Giocare con il Fuoco
Restarono chiusi nel bar tutta la sera.
Sansa era terrorizzata all’idea di tornare a casa e persino di andare a dormire
da qualche amica.
«Hanno i
miei contatti… i messaggi, tutto. Potrebbero trovarmi ovunque.»
Sandor
capì che il luogo più sicuro per lei poteva essere soltanto il suo bar. Nessuno
si sarebbe aspettato di trovarla ancora lì dentro, sola con lui. E poi c’era
sempre il suo posto segreto… e in caso di problemi avrebbe potuto nasconderla
lì.
«Cosa
possiamo fare?» domandò Sansa, mentre lui si riempiva un bicchiere di vino. «Forse
dovrei andarmene… Tornare nel nord.»
«Perché
non lo fai?»
«Lasciare
tutto? Sto ancora studiando. I miei amici sono qui. E prima di oggi non ho mai
preso in considerazione l’idea di tornare a casa.»
Sandor portò
due bicchieri e una bottiglia superstite di vino, zoppicando fino al tavolo
dov’era seduta Sansa. Lei posò gli occhi sulla sua gamba.
«Dovresti
andare in ospedale.»
«Per dire
cosa? Che mi sono ferito a una gamba mentre affettavo un limone?» Rise e la sua
risata sembrò ferro che strideva. «Tywin Lannister è primario. Saprebbero
subito dove sono. No, preferisco rimettermi da solo. Non mi fido degli
infermieri.»
Versò da
bere a Sansa, e stavolta lei lo prese senza fare obiezioni, bevendone una lunga
sorsata.
«Non avrai
paura degli aghi?»
Solo del
fuoco, da quando faccio quei sogni.
«I fottuti
aghi non mi spaventano.»
«Allora,
se ne hai, dovremmo provare a ricucirti.»
«È il vino
a parlare per te, uccelletto.»
Vide che
aveva il bicchiere quasi vuoto, e una strana luce negli occhi. L’alcol rendeva
coraggiosi, pensò. O stupidi.
«Non
abbiamo dato nemmeno un’occhiata alla ferita alla gamba» proseguì Sansa.
«Dovremmo almeno…»
«Ho
controllato io. E la ferita resta così.»
Sansa
sembrò farsi improvvisamente lucida. «Hai paura di me.»
«Non dire
cazzate.»
Poi lei
abbassò gli occhi sulla bottiglia, la prese e si versò da bere. Lo guardò un
momento, soffermandosi sul suo viso, e quello che vide la spinse a riempirgli
il bicchiere fino all’orlo.
«Grazie
per avermi lasciato stare qui.»
Sandor non
rispose. Cosa poteva dirle? Dei suoi sogni? Della prima volta che l’aveva
vista? Dell’idea di fuggire insieme?
No.
Ingollò
l’intero bicchiere di vino e se ne versò un altro.
«Sei stato
coraggioso ad affrontare Joffrey.»
Lui rise,
una risata cattiva. «Coraggioso? Joffrey è uno scarafaggio. I cani nemmeno si
sprecano a ucciderli, gli scarafaggi.»
«Perché
devi essere sempre tanto odioso?» Sansa incrociò le braccia al petto. «E poi
perché ti consideri un cane? E perché mi chiami sempre uccelletto? Dimmelo.»
«Preferisci
che ti chiami ragazzina?»
«Preferisco
Sansa.»
Si
guardarono. Sandor sentì un brivido di terrore riconoscendo quello sguardo: era
lo stesso che Sansa aveva nei suoi sogni. E se il solo vederla seduta lontano
da lui era sufficiente per sognarla, cosa sarebbe successo quella notte?
Sarebbe riuscito ad aprire quella porta? L’avrebbe trovata? L’avrebbe presa?
Sansa
allungò una mano sul tavolo e la posò sulla sua. Abbassò la voce. «Dimmi
perché. Ti prego.»
Lui non
riuscì a frenare le parole. «Ho fatto un sogno.» La vide sgranare gli occhi, ma
la mano rimase sopra la sua. «E nel sogno ti chiamavo così.»
«Cosa
succedeva nel sogno?»
«Oh, non
fare quella faccia, uccelletto! Niente di quello che pensi.» Voltò la mano,
palmo contro palmo. Per un istante credette che Sansa avrebbe ritirato di corsa
la sua, ma non lo fece. «Era come un corteo in costume. Eravamo tutti vestiti
strani.»
«Tutti?»
Sansa sembrava aver capito, glielo leggeva negli occhi. «Tutti chi?»
Sandor non
riusciva a smettere di guardarla.
«Tutti
quelli che erano qui stasera.»
Sansa
scostò indietro la sedia, perdendo il contatto con lui. Aveva la stessa
espressione di animale in fuga che le aveva visto un paio di notti prima.
«Era solo
un sogno, uccellino.»
«Perché la
gente ti chiama Mastino?»
«Secondo
te perché?»
Sansa posò
gli occhi sul lato del viso dove aveva la cicatrice, ma non disse nulla.
«Per
questa?» Lui non aveva più voglia di giocare. «Non riuscivi nemmeno a
guardarla, prima.»
La vide
abbassare lo sguardo, torturarsi le mani.
«No, non è
per questa. È per quegli stramaledetti sogni. Una notte ho lasciato che un
tizio ubriaco dormisse qui. E al mattino ha detto a tutti che continuavo a
ripetere quella parola. Mastino.»
«Cosa
succedeva in quei sogni?»
Lui
afferrò la bottiglia quasi vuota e se la portò alle labbra. Afferrò il tappo
con i denti e lo sputò lontano.
«Bevevo.»
Sansa si
appoggiò al tavolo, posando la testa sulle braccia incrociate. Non la smetteva
di fissarlo.
«Io cosa
facevo nel tuo sogno? A parte camminare con abiti ridicoli.»
«Non stavi
mai zitta, come adesso.»
Sansa gli
lanciò un’occhiata offesa e voltò la testa dall’altra parte. Lo lasciò a
contemplare i suoi capelli rossi che le accarezzavano la schiena e le braccia,
fino a sfiorarle le gambe fasciate nei jeans.
Era così
tentato di toccarli che allungò una mano per farlo, ma lei si girò di nuovo
verso di lui. Osservò le sue dita stese sul tavolo e si tirò su.
«Che stai
facendo?»
«Niente,
ragazzina. Che cosa dovrei fare?»
Sansa non
rispose. Lasciò vagare le mani sul tavolo come su un pianoforte, fermandole
accanto alla sua.
«Starò
zitta se mi racconterai i tuoi sogni.»
«Perché ti
interessa?»
Sansa
scrollò le spalle. «Non mi sembra ci sia molto altro da fare.»
Lui sapeva
cosa rispondere, ma non lo fece.
«Nei tuoi
sogni…» continuò Sansa, vedendo che lui non diceva niente, «dove sei?»
«Che cazzo
ne so di dove sono?»
«Sei qui?
Sei in qualche città, qualche posto che conosci?»
Lui fece
cenno di no con la testa. La vide chinarsi in avanti.
«C’è un
bosco. E un castello. E a volte le strade di una città, ma è tutto di pietra.»
«E io dove
sono? In quale di questi posti?»
Sandor la
guardò dritto negli occhi. «In tutti.»
La vide
deglutire. Riconobbe il tremito delle palpebre e osservò la bocca schiudersi.
Non l’aveva mai vista così tesa. Lui non si era mai sentito così teso.
«Quanti
sogni hai fatto su di me?» la udì sussurrare.
«Tutti.»
Aveva bisogno di altro vino, ma non voleva alzarsi. Era ipnotizzato dalle mani
di lei, così vicine alla sua. Strinse il pugno per impedirsi di toccarla. «Sei
in ogni fottuto sogno in costume.»
Tranne
l’ultimo, pensò. Lì ti
stavo cercando.
Le dita di
Sansa scivolarono accanto alla sua. Sandor sentì il contatto freddo con la sua
pelle.
«Da quanto
tempo va avanti?» Lei si piegò verso di lui. «Da quanto tempo fai questi
sogni?»
Lui
deglutì. Non voleva rispondere.
«Da quando
ti ho vista la prima volta. Eri ferma davanti a quella vetrina, e sbirciavi
all’interno.»
Il mignolo
di Sansa si infilò sotto la sua mano. Sandor sentì l’unghia contro il palmo.
«Perché
non me l’hai detto?»
Non sapeva
cosa dire. Era così logico il perché non l’avesse fatto… Sospettava che la
domanda di Sansa fosse solo un tentativo di non perdere quel momento.
E quando
lei prese a disegnare dei cerchi sul suo palmo, lui non poté più tacere.
«Stai
giocando con il fuoco, ragazzina.»
«Forse è
quello che voglio» mormorò, ma aveva le lacrime agli occhi.
Sandor
avrebbe tanto voluto ignorare quello che vedeva e abbandonarsi a quella frase. Crederle.
Pensare che fosse qualcosa di più della paura a spingerla tra le sue braccia.
Ma non poteva farlo. Non dopo essersi guardato ogni mattina allo specchio dopo
l’incidente.
«È l’alcol
a parlare» disse, aspro. Poi si alzò in piedi e le indicò la porta che dava sul
retro. «Va’ a dormire, uccelletto. Domani andrà meglio.»
Sansa
lasciò la sedia e scoppiò a piangere.
Non lo
seguì, né si mosse.
«Avanti, è
solo che hai bevuto troppo. Va’.»
«N-no…»
Scosse la testa singhiozzando più forte. «Non è il vino… È che non posso più
tornare a casa. Né qui, né al nord. Non ho più nessuno!»
Sandor la
guardò inginocchiarsi a terra, poi la prese tra le braccia.
«Basta,
uccelletto. Si risolverà tutto, vedrai.»
Sentì le
sue braccia intorno, una mano sulla spalla e l’altra sulla schiena, il suo viso
nell’incavo del collo. Odorava di sapone e magnolia, e il suo corpo era
bollente, come se avesse la febbre. Si chiese se fosse colpa del vino. Poi
Sansa smise di piangere.
Era
leggerissima, ma con la gamba conciata in quel modo aveva l’idea di portare un
peso enorme. Aprì la porta socchiusa con una spallata, posando Sansa sulla
brandina dove aveva dormito tutte quelle notti.
Chi
l’avrebbe mai detto che l’avrebbe avuta lì, nel suo letto?
Fece per
tirarsi su, ma Sansa continuava a stringerlo.
«Aspetta»
continuava a ripetere. «Aspetta, ti prego.»
«Lasciami,
uccellino» mormorò piano.
Lei
abbandonò la sua schiena per deporre le mani sul suo viso. Lo guardava negli
occhi, vicinissimo, e forse era tutta quell’oscurità a non farle battere mai le
palpebre. Posò le labbra sulle sue, e Sandor non riuscì a tirarsi indietro.
«Ti prego»
la udì sussurrare.
«No.» Le
afferrò i polsi e se li allontanò dal viso. «Non adesso. Non così.»
«Perché?»
«Ti
odieresti domani» disse. «E odieresti me ancora di più.»
«Non è
vero.»
«Lo dici
adesso.»
La aiutò a
stendersi, poi le tolse le scarpe. Avrebbe voluto mordersi la lingua piuttosto
che continuare a parlare, ma non riuscì a frenarsi.
«Se domani
la penserai ancora così, allora ne riparleremo.»
N.d.A.:
Scusate il ritardo! Il prossimo
capitolo (l’ultimo) arriverà la prossima settimana.
Il finale di questo è ispirato a un’altra
mia storia: “Domani”, nel fandom di Lady Oscar.
Grazie a chi continua a seguire e a
lasciarmi un parere!
Celtica