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Autore: lacchan96    13/11/2019    1 recensioni
Vorrebbe stargli vicino. Stringerlo. Essere certa che affronteranno insieme tutto quello che verrà dopo. Si tende verso di lui. Cerca di avvicinarsi con ogni fibra dal suo corpo. Ma è inutile. Lui è lontano. Irraggiungibile per lei come è sempre stato.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrien Agreste/Chat Noir, Marinette Dupain-Cheng/Ladybug
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ogni notte, quando la luna sta per sparire dietro l’orizzonte, lui si alza, rivolge il suo sguardo al giorno che avanza e piano intona un canto. Canta di un tempo passato in cui la rugiada imperlava i sottili fili d’erba, quando il suono delle sveglie destava il mondo dal suo riposo.
Ogni notte, quando il canto risuona nel deserto caldo, lui chiude gli occhi e prega di poter cancellare il passato.
 
Quando le prime stelle si fanno strada nel cielo, il canto si ferma, lui si siede sulla nuda terra lasciando che la testa gli ricada stancamente sul petto. La gola brucia, la bocca è impastata dalla sabbia e i suoi piedi sembrano bruciare a contatto con la terra arida; ma presto tutto passa, la fame e la sete si placano e il corpo si rinvigorisce, solo il suo spirito rimane spezzato. Prende da terra una pietra dal bordo appuntito, osserva le tante piccole linee sul suo braccio e con fermezza ne incide un’altra.
Sono passati trentasette giorni.
Una piccola goccia di sangue scivola dalla ferita fino a terra, il taglio brucia ed è confortante; quando tutto sparisce e la realtà ormai sembra quasi un sogno, il dolore rimane, per ricordargli perché continua a camminare e a sopportare tutto.
Resiste al sonno, continua a camminare stringendo il braccio segnato, ma ogni passo diventa più pesante e alla fine cade a terra addormentato.
 
 
Ogni giorno, quando il sole sta per sparire dietro l’orizzonte, lei si alza, rivolge il suo sguardo alla notte che avanza e piano intona un canto. Canta di un tempo passato in cui alla fine del giorno il sole si tuffava tra le fronde degli alberi, quando si sentivano gli ultimi cinguettii prima del silenzio.
Ogni giorno, quando il canto risuona nel deserto ghiacciato, lei guarda la notte e prega di poter vedere un futuro diverso.
 
Quando i primi raggi del sole iniziano ad illuminare la notte buia, il canto si ferma, lei si sdraia sul ghiaccio freddo e si assopisce con la consapevolezza che sognerà nuovamente.
Metallo freddo contro il viso, gambe immobili, i polmoni che bruciano ad ogni respiro. Gli occhi fanno fatica ad aprirsi e la testa pulsa per il dolore, ogni voce è ovattata, ogni urlo sembra lontano. Qualcuno la fa voltare, i raggi del sole penetrano attraverso le palpebre e piano un viso viene messo a fuoco. Una delle voci si sovrappone alle altre e tra i singhiozzi distingue il suo nome. Non piangere, vorrebbe dire, andrà tutto bene, ma la voce non esce, sente solo gli occhi pizzicare e d’improvviso più nulla.
Apre gli occhi, le lacrime le bagnano le guance e un urlo prorompe dalla sua gola diffondendosi per miglia e miglia di nulla assoluto. Urla finché la gola non brucia, finché i suoi occhi non hanno più lacrime da versare. E poi il sonno la prende nuovamente, dorme, sogna e un’altra volta si sveglia piangendo e urlando.
E così continua quell’esistenza dolorosa che sembra non avere mai fine.
 
 
Le linee sul braccio ora sono cinquantuno. Il tempo è passato, ma tutto è rimasto uguale. Il dolore, il canto, le parole, il deserto, le montagne che si stagliano all’orizzonte, sempre lontane, mai vicine. E i ricordi.
Eccolo. È lì davanti ai loro occhi, inerme, sconfitto, spogliato del suo potere e c’è silenzio, nessuno esulta, non ci sono festeggiamenti. È davanti ai suoi occhi eppure non vorrebbe vederlo. Papà, sussurra. Nient’altro sembra importante, non la luce che lo avvolge, o i bassi mormorii sorpresi, vede solo suo padre, steso a terra e sente solo il cuore spezzarsi. È per lei. Capisce improvvisamente. Indietreggia, vorrebbe piangere, urlare, chiedere spiegazioni, abbracciarlo e al tempo stesso allontanarlo. Un vortice di piume blu li avvolge, chiude gli occhi e quando li riapre lui non è più là.
 
 
Aveva amato i Miraculous, li aveva protetti, ora li odia.
Sfiora gli orecchini, sono piccoli e innocui, senza più magia. Senza più un Kwami. È sola, può solo cantare e camminare, e così continua. Canta più forte, lascia che la melodia si impregni di dolore e alza gli occhi al cielo, a quello spicchio di luna che sembra deriderla per la sua debolezza. Dopotutto è stata colpa sua.
Le piume blu scompaiono e lui insieme a loro. Sembrava finita, avevano vinto, ma lei non era stata abbastanza attenta. Cade in ginocchio, si porta le dita alle orecchie. Non ci sono più orecchini.
Ho fallito. È colpa mia. Non sono un leader. Non so cosa fare. Siamo in pericolo. Dobbiamo scappare. Ci serve un piano. Fallirò di nuovo. Dobbiamo andare via. Ho perso. Non sono un leader. È colpa mia. Ho fallito. Fallirò di nuovo.
I pensieri vorticano in testa. Chiude gli occhi. Stringe forte i pugni. Si alza. Dice qualcosa. Si allontanano in fretta. Lui corre al suo fianco. Lo guarda. Si rivede nel suo sguardo spento. Parole di conforto le salgono alle labbra, ma ognuna di esse sembra superflua. Distoglie lo sguardo e corre.
 
 
Il cielo si tinge di rosso. Il canto non risuona più per il deserto. L’ottantaduesimo giorno è passato. Lui si guarda il braccio segnato, poi le dita. L’anello è nero, ma senza vita. Lo sfila, lo lancia lontano, abbassa lo sguardo ed è di nuovo al suo dito. Sospira. Si siede e pensa. Al passato. A suo padre. A sua madre. A lei. Si chiede dove si trovi, cosa stia facendo e se anche lei stia soffrendo quanto lui. Oppure se abbia iniziato a odiarlo.
Dopotutto è stata colpa sua.
Corre. Segue gli altri. Le gambe si muovono per inerzia. Nella testa lo sguardo di suo padre sconvolto. Quel momento continua a ripetersi tra i suoi pensieri, inesorabile, sovrastato solo dalla consapevolezza che l’ha fatto per lei. Tutto quel dolore, la distruzione, le battaglie, ogni cosa solo per lei. Un capogiro. Sente la bile salire dallo stomaco. Si ferma e cade sulle ginocchia. La gola brucia, inizia a tossire e le lacrime scorrono sulle sue guance. Sente il peso di ogni azione di suo padre. E ancora più forte sente l’assenza dell’anello al suo dito. È stata colpa mia. La guarda, ha il viso contratto dalla preoccupazione e sa che anche quello è colpa sua. Stringe i pugni cercando di non urlare e si rialza.
Una melodia lontana, quasi impercettibile lo desta dai suoi pensieri. Si alza di scatto e inizia a correre. Prega che sia lei. La sabbia lo rallenta. Cade molte volte. E altrettante si rialza. Sempre più determinato. Corre verso quella voce. È lei. Ne è sicuro.
 
 
Molte volte in quegli interminabili giorni si è chiesta cosa fosse quel posto. Tutto è bianco, ghiacciato, freddo e vuoto. Forse è ciò che c’è dopo la morte. Forse è il risultato di quell’egoistico desiderio. Forse è il luogo dove si trovano i kwami. Non conosce la risposta a questa domanda e nessuno è lì per rispondere alle sue domande.
Di nuovo piume blu. Stavolta intorno a loro. Qualcosa la blocca e non sente più il terreno sotto i piedi. Prova a liberarsi, ma non ha più forze. Passano diversi minuti. Le piume si diradano, lui è lì accanto a lei, ma non la guarda. Il suo sguardo è fisso in avanti, su suo padre. Odio e compassione si mescolano ai suoi lineamenti. Vorrebbe stargli vicino. Stringerlo. Essere certa che affronteranno insieme tutto quello che verrà dopo. Si tende verso di lui. Cerca di avvicinarsi con ogni fibra dal suo corpo. Ma è inutile. Lui è lontano. Irraggiungibile per lei come è sempre stato. Alla fine, si arrende, rivolge lo sguardo all’uomo davanti a lei. In mano stringe l’anello e gli orecchini. Guarda suo figlio. Esita. Poi li alza al cielo e pronuncia poche parole. Un solo desiderio. La teca accanto a lui viene inondata di luce e in mezzo a quel bagliore si mostra una figura umana. Lui piange, corre da lei, la abbraccia. Ma ogni cosa inizia a sbiadire. La testa diventa pesante, il corpo leggero. Chiude gli occhi. Li riapre e davanti a lei vede solo una landa ghiacciata.
Continua a cantare e camminare. Ma qualcosa sembra diverso. Un rumore lontano. Una voce forse. Alla sua destra. Si volta. Inizia a correre. Scivola sul ghiaccio. Ma si rialza. Corre finché il canto non esce solo a rantoli dalla sua bocca. Ma non si ferma. Sente la voce sempre più vicina. Sente il suo nome. E finalmente vede una figura lontana correrle incontro. Raccoglie le ultime energie. In un ultimo scatto colma la distanza che li separa. E lo abbraccia.
Il calore del suo corpo. La pelle morbida. Le braccia forti che la stringono. La sua voce che continua a ripete il suo nome. Null’altro ha più importanza. Né il mondo attorno a lei che si è improvvisamente illuminato. Né la sua voce che ha smesso di cantare. Tutto ciò che le serviva era lì, tra le sue braccia.
Si separano. Le mani ancora strette le une nelle altre. Si guardano. Sorridono. Tutto andrà bene.
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Avevo iniziato a scrivere questa one-shot mesi fa dopo aver visto il video di Lindsey Stirling "I wonder as I wander" e l'avevo poi abbandanata, ma dopo aver visto "Chat Blanc" ho avuto un guizzo di creatività e l'ho conclusa. Spero non vi annoi troppo visto che si parla quasi soltanto di sentimenti tristi. 
   
 
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