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Autore: Carmaux_95    12/11/2019    7 recensioni
-Per questa ricetta ho già venduto i medicinali richiesti.-
Lo sapeva: Filip era sceso a comprarli appena qualche giorno prima, ma ne aveva presi troppo pochi. Glielo aveva anche detto. O meglio, gliel'aveva urlato, accusandolo del fatto che non lo ascoltasse mai e che non gli importasse di quanto quelle medicine gli servissero. Filip aveva provato a spiegargli che ne aveva comprati esattamente quanti il dottore aveva specificato, ma Emilio non aveva voluto sentire ragioni: aveva aspettato un giorno che Filip non fosse stato in casa ed era sceso in farmacia a sua insaputa.
- partecipa alla ‘Challenge delle domande scomode’ indetta da LiHuan.85"
- Quarta classificata (38/40) al contest "Sitting in my room, with a needle in my hand" indetto da Soul_Shine sul forum di EFP
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Milano quotidiana'
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Say it once, tell me twice

Are you certain I'm alright

Just a sign to remind me

Tomorrows worth the fight

Ever changing the story line that keeps me alive

(Miracle - Shinedown)


Ever changing
 

Aprì gli occhi, ridestato da un fastidioso dolore acuto.

Come se gli fossero stati infilati tanti spilli in pieno petto, portò una mano alla fonte di quella terribile fitta: i punti di sutura tiravano così tanto che temeva che potessero saltare da un momento all'altro.

Si mise seduto lentamente, facendo il più adagio possibile, e, quando finalmente poté appoggiarsi contro lo schienale del divano sul quale si era addormentato, tirò un sospiro di sollievo. Nel bene o nel male era tutto nella norma: era passato solo un mese dall'operazione che gli aveva salvato la vita e sentire ancora qualche dolore era assolutamente normale.

Non che questa consapevolezza lo rincuorasse.

Una carezza gli fece reclinare la testa indietro per incontrare lo sguardo premuroso di Filip.

-Ero preoccupato.- dichiarò quest'ultimo. -Quando ho visto che non eri in camera mi sono spaventato: ho avuto paura che fossi uscito e ti fossi fatto male.-

Più di così?

Lo pensò soltanto: non voleva ferire i suoi sentimenti.
Sapeva bene cosa intendesse e riusciva ad immaginare la preoccupazione di trovare la camera vuota e il folle timore che, da qualche parte, per strada, sotto una torrenziale pioggia novembrina, un ragazzo di venticinque anni, con le stampelle e venti o forse trenta punti di sutura sul petto, fosse caduto o peggio.

Non aveva fatto niente del genere, né si sarebbe mai sognato di uscire. Semplicemente, stando nel proprio letto, non era riuscito a chiudere occhio e aveva così pensato di trasferirsi sul divano, nella speranza che le immagini della televisione lo cullassero dolcemente fino a farlo addormentare.

-Non riuscivo a dormire.-

-Scusami, non avrei dovuto lasciarti tutto solo: questa notte lascio la porta di camera mia aperta.-

-No.- sussurrò Emilio, sentendosi improvvisamente in colpa: -Non voglio disturbarti: ti occupi di me già durante il giorno...-

Filip, dopo avergli scombinato i capelli con un'ultima carezza, andò in cucina: -Hai fame? Facciamo colazione?-

-Ci sono ancora quei biscotti con le gocce di cioccolato?-

-Ne abbiamo a pizzette!-

Emilio non riuscì a trattenere una risata, sebbene ad ogni sghignazzata, uno dei punti di sutura gli ricordava di fare attenzione a non esagerare: -A bizzeffe.-

-Cos'è “bizzeffe”?-

-È un modo di dire.-

-E cosa significa?-

-Che abbiamo ancora tanti biscotti.-

Filip annuì, cominciando a ripetere fra sé e sé quella parola che gli suonava così estranea.

Si conoscevano da tempo, precisamente dalla prima volta che Emilio era arrivato alle Olimpiadi, a soli tredici anni.
Ricordava sempre con piacere la prima volta che quel giovane di otto anni più grande gli si era avvicinato e, inginocchiandosi sul ghiaccio dell'arena dove si sarebbero sfidati, aveva cercato di tranquillizzarlo biascicando qualche parola in un inglese fortemente storpiato dall'accento nordico del suo paese d'origine. Non erano fratelli di sangue, ma, tra momenti di gloria e periodi di devastazione, come in seguito alla morte di sua madre, Emilio non aveva potuto fare a meno di sviluppare una vera e propria adorazione nei suoi confronti, una devozione che trascendeva da qualsiasi legame di parentela. Rimasto orfano, quell'amicizia si era trasformata in una vera e propria fratellanza quando Filip lo aveva accolto in casa sua, e si era ulteriormente rinsaldata quando quest'ultimo, dopo l'incidente, aveva accettato di lasciare la pittoresca Svezia per trasferirsi con lui in Italia.

Nonostante fossero passati più di dodici anni, la lingua italiana riserbava ancora numerosi misteri per il pattinatore svedese che, infatti, confondeva spesso le pronunce e sembrava aver sviluppato una vera e propria idiosincrasia per i modi di dire.
Emilio, al contrario, favorito dalla passione che aveva per lo studio di lingue e letterature straniere, padroneggiava perfettamente lo svedese, come altri tre idiomi, e aveva da poco cominciato a studiarne un altro ancora.

Seguendo quei pensieri, volse la testa verso il basso tavolino di fronte al divano, dove giaceva il manuale di grammatica russa. Appena dietro, una cornice elegante nella sua semplicità conservava una fotografia scattata dodici anni prima: un Emilio tredicenne – ancora vestito con il body e i pattini, sulle cui lame si potevano ancora vedere piccole schegge di ghiaccio ed entusiasta di essere riuscito a portare a termine il suo primo programma corto olimpico – stava saltando in braccio a Filip, poco più che ventenne e anch'esso ancora vestito di tutto punto.
Adorava quella foto: ogni volta che il suo sguardo cascava su quella cornice non riusciva a trattenere un sorriso.


 

La prima volta che, adocchiandola con la coda dell'occhio, aveva distolto immediatamente lo sguardo, era passata inosservata a Filip, seduto all'estremità opposta del divano e troppo immerso nel film che stavano guardando.

Sarebbe stato meglio dire che soltanto Filip lo stava guardando: Emilio, infatti, era troppo distratto dalle continue fitte che, dalla cicatrice, si diramavano in tutto il petto.

Erano passati quasi due mesi dall'operazione. Qualcosa non andava: non avrebbe dovuto fargli male o, se non altro, non così tanto.

Non voleva che Filip si preoccupasse, per cui cercò di respirare lentamente, mascherando le smorfie passandosi la mani sul viso o girandosi di schiena per qualche secondo.

Era stato in quel momento che aveva adocchiato la fotografia e un moto di delusione e tristezza lo aveva portato a distogliere immediatamente lo sguardo.
Il pensiero che non avrebbe mai più sperimentato quella stessa gioia lo abbatté e sembrò acuire il dolore al petto.

Ripensò a quel fatidico giorno.
Era successo di punto in bianco: un attimo prima stava ancora piroettando per concludere alla perfezione un triplo axel e un attimo dopo era in terra, sanguinante e con una gamba fuori uso.

Il petto bucato da una pallottola che non aveva nemmeno sentito arrivare e il calore di quella pozza di sangue che si allargava sul gelido ghiaccio erano le uniche cose che ricordava di quel pomeriggio.

Lo avevano portato immediatamente in ospedale dove un complesso intervento aveva rimediato ai danni al petto: dopo un lungo periodo di riposo sarebbe potuto tornare alla normalità. Per quanto riguardava il ginocchio, invece, non c'era stato molto da fare: i dottori avevano fatto del loro meglio ma, nel caso di una lesione di quel tipo, tutti i loro sforzi non gli avrebbero comunque consentito di portare avanti la carriera agonistica.

La carriera agonistica.
Per i dottori erano poche semplici parole; per Emilio era tutta la sua vita.
Sua madre lo prendeva in giro, dicendo che aveva imparato a pattinare ancora prima di camminare, ma aveva sempre fatto di tutto per permettergli di portare avanti quella passione che definiva ogni fibra del suo essere. Emilio aveva trascorso gran parte della sua vita in equilibrio sulle lame dei pattini, scivolando, cadendo e rialzandosi sempre con un sorriso e ancora più grinta. Quella stessa grinta lo aveva portato più volte sul podio quanto sulle pagine dei giornali sportivi.

La fama non lo aveva mai infastidito più di tanto, sebbene non fosse mai stato particolarmente abile nel gestirla: non si trovava a suo agio con un microfono puntato addosso né a condividere le proprie emozioni con chi non conosceva e, in più occasioni, le sue risposte alle domande di curiosi o appassionati si erano ridotte a poche sillabe.
Non lo faceva apposta. Semplicemente, per lo stile di vita a cui si era dedicato, non aveva mai realmente imparato a rapportarsi con le persone che esulassero dalla propria ristretta famiglia.

Solamente ora cominciava a pensare a quanto quella fama potesse essere un'amica volubile: in fondo – si era trovato a pensare, inorridito – le aggressioni agli sportivi in cima alla classifica non erano certo una novità. Tanti atleti, persino nel mondo del suo pattinaggio, vicini com'erano ad un altro successo, si erano improvvisamente quanto fatalmente ritrovati a dover abbandonare la pista, spianando la strada a chi, dietro di loro, faticava per emergere dalla loro ombra.

L'idea che qualcuno gli avesse sparato solo per raggiungere una medaglia d'oro lo aveva terrorizzato e tutt'ora lo atterriva.

L'ennesima fitta lo spinse ad alzarsi e, con la scusa di andare a bere qualcosa, recuperò le stampelle e raggiunse la cucina.

Aprì un piccolo cassetto e ne tirò fuori un blister di antidolorifici. Erano particolarmente forti e, sotto consiglio del dottore, avrebbe dovuto assumerli solo qualora il dolore fosse diventato insopportabile.

Non era questo il caso, ma, dopo averci pensato a lungo tormentandosi le labbra, Emilio decise che, per una volta, poteva concedersi un piccolo aiuto: forse, fosse stato più rilassato, sarebbe riuscito a scacciare quei brutti pensieri e si sarebbe sentito meglio.


 

Mordendosi a sangue il labbro inferiore, Emilio tentò invano di trattenere un gemito mentre, sdraiato a letto, sentiva i punti di sutura bruciare e la pelle dolente come se fosse stata un unico gigantesco livido. Come se questo non fosse stato sufficiente, anche il ginocchio – non più ingessato ma, ormai, solo fasciato da un tutore – cominciò a farsi sentire mandando piccole ma dolorose scariche lungo tutto l'arto.

Sapendo che avrebbe solo peggiorato la situazione, non provò nemmeno a mettersi seduto.

Si portò le mani fra i capelli castani e li strinse alla radice, tirandoli: quel dolore era minimo, in confronto, ma sufficiente a fargli distogliere, almeno per qualche istante, l'attenzione da quella cicatrice pulsante nascosta sotto una medicazione candida.

Allungò una mano verso il comodino e cercò nel cassetto il barattolino degli antidolorifici. Imprecò quando si ricordò di averlo dimenticato nel salotto. Non ci pensò due volte: chiamò a gran voce il fratello e lo pregò di portarglielo il più in fretta possibile.

Filip soppesò la pastiglia nel palmo della propria mano, facendo un rapido calcolo mentale delle ore che erano trascorse dall'ultima volta che Emilio ne aveva presa una. Alla fine gliela diede in mano e, mentre Emilio lo ringraziava, decise che avrebbero aspettato che la medicina facesse effetto per poi andare in ospedale a fare un controllo.


 

L'infezione del sito chirurgico che aveva coinvolto la fascia e la parete muscolare sottostanti e che gli causava quel costante dolore al petto, non aveva aiutato a migliorare lo stato d'animo di Emilio.

Tornato a casa, dopo una settimana, era stato felice di abbracciare il proprio cuscino e di abbandonarsi alla comodità del proprio materasso: quella seconda degenza lo aveva distrutto, fisicamente quanto emotivamente.

Il dottore gli aveva prescritto delle medicine, nel caso di febbre, e, ancora una volta, degli antidolorifici e si era raccomandato di non sforzarsi troppo e di riposare molto.

Emilio era stufo di passare le giornate a letto o sul divano, tra momenti di noia e ore di devastanti fitte.
Attaccò la scatoletta degli analgesici il giorno stesso che era tornato a casa e, per i primi tempi, assumendone uno la mattina e uno al pomeriggio, riuscì a tenere a bada la situazione.
La prima volta che aveva provato a fare qualche passo senza l'aiuto delle stampelle – solo per constatare che non riusciva ancora ad appoggiare nemmeno il proprio misero peso sull'articolazione – stremato e provato da quello sforzo, aveva aumentato la dose, prendendone uno anche prima di andare a dormire e assicurandosi una buona notte di sonno.

Era stato facile convincersi che una semplice pastiglia in più la sera non gli avrebbe fatto male perché, dopotutto, come poteva far male se lo aiutava a dormire meglio e a svegliarsi riposato?

Per un po' aveva funzionato.


 

Seduto sul divano con la testa reclinata sullo schienale, respirò nervosamente tenendo gli occhi chiusi e la fronte aggrottata.

Detestava di non poter far nulla, di trascorrere le sue giornate semplicemente respirando.

Detestava sopravvivere anziché vivere, ma, allo stesso tempo, niente al mondo era in grado di appagarlo.

-Hai voglia di vedere un film?- gli domandò Filip, sedendosi al suo fianco.

-No.-

-Ti va un po' di tè? Sono quasi le cinque, dopotutto.-

-Non ne ho voglia.-

-Potresti riprendere a studiare: è da quasi due mesi che sei fermo sui verbi irregolari.- e così dicendo gli porse il libro di grammatica russa. Emilio lo prese in mano e, senza nemmeno guardarlo, lo fece ricadere sul tavolo.

Lo svedese sospirò silenziosamente, riflettendo: -A che punto sei con il tuo libro? Ti mancava poco per finirlo, se non ricordo male.-

-Non mi va di leggere.-

-Ma tu adori leggere! In più di dieci anni ti ho visto più tempo con il naso fra le pagine di un libro che...-

-Sì, e mi hai visto anche allenarmi e pattinare, non è così? Peccato che le cose cambino!-

Quella risposta, pronunciata con un tono che Filip non aveva mai udito provenire dalle sue labbra, lo spiazzò, facendolo ammutolire. Stava per alzarsi e andarsene quando Emilio lo richiamò:

-Mi porti le medicine? Mi fa male la gamba.-

-Ne hai presa una appena un paio d'ore fa.-

-Beh, non ha fatto effetto allora!- decretò con rabbia.

Era da quasi una settimana che quelle pillole non funzionavano più: che le assumesse o meno non faceva differenza e il dolore alla gamba continuava imperterrito a non permettergli quasi neanche di alzarsi in piedi.

-Senti,- disse Filip, con l'intento di distrarlo. -perché non usciamo per un'oretta? Sono più di tre mesi che quasi non esci di casa. Prendiamo solo un po' d'aria fresca: magari snebbi un po' le mente. Che dici?-

Emilio tentennò prima di rispondere scuotendo la testa.

La verità è che aveva ancora paura di uscire, di camminare senza sentirsi protetto dalle mura di casa. Sebbene fosse lontano migliaia di chilometri dal luogo in cui gli avevano sparato, anche solo il pensiero di trovarsi indifeso per strada gli faceva ancora temere che, da qualche parte, nascosto alla sua vista, ci fosse qualcuno pronto a portare a termine il lavoro.

Nella sua mente ringraziò ironicamente Filip di avergli fatto tornare quegli incubi: avrebbe passato un'altra notte insonne.


 

Era da troppo tempo che non riusciva a riposare, svegliandosi nel cuore della notte ora con le lacrime agli occhi, quando il dolore al ginocchio era tale da costringerlo a mettersi seduto e a massaggiarlo, ora sudato fradicio quando la sua mente riproponeva quei ricordi imbrattati di sangue.

Davanti alla porta di casa, Emilio rimase immobile per diversi minuti, indeciso.

Non era un percorso lungo. La farmacia era proprio sotto casa: gli sarebbe bastato uscire dal portone e fare appena pochi passi per raggiungerla.

Infilò la mano nella tasca della giacca e strinse il foglio che vi aveva infilato dentro, ripiegato più volte su se stesso. Quel semplice gesto gli diede abbastanza coraggio: chiamò l'ascensore, uscì in strada e raggiunse la farmacia.

Non aveva più bisogno delle stampelle per camminare, sebbene dovesse indossare ancora il tutore, e raggiunse il bancone con passo malfermo.

La dottoressa lo accolse con un sorriso ed Emilio si affrettò a consegnarle il foglio che aveva stretto convulsamente fino a quel momento. La giovane donna fece una rapida ricerca sul computer e, alla fine, scosse la testa:

-Per questa ricetta ho già venduto i medicinali richiesti.-

Lo sapeva: Filip era sceso a comprarli appena qualche giorno prima, ma ne aveva presi troppo pochi. Glielo aveva anche detto. O meglio, gliel'aveva urlato, accusandolo del fatto che non lo ascoltasse mai e che non gli importasse di quanto quelle medicine gli servissero. Filip aveva provato a spiegargli che ne aveva comprati esattamente quanti il dottore aveva specificato, ma Emilio non aveva voluto sentire ragioni: aveva aspettato un giorno che Filip non fosse stato in casa ed era sceso in farmacia a sua insaputa.

-Non posso comprarne un'altra confezione?-

-Mi dispiace, ma sono analgesici molto forti: non posso venderteli senza la ricetta di un medico.-

Emilio picchiettò delicatamente sul foglio, ma la dottoressa scosse la testa: -È come con un biglietto del tram: non puoi timbrarne uno più volte.-

Emilio sentì gli occhi cominciare a bruciare e tentò di trattenere le lacrime.
Ne aveva bisogno: non le prendeva più solo quando sentiva male alla gamba – episodi che ormai si limitavano alla notte o quando, inavvertitamente, caricava troppo peso sul ginocchio – ma anche quando si ritrovava da solo con i suoi pensieri e, assoggettato da questi, cominciava a sentire l'ansia e il terrore montare dentro di sé.

-Senza ricetta posso darti solo degli antidolorifici molto più leggeri.- proseguì la donna.

Non aveva bisogno di qualcosa di più leggero, al contrario! Aveva bisogno di qualcosa che superasse persino quelle maledette pastiglie che, ormai, sembravano non fare più alcun effetto.

Era come se il suo corpo si fosse completamente assuefatto a quelle dannate medicine.

Forse sarebbe bastato aumentare ancora un po' il dosaggio.


 

Respirava affannosamente, guardando fisso il cestino della propria camera. Mordendosi nervosamente le nocche delle mani, cercava di scacciare quel pensiero: aveva davvero acquistato della droga.

Non riusciva a crederci. In che razza di persona si era trasformata?
Avrebbe potuto dire di no, ma erano bastate poche parole per convincerlo.

Preoccupato, ma cercando di non darlo a vedere, aveva preso due banconote dal portafoglio e le aveva consegnate allo spacciatore, che aveva frugato nella giacca per tirarne fuori una minuscola bustina di stagnola.

La aveva osservata con la fronte corrugata e, trovando un inaspettato coraggio, si era lamentato: -Stai scherzando? Io ti ho chiesto delle medicine!-

-Stammi un po' a sentire:- aveva risposto di rimando lo spacciatore, senza farsi impressionare. -se vuoi delle caramelle, vai in farmacia. Se vieni da me stai zitto, mi paghi e poi mi ringrazi!-

Emilio aveva scosso la testa e l'uomo sbuffato sonoramente: -Tu mi hai chiesto degli analgesici, giusto? Sai cos'è questo? Fentanyl. È cento volte più potente della morfina: pensi che ti possa bastare come antidolorifico?-

Sarebbe bastato.
Sarebbe bastato eccome!
In ospedale aveva conosciuto l'effetto della morfina e solo il pensiero che quei pochi granelli chiusi dentro della carta stagnola – e, ora, sul fondo del cestino – potessero farlo stare ancora meglio lo allettava terribilmente, pietrificandolo di paura.

Era davvero disposto ad arrivare a tanto?

Per allontanarsi dalla tentazione, andò a dormire sul divano ma non riuscì a chiudere occhio, sconquassato dai sensi di colpa tanto per quell'acquisto illegale quanto per la voglia sempre più forte di farne uso.

Era a questo che si era ridotta la sua vita?

Era davvero caduto così in basso?

Si sentiva come un guscio vuoto, senza interessi o emozioni che esulassero da quella minima sensazione di benessere che gli davano le medicine; sottile, fragile, pronto a spezzarsi da un momento all'altro.

Non riusciva a crederci.
Non riusciva a concepire che, nonostante si facesse schifo, il pensiero che sniffare quella polverina lo avrebbe fatto sentire meglio fosse ancora lì a bussare alle sue tempie.

Si tappò le orecchie con entrambe le mani, ma più forte stringeva, più quei pensieri si trasformavano in grida.

Non si addormentò per davvero: trascorse qualche ora in uno stato di dormiveglia e, quando riaprì gli occhi si accorse che stava ancora stringendo le mani sulle orecchie.

Non ce la faceva più.

A fatica riuscì a mettersi in piedi e, traballando raggiunse la propria camera. Perse l'equilibrio e cadde in terra, ma non si lamentò: dopotutto doveva frugare nel cestino, per cui si sarebbe dovuto chinare ugualmente. La sua mano cercò disperatamente quella bustina, invano. Preda di un improvviso terrore, ribaltò il cestino in terra, ma ancora una volta non la trovò.

Più i secondi passavano, più il bisogno di trovarla e aprirla.

Cercò sotto la scrivania e nei cassetti. Strisciò sul pavimento per controllare anche sotto il letto ma, quando arrivò a controllare il comodino, qualcosa lo confuse: il pacchetto di carta stagnola che stava cercando era proprio lì, aperto e vuoto.

Quando...?

Doveva essersi svegliato durante la notte e aver fatto esattamente quello che stava facendo in quel momento.
Ma perché non riusciva a ricordarsi di nulla? Nemmeno un minuscolo ricordo, una singola immagine frammentata che lo aiutasse a confermare quella teoria.

La consapevolezza che, ora, era a mani vuote lo spinse a cercare il portafoglio: aveva abbastanza per comprarne dell'altra.

Doveva solo aspettare che Filip uscisse di casa.


 

Si svegliò quando sentì qualcuno stringergli una spalla e scuoterlo leggermente.

Seduto sul tavolino di fronte al divano, Filip lo guardava in modo indecifrabile e quasi non aspettò nemmeno che si fosse messo seduto per parlare:

-Che cos'è questa?-

Emilio abbassò lo sguardo: nella sua mano c'era la prova della sua debolezza, ancora impacchettata nella carta stagnola. Doveva averla trovata quando era entrato a rassettare la sua camera. Eppure gli sembrava di averle nascoste bene.

Per un secondo Emilio si chiese che ore fossero – o quanti giorni fossero passati da quando aveva chiuso gli occhi – ma immediatamente un altro pensiero prese posto nella sua mente: gli sarebbe bastato allungare una mano... e lui era sempre stato agile e scattante.

Filip lo richiamò all'attenzione, ponendogli di nuovo quella domanda, ma per la seconda volta Emilio non gli rispose.
Ripiegò le labbra verso l'interno, mordendosele e, di colpo, decise di agire: tentò di sottrarre quella bustina dalle mani di Filip, ma quest'ultimo fu più veloce a spostarsi e alzarsi in piedi.

-Sei impazzito?!- esclamò indietreggiando. -Non so come te la sia procurata, ma puoi stare certo che non ne farai uso!-

Quelle poche parole fecero infuriare Emilio, che si alzò di scatto dal divano. Con uno spintone fece cadere in terra la bustina e stava per chinarsi per raccoglierla quando si sentì afferrare da dietro e trascinare via.

Non era stato poi veloce come aveva immaginato: le medicine e la droga lo avevano reso lento, scoordinato, e per Filip, da sempre più alto e robusto di lui, non era stato difficile sollevarlo da terra.

Emilio scalpitò, urlandogli di lasciarlo andare, ma la ferrea presa del fratello venne meno solo quando raggiunsero il bagno: per poco non cadde per terra quando Filip lo spinse dentro, chiudendo a chiave la porta.

Emilio vi si scagliò contro, abbassando furiosamente la maniglia e cominciando a battere con forza: -Filip! Fammi uscire!-

Ma il maggiore non lo ascoltò: si diresse in camera di Emilio e la mise a soqquadro fino a quando non fu sicuro di aver trovato ogni singola dose, poi andò in cucina, dove le aprì una per una sul lavandino, facendone scivolare il contenuto nello scarico.

Risoluto, tornò davanti al bagno mentre Emilio colpiva ancora, con sempre più forza, sulle assi di legno: -Apri questa cazzo di porta! Fammi uscire! Ne ho bisogno, Filip! Aprimi!-

-Non ne hai bisogno.-

-E tu che ne sai?!- ringhiò Emilio. -Parli come se capissi quello che provo, ma non è così! Tu non sai come sto! Pensi che le cose si aggiusteranno ma non è così!-

-Non dire così...- sussurro Filip dall'altro lato della porta, sentendosi improvvisamente meno forte di quanto credeva di essere.

-Smettila di parlarmi come se fossi un bambino! Non sei mia madre! E non sei mio fratello! Non siamo una famiglia! La mamma non c'è più! Tutta la mia vita non c'è più. Mi hanno cancellato: hanno distrutto tutto quello che ho fatto, tutto quello che sono! Non sono più niente! Non esisto più! Apri questa porta! Fammi uscire!-

Filip appoggiò la schiena contro la porta, assorbendo tutti i pugni che Emilio assestava ad ogni parola e si lasciò scivolare in terra.

Il viso rigato di lacrime, non riuscì a dire che, al contrario di quanto Emilio sosteneva, si rendeva conto del suo dolore e delle sue paure; che comprendeva la disperazione di un ragazzo che, privato di tutto ciò che una volta lo definiva, si era ritrovato amorfo, incapace di trovare la forza e un altro materiale con cui costruire un nuovo percorso; che capiva l'angoscia di svegliarsi una mattina e sentirsi come se non fosse mai esistito, come se di colpo il peso dell'esistenza gli fosse capitato fra capo e collo.
Non riuscì a chiedergli scusa se non era stato all'altezza della situazione, se non era riuscito ad aiutarlo come avrebbe voluto e come Emilio avrebbe avuto bisogno: lo aveva visto peggiorare con il tempo e, nonostante i suoi sforzi sempre maggiori per coinvolgerlo e per rincuorarlo, non era stato capace di risollevarlo. Ce l'aveva messa tutta – nascondendo le medicine nel proprio comodino, chiudendolo a chiave quando aveva capito che, di notte, Emilio si alzava e venire a fare silenziosa razzia del cassetto, e in mille altri modi diversi – ma non riusciva a monitorarlo ventiquattro ore al giorno e non poteva credere che, vedendosi negate delle semplici pastiglie, avesse ripiegato su qualcosa di ben peggiore.

-L'ho buttata.- dichiarò, invece.

-No... no, ti prego... ne ho bisogno! Non ce la faccio ad andare avanti senza! Ti prego, Filip: non ce la faccio da solo.-

Lo sguardo di Filip cadde su quella fotografia che, una volta, decorava il tavolo del soggiorno.
Da quando aveva cominciato ad assumere gli antidolorifici in quantità spropositata, Emilio sembrava non sopportare nemmeno la vista di quei volti sorridenti e, come la vedeva, allungava una mano per ribaltarla.
Quando Filip se n'era accorto aveva deciso di appenderla: non avrebbe mai accettato di nascondere il vero Emilio, così fedelmente immortalato in quella fotografia: quel ragazzino con le orecchie un po' sporgenti che sorrideva in qualunque occasione lanciandosi in abbracci affettuosi; quel ragazzino volenteroso e disposto a tutto pur di inseguire le sue passioni; lo stesso ragazzino che, a causa delle lacrime che ormai non riusciva più a trattenere, ora sembrava sfuocato, appannato, quasi offuscato; il ragazzino che dietro alla rabbia di una crisi d'astinenza, sembrava quasi non essere mai esistito.

Non sarebbero andati avanti così, decretò silenziosamente.

-Nemmeno io.- sussurrò prendendosi il viso fra le mani.


 


 

Emilio aprì gli occhi e la prima cosa che riuscì a mettere a fuoco fu un ago infilato nelle vene del polso.

-Assunzione, possesso e vendita illegale di farmaci; spaccio di droga e, come se non bastasse, aggressione ad un pubblico ufficiale.-

Sbatté gli occhi più volte, cercando di scacciare un fastidioso mal di testa, e riconobbe la sagoma dell'uomo che gli stava parlando con, davanti al viso, un cellulare che, all'improvviso, scattò una foto con tanto di flash, facendo bruciare i suoi occhioni ma facendogli improvvisamente ricordare cosa stesse succedendo.

-E alla faccia dell'aggressione, se posso permettermi.- aggiunse questi mostrando finalmente il proprio viso. Indicò la foto appena scattata: -Con questa, possiamo aumentargli la pena di almeno una decina d'anni.-

Emilio tentò di mettersi seduto, in quel lettino d'ospedale, ma l'uomo glielo impedì, appoggiandogli delicatamente una mano sulla spalla: -Certo che ti sei fatto pestare proprio per bene!- commentò, osservando i lividi violacei che gli riempivano il viso.

-Non volevo far saltare la copertura.-

-Era già saltata, Dumbo, ma, in tua discolpa, avevi già raccolto informazioni e prove a sufficienza per incastrarlo.-

Diego, un omone alto quasi un metro e novanta e dall'aspetto intimidatorio, lo aveva sempre chiamato con nomignoli più o meno lusinghieri, dal primo momento in cui era entrato in polizia come agente semplice ed era stato affidato alla sua istruzione; non lo aveva ancora mai sentito nemmeno pronunciare il suo vero nome, ma la cosa non lo infastidiva. A dire il vero trovava quasi divertente quanto il suo superiore si sforzasse di provocarlo costantemente per testare i limiti della sua pazienza. Era uno dei motivi per cui apprezzava davvero di essere stato assegnato proprio a lui, ad una persona che non aveva tenuto conto del suo passato da atleta e che non aveva scelto di spianargli la strada solo per via delle medaglie che aveva vinto, ma che, al contrario, non faceva che metterlo in difficoltà per vedere di cosa fosse davvero capace.

-A questo proposito, il tuo amico spacciatore, mentre veniva arrestato, è sembrato piuttosto incline a fornire particolari informazioni... su di te.-

Sapeva che sarebbe arrivato quel momento – dopotutto, non poteva certo contare sul fatto che quel pusher avrebbe taciuto di averlo conosciuto come cliente – ma lo aveva messo in conto quando aveva chiesto che gli fosse affidato il caso di quella vendita illegale di medicinali che Emilio, purtroppo, conosceva bene.
Poco meno di due anni prima gli spacciatori che lo avevano messo in piedi e che tutt'ora lo gestivano, gli avevano quasi rovinato la vita: ora avrebbe ricambiato il favore, a costo di perdere il lavoro.

Diego, davanti a quella richiesta, lo aveva osservato scettico: -Sei appena uscito dal reparto neonatale e vuoi già giocare al superpoliziotto?-

Emilio aveva sorriso davanti all'ennesima provocazione, anche se non aveva ancora stabilito se facesse riferimento al suo aspetto mingherlino e da bambino, con quei lineamenti dolci e quasi infantili, o al fatto che fosse ancora fresco di accademia, o ad entrambe le cose.

Alla fine il suo superiore aveva accettato ma, prima di gettarlo nella fossa dei leoni, si era premurato di prepararlo a dovere, spiegandogli e facendosi ripetere mille volte come si sarebbe dovuto comportare. Emilio lo aveva ascoltato con attenzione maniacale e, sebbene ogni operazione sotto copertura comportasse dei rischi, quella preoccupazione nei suoi confronti – sentimento che, stando alle voci che giravano in commissariato, nessuno dei precedenti agenti che erano stati accostati a Diego aveva mai conosciuto – lo aveva tranquillizzato e gli aveva fatto piacere.

Ricordava bene ogni istante di quell'operazione.

O quasi.

Aveva raggiunto il luogo d'incontro e, sentendo il cuore battere all'impazzata, aveva avvicinato lo stesso spacciatore che aveva già conosciuto tempo addietro.

Il registratore appiccicato sul suo petto si era acceso nel momento stesso in cui era sceso dal furgone dove Diego, con un paio di agenti di supporto, avrebbe controllato la situazione, pronto ad intervenire nel caso fosse stato necessario.

Lo spacciatore lo aveva riconosciuto quasi subito, ma era stato ben attento a non dire nulla di compromettente.

Emilio aveva interpretato il ruolo più importante della sua vita, ricreando i tremori di una crisi d'astinenza, il fiato spezzato, le vertigini e la perdita d'equilibrio.

Se pensava che, poco meno di due anni prima, non avrebbe avuto bisogno di fingere, si sentiva ancora a disagio.

Per dare credibilità a quella messa in scena aveva anche cominciato a grattarsi il braccio, simulando, sebbene non l'avesse mai sperimentata in prima persona, l'irritazione tipica da iniezione per endovena. Per concludere in bellezza, sfilando dalla tasca dei pantaloni un paio di banconote da cinquanta euro, aveva lasciato che una cadesse a terra, dando la colpa alla mancanza di coordinazione sintomatica della tossicodipendenza.

Lo spacciatore si era chinato in terra per raccoglierla e aveva cominciato a rigirarsela fra le dita, interessato all'affare: -Di che cosa avresti bisogno?-

Era troppo poco: un'affermazione che un qualunque avvocato avrebbe saputo rigirare, estraniandola dal suo contesto.

In quel momento il registratore aveva cominciato a surriscaldarsi e la pelle sottostante aveva iniziato subito ad arrossarsi.

Emilio aveva tentennato, non del tutto certo di cosa dire, e il pusher lo aveva preceduto: -Amico, sei messo male, ma non posso aiutarti se non mi dici di cosa hai bisogno.-

-Qualunque cosa.-

Quello era stato il suo primo errore e lo spacciatore, infatti, lo aveva guardato sospettoso.

Per la preoccupazione, aveva cominciato a sudare e il registratore era diventato incandescente: aveva stretto i denti, cercando di non dare nell'occhio nonostante il bruciore.

Aveva sofferto ben di peggio.

-Qualsiasi cosa. Basta che faccia passare il dolore!- aveva aggiunto e, non sapendo più come comportarsi, aveva pensato di fare un po' di scena, lasciandosi cadere in terra, ai suoi piedi.

L'uomo non aveva fatto una piega. Lo aveva guardato dall'alto in basso e, dopo qualche istante di silenzio, aveva parlato di nuovo: -Sei a digiuno o a pieno regime?-

-A digiuno... per-per favore...-

Il delinquente aveva sbuffato e, alla fine, gli aveva allungato una mano per aiutarlo ad alzarsi.

Era stato allora che la aveva sentita: chiusa in quel finto gesto di soccorso, una minuscola confezione era appena passata dallo spacciatore al compratore.

Ce l'aveva fatta: ecco la pistola fumante e inattaccabile.

Poi, di colpo, qualcosa era andato storto. Con lo sguardo incredulo, aveva sollevato la mano per osservare la bustina trasparente e fare in modo che la microcamera la inquadrasse, catturando su nastro la prova schiacciante: forse era stato proprio quel movimento, così grossolano, a confermare allo spacciatore quel barlume di sospetto che Emilio aveva già visto nel suo sguardo.

L'uomo si era mosso rapidamente: aveva estratto una pistola da dietro la giacca e lo aveva colpito in testa con il calcio.

Da quel momento in poi i ricordi cominciavano a farsi sfuocati, ma, come se avesse percepito i suoi pensieri, Diego parlò di nuovo: -Il dottore ha detto che, sorvolando i lividi, hai solo un paio di costole incrinate: niente di grave.-

Emilio annuì, ma tornò al discorso precedente: -Ha fatto il mio nome, vero?-

-Sì.- sospirò. -Nome e acquisto.-

-Sono licenziato?- domandò titubante.

Diego rispose con un'altra domanda: -Perché hai scelto la polizia?-

Era lo stesso quesito che gli aveva posto Filip quando aveva deciso di iscriversi in Accademia.

-Perché arriva un momento in cui capisci che, per quanto si possa soffrire, piangersi addosso e autocommiserarsi è solo una perdita di tempo.- prese coraggio. -Ho vissuto un periodo davvero brutto e se ne sono uscito non è stato grazie a me, ma grazie a qualcuno che ha continuato a vedere qualcosa di positivo in me anche quando io non lo vedevo.-

Si domandava tutt'ora come Filip avesse fatto a trovare la forza di riaprire la porta di quel bagno e di abbracciarlo, di parlargli con le lacrime agli occhi ma la voce granitica convincendolo del fatto che insieme avrebbero superato quella situazione; come avesse fatto a svegliarsi quasi tutte le notti quando, in presa all'astinenza, Emilio si infilava nel suo letto, tremante, scosso dai brividi e dalla pelle d'oca, e terrorizzato dall'ansia di non sapere cosa avrebbe fatto il giorno dopo, di non riuscire nemmeno ad immaginare in che cosa si sarebbe potuta trasformare la sua vita; come avesse trovato la forza di stringerlo a sé ogni volta, sussurrandogli parole di conforto.

-So di non poter sostituire tua madre, di non poter pretendere il contrario. E so che, forse, non sarò un dottore o un esperto ma...- gli aveva detto una notte. -Io spero solo di essere abbastanza.-

Era più che abbastanza.

-Tu sei il mio unico riferimento: non ce la potrei mai fare senza di te.-

-Andrà tutto bene.- e così dicendo gli aveva accarezzato la testa.

-Ripetimelo ancora.-

-Fidati: andrà tutto bene.-

-Me lo prometti?-

-Promesso.-

Filip aveva mantenuto la sua promessa ed Emilio avrebbe mantenuto la sua: -Voglio dimostrargli che ha visto giusto. Non potrò fare quello che lui ha fatto per me, ma posso essere utile. Voglio essere utile. E voglio farlo senza avere i riflettori puntati addosso: voglio occupare una posizione perché me la merito, non per le mie medaglie.-

Diego lo ascoltò in silenzio, senza azzardarsi ad interromperlo, e non rispose subito.
Si alzò e si avvicinò al letto, di modo da poterlo guardare bene in viso:

-Ti dirò una cosa scontata.- dichiarò. -Guarda che il mondo non è tutto rosa e fiori e nessuno sa colpire duro come fa la vita: per quanto forte tu possa essere, se glielo permetti, ti mette in ginocchio e ti lascia senza niente per sempre. Tu sei molto giovane, solare e, anche se nessuno lo direbbe vedendoti adesso, sei un bel ragazzo. La vita è stata ingiusta con te, ma non c'è niente di male a cadere, a finire al tappeto, e a farsi aiutare: l'importante è come ti rimetti in piedi, come decidi di riscattarti. E questo – il fatto che non ti nasconda dietro a formalismi, che sia pronto a metterti in gioco, che sia disposto a vincere le tue paure, a combattere con le tue debolezze e i tuoi demoni, che sia pronto a farti spaccare la faccia per fare ciò che è giusto – è ciò che voglio in un agente; nel mio agente.- scosse la testa. -Non ti licenzio, Emilio: non ci penso nemmeno. Me la vedrò io con chi di dovere.-

E con quelle ultime parole si alzò e fece per uscire dalla camera. Sulla soglia, si fermò e si volse indietro: -Hai una pessima cera: vedi di riposarti e di tornare efficiente in tempi brevi.- e con quella mezza battuta se n'era definitivamente andato.

Emilio si concesse una risata e, di nuovo, pensò a Filip quando, la mattina del suo primo giorno di lavoro in commissariato, gli aveva preparato la colazione e gli aveva augurato buona fortuna.
Emilio era emerso dalla propria camera tutto trafelato, con la camicia ancora fuori dai pantaloni e la cravatta, ancora da annodare, stretta fra i denti mentre cercava di infilarsi la giacca.

Filip lo aveva guardato inclinando la testa: -Hai una pessima candela: sicuro di aver dormito abbastanza?-

-“Cera”, non “candela”.- aveva risposto, la cravatta ancora in bocca.

-Dammi.- aveva detto il fratello, offrendosi di fargli il nodo attorno al collo. -Cera. Beh, una candela è fatta di cera: non va bene comunque dire “candela”?-

-Non proprio.-

Finendo di stringere il nodo, Filip gli aveva sorriso e, prendendo il telefono, aveva scattato una foto ad entrambi. Il fatto che l'inquadratura fosse storta e che si vedesse anche una buona porzione del suo braccio che sorreggeva il cellulare non gli aveva impedito di far stampare quella foto per incorniciarla.

Emilio sospirò felice, rilassandosi in quel lettino d'ospedale: adorava quella foto.


 


 


 


 


 


 

Angolino autrice:

Buona sera/notte a tutti!

Questa storia partecipa all'ennesimo fantastico contest indetto dalla cara Soul_Dolmayan!

È chilometrica, lo so, ma sono riuscita a rimanere comunque all'interno del limite consentito! ^^

Dire che scrivere questa one shot è stato un parto è dire poco; dire che è stato un parto plurigemellare preceduto da un travaglio di duecento ore si avvicina già di più a quello che ho provato scrivendola! XD
No va beh, tornando serie, ammetto che è stato molto difficile trattare di un argomento così delicato e l'impostazione che ho voluto dare alla storia non è stato casuale.

Per chiunque sia riuscito a leggere da cima a fondo: sebbene all'inizio ci avessi pensato ho deciso di non soffermarmi unicamente su un episodio in cui il nostro protagonista fa uso di droga (perché anche i medicinali, se usati con poco giudizio, si trasformano in droghe che non perdonano) ma di raccontare l'arco della sua esperienza, dalla prima volta che imbocca questa strada, all'aumento del dosaggio, all'assuefazione fino ad arrivare al momento più basso in cui anche chi gli è vicino e gli vuole bene sente di non farcela più in un climax costante. Ritenevo che ogni passaggio fosse importante e, per questo, ho voluto dedicare almeno un paragrafo a ciascun momento.

Sorry per le tipo 6000 parole XD

E non solo: se inizialmente avrei fatto concludere questa storia con una presa di coscienza da parte di Emilio, alla fine ho deciso di aggiungere anche un'ultima parte che trattasse del suo riscatto. Scelta che mi ha dato la possibilità di inserire anche il personaggio di Diego, un altro mio personaggio originale a cui tengo molto.

Ho voluto dare due figure di riferimento al nostro protagonista: il fratello, la figura più importante, che lo ha aiutato a risollevarsi; e il Capo, al lavoro, che gli ha dato fiducia e la possibilità di riscattarsi.

Che altro aggiungere?

Come sempre ringrazio Soul per aver indetto questo contest così particolare, che mi ha permesso, ancora una volta, di allontanarmi dalla mia confort zone per affrontare tematiche più serie (a questo proposito, spero che il raiting arancione sia sufficiente: se riteneste che lo debba alzare fatemelo sapere che rimedierò immediatamente! ^^) e complicate!

E siccome penso di avervi annoiati ben più che a sufficienza, vi saluto!

Vi mando un grosso abbraccio e vi ringrazio in anticipo per avermi dedicato un po' di tempo! ^^

Carmaux


 

P.S.

Il titolo, come avrete visto, è preso dal testo di una canzone degli Shinedown :)


 

  
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