Si mosse piano, nell’oscurità, cercando di non vomitare.

Adesso sì che avrebbe desiderato incontrare una guardia. Una qualunque, che potesse correre ad avvertire il castello.
Ma se quello che avevano detto era vero, aveva ancora tempo.
Se davvero era loro intenzione aspettare la notte, c’era ancora speranza.

Vide l’entrata da lontano, la luce rossa che si stava pian piano spegnendo.
Per un istante che le parve lunghissimo, ebbe la tentazione di fuggire. Cosa importava del castello e dei suoi abitanti? Cosa importava delle guardie se in cambio avrebbe avuto salva la vita…

Fece alcuni passi lungo il corridoio.
Prese dei lunghi respiri.
Si sentiva come un topo braccato dai gatti.

Poi, l’immagine di casa le riempì la visuale. Immaginò il pagliericcio, l’odore del fieno e degli animali. Si accarezzò un braccio, pensando alla coperta ruvida che sua madre aveva cucito per lei.
Bastò quello. Il suo sorriso. La sua mano calda che le accarezzava i capelli.

Il corridoio era lungo, ma la salvezza era proprio lì in fondo.
Camminò più in fretta, seguendo il ritmo forsennato del suo cuore. Raddrizzò le spalle concentrandosi sull’immagine dell’erba bagnata dalla rugiada e sull’odore della terra.
Non sentì pizzicare le narici, e forse fu questo a farla rallentare. Forse il fatto di vedere nero, marrone e rosso invece dell’azzurro del cielo, del verde dei campi.

Sollevò la veste e cominciò a correre.

Se l’immagine fosse svanita dalla sua mente, si sarebbe fermata, lo sapeva.
Allora addio a casa, ai campi e ai suoi genitori. Addio alla schiuma del mare e ai suoi animali.

«Mante!»
Sentì piccole scariche attraversarle le gambe. Non rallentò.

«Mante, fermati!»

Fu una guardia a intercettarla, afferrandola per le braccia e facendola voltare.
Vide un cavaliere della guarnigione camminarle incontro. Lo conosceva: affiancava spesso il suo Signore. E a volte era lui a dirle cosa fare.
Cercò di urlare, di chiedergli di lasciarla fuggire via, di prepararsi a combattere.
Nessun suono lasciò le sue labbra.
In fondo al corridoio, armati solo di un rosario, c’erano i monaci.

«Mante, dove stavi andando? Non dovresti tornare nelle sue stanze?» chiese il cavaliere.

Lei sgranò gli occhi dal terrore. Salire in cima alla fortezza era un suicidio. Presto sarebbero morti tutti. Tutti.
Guardò alle sue spalle, l’uscita che avrebbe già dovuto varcare. La salvezza.

«Fatemi prendere un po’ d’aria, vi prego.»
«Quando avrai finito i tuoi doveri. Se non sarà già calato il buio.»

Avrebbe dovuto dirgli di estrarre la spada, di dare l’allarme. Avrebbe dovuto fare tante cose, ma gli occhi del monaco si inchiodarono ai suoi e lei non riuscì più a dire nulla.
Lo sapeva. Sapeva che stava per tradirlo, per tradirli tutti. L’avrebbe uccisa per prima se avesse parlato.

«Posso accompagnarla io fuori» disse Malizia.
Lei si accasciò al suolo, pregando il cavaliere con uno sguardo.

Dite di no, vi scongiuro. Rifiutate. Mi ucciderà. Mi ucciderà non appena saremo fuori. Io lo so.

Il cavaliere sospirò. «Fate presto.» Poi si voltò e sparì nell’oscurità del corridoio.
Diamante vide la sua ultima speranza svanire con lui.

Il monaco la aiutò a rimettersi in piedi e le fece segno di seguirlo.
Lei obbedì. Che altra scelta aveva?
Era così che si sentivano i condannati a morte?

Malizia aveva una spada, Diamante solo la sua voce.

«Dimmi, Mante» le chiese lui, quando furono all’aperto. L’aria gelida la avvolse come uno scudo. «Conosci bene la fortezza?»
Lei annuì, tenendo gli occhi fissi sul mare sempre più scuro.

«Hai un posto dove pregare da sola?»
Di nuovo, i loro occhi si incontrarono. «No.»
«No?»

«No, Ser.»

Non riuscì a fermarsi, e quella parola scivolò fuori dalla sua bocca, dandole la nausea.
Capì dal suo sguardo di essersi sbagliata: lui non aveva voluto ucciderla prima di quel momento, né sapeva di cos’era a conoscenza.
Sentì lo stomaco stringersi in una morsa.

«Cammina con me.»
Malizia la afferrò per un braccio, lanciando uno sguardo di sbieco alle torri.

«Mi ucciderete?»
Lui non rispose subito. «Non hai parlato.»
«Non parlerò, ve lo giuro. Lasciatemi fuggire.»

«Da cosa l’hai capito?»
Stavano camminando verso la postierla, e Diamante aveva il terrore di incontrare i soldati.
«Che cosa?»
«Mi hai chiamato Ser. Perché?»

«Vi ho… visti.» Si accorse di tremare. «Lasciatemi andare, vi prego.»
Iniziava a essere buio. E con la notte sarebbe arrivata la sua fine. Doveva convincerlo a lasciarla andare prima che le ultime luci si spegnessero.
«Non posso.» Aumentò la presa sul suo braccio. «Non posso rischiare.»

«Non uccidetemi, vi scongiuro.»
Faticò a leggere l’incertezza sul suo volto. Era quasi notte…

«Conosco il castello» tentò ancora. «So dove dorme l’inviato da Genova.»
«Non mi serve… una volta che avrò conquistato la Rocca, lui sarà morto comunque.»

Come me.

«Siete anche voi genovese. Perché lo fate?»
«I ghibellini ci hanno cacciato dalla città. Questa diventerà la nostra nuova casa.»

«Bene. Prendetela, dunque. Ma non uccidete noi che siamo qui per servirvi.»
Lo vide sorridere. «Trova dove nasconderti. Ma bada: se avvertirai le guardie, non ci sarà futuro per te.»

Diamante si ritrovò libera dalla sua presa. Si voltò indietro e tornò al castello.
Raggiunse l’apertura che dava sulla postierla e si affacciò a guardare. Era notte ormai. Non riusciva a vedere niente. Eppure, sapeva che erano lì, appostati e pronti a uccidere.
Doveva trovare Ricca e gli altri. Avvertirli.

Ma se lo faccio… lui mi ucciderà.

Cosa le aveva detto? Di nascondersi.
Ma dove poteva andare? Dov’è che non l’avrebbero cercata? Non ne aveva idea.

Riprese a vagare per i corridoi, evitando le guardie. Cercando di farsi venire in mente qualcosa.
Passò del tempo. Vide le stelle farsi sempre più luminose, la luna nascondersi.
Anche lei doveva trovare un nascondiglio.

Poi lo sentì.
E fu come ricevere una cascata d’acqua gelida in testa, durante il pieno inverno.

Sentì le budella torcersi dentro di sé.
Grida. L’acciaio che strideva contro altro acciaio. E l’odore della morte, il suo colore che stava tingendo l’intero castello.

Poi lo sentì davvero, l’odore della morte, quella vera.

Trovò delle guardie sgozzate, la puzza dei loro escrementi mischiata a quella del sangue.
Stavolta non riuscì a trattenersi e vomitò lì vicino.

Non smise mai di muoversi, cercando sempre di allontanarsi dal suono della battaglia. Vide il cavaliere che serviva il suo Signore soffocare nel suo stesso sangue, ma non ebbe il coraggio di avvicinarsi.

Le girava la testa.

Pregò di non svenire, di non farsi uccidere. Pregò di trovare Ricca e nascondersi con lei.
E Ricca la trovò davvero… La morte l’aveva sorpresa con le sue stesse budella tra le mani.
Anche lei doveva essere stata colta di sorpresa, come l’intero castello.

È colpa mia.

Se solo avesse parlato… se solo li avesse avvertiti! Ora sarebbero stati ancora vivi.
Le guardie non si sarebbero fatte cogliere impreparate e la servitù si sarebbe nascosta, spostata, o avrebbe vissuto nel buio, come stava facendo lei.
Trovò un piccolo passaggio tra due muri, dove un tempo doveva esserci stata una feritoia. Si infilò lì, stringendosi le ginocchia al petto, la testa tra le gambe. Cercò di tapparsi le orecchie, ma udì comunque il suo Signore strillare.

«No!»

Capì che era morto solo quando udì il silenzio. Passarono ore prima che trovasse il coraggio di uscire. Ore prima di riprendere a vagare per il castello.
Non si fece trovare da nessuno: gli uomini che avevano attaccato sembravano scomparsi.
Li trovò tutti nella grande sala dove il suo Signore teneva i banchetti.
Forse ora che erano distratti poteva fuggire. Raggiungere le porte e tornare a casa.

Si stava muovendo verso l’ingresso quando lo vide.

Malizia era appoggiato alla parete davanti alla sala, e ascoltava i suoi uomini.
Gli occhi di Diamante guizzarono tra lui e le porte. Le porte! Erano chiuse.
Si chiese se fosse una sciocchezza avvicinarsi. Poi smise di pensare e si lasciò guidare dall’istinto.

«Mio Signore.»
Lui si voltò di scatto, e sul suo viso Diamante lesse l’incredulità di trovarla ancora viva.

«Mi avete detto di nascondermi.»
«E tu l’hai fatto.»
«Non vi compiace?»

Lui sembrò pensarci bene prima di rispondere. «Sì, mi compiace. Puoi festeggiare con noi.»
Diamante non riuscì a trattenere le lacrime. Abbassò le palpebre per nascondere il pianto. Ricca era morta… erano tutti morti.

«Grazie… mio Signore.»
«Il tuo silenzio ti ha salvata. Non io.»

«Perdonatemi, mio Signore, ma… chi siete?»
Senza saio era così diverso…
«Francesco Grimaldi, ragazza. E questa è la mia casa adesso.»

Sapevo che non era un monaco… lo sapevo.

  n

N.d.A.: 

Questo racconto è romanzato, ma l’astuzia di Malizia è storia. Tanto che i monaci armati sono sullo stemma monegasco (il titolo è il motto racchiuso nel cartiglio).
Dopo la sconfitta dei guelfi e la loro cacciata dalla città, Francesco Grimaldi e Ranieri conquistano la Rocca, trasformando il paese in quello che ora è il Principato di Monaco.

Ne approfitto per lasciarvi il link di un’altra storia – Alba Cosacca – a cui tengo in modo particolare. Vi prego, vi prego, vi prego: leggetela.
Grazie a chiunque sia arrivato fin qui!

Celtica

Storia scritta per la WordWar indetta dal gruppo facebook Il Giardino di Efp. La sfida è stata lanciata da Subutai Khan (con Elgul1).

   
 
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