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Autore: Adeia Di Elferas    16/11/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Ho detto che intendo controllare di nuovo i lavori a Porta Bologna e...” la voce di Ottaviano era acuta e rasentava l'isterismo.

Il Governatore Corradini, che aveva cercato di convincerlo a prepararsi per rientrare a Forlì, agitò le mani, per farlo tacere: “Avete già controllato i lavori alle porte per cinque volte! Le murature sono quasi ultimate, non c'è bisogno che andiate di nuovo a vedere!”

“E allora controllerò ancora le migliorie che Naldi sta facendo alla rocca...” provò il Riario, aggrappandosi disperatamente a tutto ciò che poteva ritardare la sua partenza.

“Perché avete così paura di tornare a Forlì?” chiese a quel punto il Governatore, stringendosi un po' nelle spalle, mentre fuori dalla finestra la pioggia cadeva pesante e gelida.

Il figlio della Tigre deglutì. Avrebbe voluto poter dire a qualcuno come si sentiva, ma non era semplice nemmeno per lui capirlo. Innanzi tutto temeva che sua madre non fosse ancora rientrata, e, di conseguenza, che per qualche motivo gli toccasse occuparsi degli affari di Stato, perché era logico pensare che suo fratello, ancora così giovane e inesperto della vita, fosse in seria difficoltà.

Se, in caso contrario, sua madre fosse già rientrata, aveva paura del suo giudizio riguardo la scarsa capacità che aveva dimostrato nell'esporre i suoi ordini. La questione ancora pendente dello scambio di concessioni – far tornare i fuoriusciti, piuttosto che non reintrodurre certe tasse – di certo non sarebbe stata digerita bene dalla Contessa.

“Ho detto che voglio ricontrollare ancora i lavori, non che ho paura di tornare a casa.” fece il Riario, sforzandosi di apparire sicuro di sé: “Sta arrivando una guerra e... E dobbiamo essere certi che sia tutto a posto.”

Corradini, abbandonandosi contro lo schienale della poltrona che un tempo era stata anche di Tommaso Feo, sospirò e borbottò: “Se ci tenete così tanto a stare sotto la pioggia a guardare dei manovali mettere in posa una pietra dopo l'altra, fate pure...”

Ottaviano si morse le labbra e poi, rabbrividendo all'idea di passare un'altra giornata all'aperto e preda delle intemperie, mentì: “Non desidero altro.” e poi, desideroso di sottrarsi allo sguardo di pena che l'uomo gli stava dedicando, lasciò la stanza e uscì dal palazzo del Governatore, maledicendo la sorte malevola che aveva voluto farlo nascere figlio di un Conte e di una Tigre.

 

Caterina stringeva gli occhi sotto la pioggia. La sera era scesa su di lei da qualche ora e ormai era notte fonda, ma aveva deciso di non fermarsi più.

Aveva cominciato a riconoscere meglio i villaggi e le campagne che attraversava e sapeva di essere ormai all'interno del suo Stato. Voleva solo arrivare alla rocca il prima possibile. Era stanca, abbattuta e infreddolita. Gli abiti che portava addosso erano così fradici di pioggia da darle l'impressione che l'umidità di quella lunga giornata le arrivasse fin nelle ossa.

Il suo stallone nero avanzava ancora abbastanza spedito, ma la donna cominciava a temere per la sua salute. L'aveva scelto come compagno di viaggio senza pensarci un secondo, ma forse non avrebbe dovuto mettere così a repentaglio la vita dell'animale che le era più caro.

Di quando in quando gli dava qualche colpetto nel collo, dicendogli qualche parola di incoraggiamento nell'orecchio e lui, a volte con un breve nitrito, a volte accelerando il passo, sembrava quasi capire perfettamente ciò che gli veniva sussurrato, anzi, era come se si sentisse orgoglioso dell'affetto che la sua padrona gli accordava.

Durante quel viaggio solitario, la Leonessa aveva avuto modo di riflettere su quanto successo a Firenze e aveva già preso delle decisioni drastiche, ma che riteneva indispensabili. Capire di essere davvero sola contro i francesi, paradossalmente, le stava dando una forza che fino a quel momento le era mancata. Ormai non si trattava più di giocare sul filo del rasoio, ma di colpire con tutta la forza di cui si era capaci, e così avrebbe fatto.

Aveva la schiena a pezzi, e le faceva male la testa. Da quando era ripartita quella mattina, non aveva mai fatto una sosta degna di tal nome. Si era fermata solo qualche volta per far riposare il purosangue e lasciarlo bere in qualche rigagnolo, ma per il resto la voglia di tornare a casa prevaleva su tutto il resto.

Voleva vedere suo figlio Giovannino, annusare l'odore dolce della sua pelle da bambino e abbracciarlo. Voleva incontrare Galeazzo e scoprire come si era comportato mentre lei non c'era, sicura che sarebbe stato una conferma e non una delusione. Voleva stringere a sé Bianca e riempirla di consigli, nella speranza che potesse farne tesoro e vivere una vita migliore di quella che era toccata a lei.

E poi avrebbe voluto anche poter avvicinare Bernardino senza perdere la pazienza e senza sentire di nuovo il petto lacerarsi ogni volta che incrociava il suo sguardo e vi rivedeva quello giovane e limpido di Giacomo.

Poi pensò a Sforzino, alla poca confidenza che c'era sempre stata tra loro e all'apparente impossibilità di entrambi a creare un ponte tra loro. Gli voleva bene, ma era sempre un passo indietro agli altri, sullo sfondo.

Infine, proprio mentre il suo cavallo scartava di lato per evitare una buca piena d'acqua, Caterina rivide davanti a sé Cesare e Ottaviano. Il primo era a Pisa, non c'era pericolo di incontrarlo, nel rientrare a Forlì. Mentre il secondo... Anche se l'aveva mandato a Imola, quando era partita, probabilmente l'avrebbe incontrato a breve. In fondo il suo primogenito aveva un compito molto semplice e veloce da svolgere, era plausibile che non si fosse fermato per più di un giorno.

Quella prospettiva le diede un vago senso di nausea. Non aveva alcuna voglia di rivedere Ottaviano. La sua figura, così simile a quella di Girolamo, e la colpa che portava con sé la disgustavano. Avrebbe voluto poter passare sopra a tutto, specie in quel momento, sapendo che presto avrebbero dovuto separarsi per sempre. Però non ci riusciva. Anzi, nel caso di Ottaviano, l'idea di non rivederlo mai più era per lei quasi un sollievo.

“Siamo a casa...” disse all'improvviso, scorgendo in lontananza, tra la pioggia e l'oscurità della notte, il profilo delle mura di Forlì.

Come se avesse capito, il cavallo batté con più forza gli zoccoli sul terreno fangoso e scivoloso e, scuotendo il muso, avanzò con più decisione, come se anche lui non vedesse l'ora di tornare nella sua stalla.

 

Era notte fonde ormai, ma nel salone del palazzo dei Bentivoglio ancora si discuteva. La lettera del re di Francia, arrivata a Giovanni quel pomeriggio, aveva acceso un dibattito che non accennava per nessun motivo a spegnersi.

Però, se all'inizio erano stati coinvolti anche Capitani e membri del governo, ormai attorno al tavolo restavano solo il signore di Bologna e i suoi tre figli: Annibale, Alessandro ed Ermes.

Il primo, contrariamente a come avrebbe fatto solo qualche mese prima, si esprimeva cautamente, non volendo aizzare troppo il padre ad agire subito militarmente. Alessandro, invece, si era dichiarato fin dal principio incline a una sorta di neutralità. Sarebbe stata una condizione molto difficile da mantenere, ma la più saggia. Solo Ermes pareva completamente d'accordo con il padre.

Dopo un momento di silenzio che si era protratto più del necessario, Giovanni, passandosi il calice di vino da una mano all'altra, osservò tutti i figli, uno per uno, squadrandoli alla luce delle candele, e poi disse: “Quello che il re ha scritto è molto grave e non possiamo restare impassibili.”

Quella era una stoccata chiaramente riferita ad Alessandro che, infatti, abbassò subito lo sguardo, le mani incrociate sopra al tavolo.

“Re Luigi ha scritto a me e ai nostri consoli per farci sapere che sta mandando il figlio del papa a riconquistare le terre della Chiesa e assalire le rocche di Imola e Forlì – proseguì il cinquantaseienne, sperando di convincere definitivamente anche i due figli più vecchi, in modo da avere il loro appoggio e non rischiare di trovarsi delle brutte sorprese – e che la sua ira e le sue accuse sono principalmente contro la Tigre di Forlì, perché non ha versato i canoni alla Camera Apostolica per ben tre anni.”

“E ha ragione da vendere...” borbottò Ermes, il figlio più giovane, grattandosi divertito il mento sfuggente: “Quella cagna dovrebbe finire infilzata su una picca. Se potessi andare io a Forlì, vedreste cosa le farei, prima di ammazzarla...”

Il ghigno perfido che aveva distorto i lineamenti del ventitreenne fece rabbrividire tutti i presenti, Giovanni compreso.

“Sei appena stato in pellegrinaggio a Santiago de Compostela – gli ricordò Alessandro, con freddezza – sei tornato da nemmeno due mesi e già parli di trucidare una donna...”

“Solo dopo aver fatto con lei ciò che mi pare.” precisò il giovane dalla pelle pallidissima, puntando gli occhi tondi e chiarissimi verso quelli più caldi del fratello.

Anche Annibale, che pure era sempre stato molto indulgente con il minore, anche quando l'aveva visto uccidere senza motivo il suo cane da caccia preferito, perfino quando aveva saputo cosa aveva fatto alla prima donna che aveva avuto la sfortuna di incontrarlo in una strada di notte, sentì lo stomaco chiudersi nell'immaginare che cosa avrebbe potuto fare Ermes, se avesse davvero avuto l'opportunità di trovarsi faccia a faccia con la Leonessa di Romagna.

“Non siamo qui a discutere di queste cose.” lo riprese il padre, scuro in viso, cercando di non pensare alle deviazioni mentali del suo ultimo maschio: “Dobbiamo decidere che cosa fare.”

“Il papa non ci nomina, né lo fa il re di Francia...” disse, con attenzione, Annibale: “Io direi che quello che ha proposto Alessandro potrebbe essere una buona via di mezzo.”

“Lasciarli passare senza dichiarare apertamente il nostro appoggio?” chiese il signore di Bologna, sorpreso nel vedere il figlio maggiore così guardingo.

“Secondo me è la cosa più sensata – convenne subito Alessandro – anche il re, con questa lettera, ci fa capire che non ha intenzione di aggredirci. Ma nemmeno di favorirci in qualche modo. Lasciamo che passino, ma senza mostrarci entusiasti...”

“Che bambino che sei!” sbottò Ermes, con una risata grottesca: “Parli così solo perché tua moglie è una Sforza e hai avuto la pessima idea di metterla incinta proprio adesso!”

Alessandro sentì il collo scaldarsi e, punto laddove faceva più male, si alzò di scatto, facendo grattare la sedia in terra, e sollevò una mano stretta a pugno, come se volesse colpire Ermes. Questi, palesemente divertito, scoppiò a ridere e, fissandolo impunemente, lo incitò a colpirlo.

“Smettetela!” urlò allora Giovanni, picchiando le mani sul tavolo: “Faremo come decido io e basta!”

Annibale, cercando di arginare la situazione, incrociò lo sguardo di Alessandro, invitandolo silenziosamente a tornare a sedersi. Il fratello di rado si dimostrava incline ad alzare le mani, specie in famiglia, ma Ermes sapeva mettere a dura prova anche i nervi più saldi. Era da quando si erano seduti attorno a quel tavolo che, a intervalli regolari, aveva continuato a prendere in giro Alessandro, arrivando, un paio di volte, anche a minacciarlo in modo sottile, dichiarando di aver trovato Ippolita una donna molto attraente, per quanto troppo riottosa.

“Tu!” fece il signore di Bologna, indicando proprio Annibale: “Andrai incontro al Valentino all'osteria di Quacquarello. So che passerà di là, quando scenderà in Romagna. Ti dichiarerai suo amico e sottolineerai la nostra disponibilità.”

Il trentenne lo guardò per un po', ma poi, scostandosi una ciocca di capelli scuri, lunghi fino alle spalle, annuì e non disse nulla, stringendo appena le labbra, rendendo ancora più evidente la profonda fossetta che campeggiava in mezzo al suo mento.

“Tu te ne starai con tua moglie. Meno gente si ricorderà di lei e meglio sarà per tutti. Grazie al cielo almeno vostro figlio avrà il nostro cognome... Alla fine tutti si dimenticheranno che Ippolita è una Sforza.” proseguì Giovanni, rivolgendosi ad Alessandro.

“Poi, se dovesse morire di parto – si intromise Ermes, con una risata beffarda – ce ne dimenticheremmo ancora più in fretta.”

Alessandro, seppur con immensa fatica, finse di non sentire, aspettando che il padre desse qualche ordine anche al fratello minore.

Il Bentivoglio puntò gli occhi grevi sul figlio più giovane e poi, con una smorfia che non riuscì a dissimulare, gli disse solo: “Tu resti a Bologna, e cerca di non fare danni.”

“Ma voglio combattere! Fatemi arruolare con il figlio del papa!” protestò il giovane.

“Tu farai quello che ti dico.” rimarcò il padre: “E ricordati – gli intimò – che anche tua madre è una Sforza.”

Ermes, che fin da piccolo aveva temuto sempre e solo Ginevra Sforza, per la quale nutriva un'autentica adorazione, che spesso sconfinava in una cieca e timorata idolatria, chinò il capo, incapace di ribattere oltre, tutta l'ilarità di poco prima completamente svanita.

“Ora che abbiamo deciso come muoverci – concluse Giovanni – è meglio andare a riposare. Tra poco sarà mattina e non mi servono tre figli istupiditi dal sonno.”

Come un sol uomo, i quattro Bentivoglio lasciarono la tavolata e si avviarono, in silenzio, ciascuno preso dai propri pensieri, ai rispettivi alloggi.

Quando Alessandro arrivò in camera, Ippolita, che l'aveva aspettato sveglio, gli chiese subito cosa avessero deciso.

“Li lasceremo passare.” rispose lui, sedendosi sul letto e iniziando a svestirsi, abbattuto: “E mio fratello Annibale incontrerà il Borja prima che arrivi da tua zia, per ricordargli che noi gli siamo stati amici.”

La diciottenne fece un respiro profondo. Stava pensando al figlio che ormai era certa di portare in grembo. Forse, si disse, un'altra donna si sarebbe portata le mani al ventre, con fare protettivo, ma per lei non era ancora un gesto naturale.

Le venne molto più spontaneo mettersi davanti a suo marito, posargli il palmo sulla guancia e guardarlo dritto negli occhi: “Ce la caveremo.”

“Ma la Tigre di Forlì è tua zia. E noi stiamo prendendo parte a una guerra contro di lei.” le ricordò Alessandro, che trovava quella situazione insopportabile.

“L'importante è che non ci dividano.” disse piano lei, seppur con un velo di tristezza: “Tutto il resto, ormai, per me conta poco.”

“Verrà il giorno in cui sarò in grado di riconquistare Casteggio per te e per nostro figlio.” promise Alessandro.

“Un giorno, riconquisteremo insieme la mia terra – lo corresse lei – per i nostri figli.”

Il ventitreenne scambiò uno sguardo d'intesa con la moglie e, mentre lei iniziava a baciarlo, riuscì a dire: “Quindi ne vorrai altri, dopo questo?”

Ippolita gli sorrise, sedendosi sulle sue gambe e tentandolo sempre più apertamente: “Se vogliamo avere di nuovo il potere e uno Stato forte, dobbiamo farci una grande famiglia...”

Il Bentivoglio ricambiò il sorriso, sollevato dal modo in cui la sua donna sembrava aver preso le decisioni del suocero, e annuì: “Per me non c'è problema.” e seguì i suoi baci, accettando con riconoscenza il calore che Sforza gli stava dando, sciogliendosi tra le sue braccia, facendolo sentire l'uomo più fortunato sulla faccia della terra.

 

A Caterina era bastato mostrare appena il viso alle guardie che stavano alla porta cittadina e queste l'avevano subito riconosciuta e lasciata entrare. Le strade di Forlì, invase dalla pioggia e dal silenzio non erano mai sembrate così belle alla Tigre che, nell'attraversarle, diretta alla rocca, sentiva per la prima volta un profondo senso di sconforto al pensiero che a breve, all'arrivo dei francesi, quelle stesse vie sarebbe state preda della confusione e della paura.

Il suo stallone stava cominciando a dare segni inequivocabili di stanchezza e così la donna non lo forzò oltre. Smontò di sella e, conducendolo a mano, gli permise di andare verso Ravaldino con passo lento e cadenzato. Passarono sotto la statua di Giacomo Feo e la Contessa non sollevò lo sguardo.

Entrò alla rocca alla chetichella. Non voleva dar risalto al suo ritorno, non per il momento. I soldati che la lasciarono passare la squadrarono per un po', come a chiedersi dove potesse essere stata in quei giorni, ma nessuno ebbe il coraggio di farle domande.

La Leonessa portò il cavallo nella stalla, svegliò lo stalliere che era di turno quella notte, e gli ordinò di sistemare il cavallo al meglio, di asciugarlo, e di rifocillarlo. Poi andò nella sala della armi, dove ripose la spada che aveva portato con sé e, infine, salì al piano di sopra, diretta alla camera di Giovannino.

Anche se era fradicia di pioggia e non desiderava altro che cambiarsi e mettersi davanti a un camino acceso, non poteva resistere alla voglia di rivedere il suo figlio più piccolo. Aprì la porta della stanza con lentezza, temendo di svegliarlo, ma le fu subito chiaro che tutta quell'attenzione era inutile.

Giovannino, il viso rosso e gli occhi ancora umidi per le ultime lacrime, si divincolava tra le braccia di Bianca che, visibilmente assonnata, mormorava qualche parola nella speranza di placare il fratellino.

Il piccolo, nel momento stesso in cui aveva sentito aprire la porta, aveva voltato gli occhietti allungati verso la fonte di quel suono cigolante e, anche nella penombra, aveva subito riconosciuto la madre.

La Sforza, togliendosi finalmente il cappuccio, si mosse in fretta verso il bambino che, disperato, tendeva le braccia verso di lei. Bianca, che era rimasta molto sorpresa nel trovarsi davanti la madre così all'improvviso, si sentì molto sollevata e lasciò immediatamente il fratellino.

“Per fortuna siete arrivata...” soffiò la Riario, mentre il piccolo Medici si aggrappava con tutte le sue forze alla Tigre, il respiro ancora un po' rotto dal pianto recente: “Non riuscivamo a farlo dormire in nessun modo... Sono ore che vi cerca e...”

“Adesso sono qui.” sussurrò la Leonessa, stringendo a sé il piccolo che, finalmente, cominciava a rilassarsi.

Sapeva che tenerselo premuto addosso non era una bella idea, dato che i suoi abiti erano bagnati, ma il calore che stava traendo dal suo ultimogenito e la pace che lui stava recuperando grazie alla sua vicinanza valevano bene il rischio di un raffreddore.

“Si era accorto che non c'ero.” constatò piano Caterina, accarezzando i corti riccioli castani del figlio.

“Sì. All'inizio era solo un po' irrequieto, ma è da questo pomeriggio che non riusciva proprio a calmarsi... Se non foste arrivata, non so come avremmo fatto.” spiegò la ragazza, con un breve sorriso: “E anche io sono felice che siate tornata sana e salva.”

La Contessa diede un bacio in fronte a Giovannino che, stremato e felice, si stava assopendo: “E non mi chiedi dove sono stata o che cosa è successo?” domandò, rivolgendosi alla Riario.

Questa, deglutendo annuì: “Vorrei, ma so che è meglio aspettare che siate voi a parlare di certe cose.”

La Tigre strinse le labbra e poi convenne: “Sono stata a Firenze. Ho parlato alla Signoria.”

“E..?” provò a incalzarla Bianca, mentre i suoi dubbi venivano confermati e si consolidava la paura che da quel viaggio improvviso nascesse una nuova urgenza ad andarsene.

“E siamo soli. Firenze non ci aiuterà.” fece la donna, appena udibile, mentre si riavvicinava al lettuccio del bambino: “Dobbiamo fare come se nessuno fosse dalla nostra parte. Dobbiamo ragionare come se il mondo avesse mosso guerra a noi e a noi soli.”

La diciottenne abbassò gli occhi blu scuro e si tormentò per un po' una mano con l'altra, per poi chiedere: “Io e i miei fratelli scapperemo sempre a Firenze o avete cambiato progetto, per noi?”

“Firenze, per voi, è un posto sicuro. Forse lo sarebbe perfino per me.” soppesò la Contessa, appoggiando con delicatezza Giovannino sul materasso, cercando in ogni modo di non farlo svegliare: “Ma da quella città non arriverà nemmeno una picca in nostra soccorso.”

“Siete stata sulla tomba di messer Medici?” domandò a quel punto la Riario, capendo che, almeno per quanto la riguardava, i piani non erano cambiati.

Caterina ebbe un momento di esitazione e poi, sfiorando con la punta delle dita la fronte del suo ultimogenito, bisbigliò: “Non ne ho avuto il tempo.”

Bianca non avrebbe voluto giudicarla con troppa durezza, ma le sembrava impossibile che, dopo un viaggio durato giorni, arrivata a Firenze, sua madre davvero non avesse trovato il tempo di recarsi qualche minuto sulla tomba di un uomo che diceva di aver amato.

“Galeazzo come si è comportato? C'è stato qualche problema?” chiese la Leonessa, avviandosi verso la porta e facendosi seguire dalla figlia.

“Non è successo nulla di importante.” riassunse la ragazza: “Ma di certo Galeazzo sarà felice di parlarvene di persona.”

La Sforza si disse d'accordo e poi, appena in corridoio, pregò la figlia di cercare la balia, in modo che stesse con Giovannino, e di non dire a nessuno, per il momento, che era tornata. Voleva stare qualche ora, almeno fino all'alba, da sola e riposare, pensando a quello che avrebbe dovuto affrontare il mattino seguente.

La Riario disse che avrebbe fatto come le era stato chiesto, ma, prima di andarsene, si bloccò per un momento.

“Che c'è?” le chiese la madre.

“Sono davvero felice del vostro ritorno. Non era una frase di convenienza.” ci tenne a far notare la giovane.

Caterina si accigliò: “Lo so.”

Prima che potesse capire che cosa Bianca stava per fare, la figlia l'abbracciò, in fretta, fugacemente, come se temesse di essere scansata in malo modo e poi, con un sorriso, le augurò una buonanotte e finalmente se ne andò.

Più felice di quanto avesse potuto credere di essere a casa, la Contessa andò verso la propria camera. Era fredda e buia. Perse qualche minuto ad accendere delle candele e il camino e poi cominciò finalmente a levarsi di dosso gli abiti ancora bagnati di pioggia.

Era già in abiti da camera, asciutti e puliti, e si era messa seduta alla scrivania per prendere una generosa dose della sua pozione contro le gravidanze indesiderate, nella speranza di rimediare in qualche modo al fatto che durante il suo viaggio a Firenze le era stato impossibile assumerla, quando la porta si spalancò.

Giovanni da Casale, un'espressione dura dipinta in volto e ancora addosso gli abiti da soldato della giornata, la fissò senza dire nulla per almeno cinque minuti.

“Che ci fai qui?” chiese Caterina, che pur non era rimasta indifferente a una simile visione, benché cercasse di dissimulare concentrandosi sul piccolo calice che teneva in mano.

“Mi hanno detto che sei tornata.” spiegò lui, pleonastico.

“Chi te l'ha detto?” indagò lei, tesa.

“Il castellano.” rispose lui, senza pensarci un momento.

La Leonessa fece una strana smorfia, ma non lasciò trasparire in nessun altro modo una sua reazione.

L'uomo la stava guardando con attenzione, ma solo in quel momento si accorse dell'intruglio che si stava portando alle labbra.

Apparendo improvvisamente molto nervoso, si chiuse la porta alle spalle e chiese, additando il bottiglino contenente la pozione: “Ne hai bisogno anche se sei stata via?”

La Tigre posò ancora una volta lo sguardo su di lui, rendendosi conto una volta di più di quanto fosse attraente e giovane. In quei giorni non ne aveva sentito troppo la mancanza, ma adesso che lo aveva a portata di mano, che poteva avvertirne il sentore e sentire il respiro, era difficile riuscire a ignorarlo.

“Ci sono uomini anche fuori da Forlì.” lo freddò, nella speranza di metterlo a tacere e, magari, di indurlo ad andarsene.

Avrebbe tanto voluto cedere subito e buttarsi tra le sue braccia, ma aveva bisogno di riposare e di riordinare lei idee. Passare quel che restava della notte con lui avrebbe solo complicato le cose, come sempre.

“E comunque – ci tenne ad aggiungere, più per amor di conoscenza che non per lenire la gelosia che stava corrodendo in modo visibile il suo amante – questa pozione fa effetto solo se viene presa prima, e non dopo.”

“Com'è andata a Firenze?” chiese l'uomo, decidendo che sarebbe stato comunque inutile cercare di capire se la sua donna l'avesse tradito mentre erano lontani.

“Non bene.” ammise lei: “Ma almeno adesso so che Vincenzo Colli aveva ragione.”

Pirovano si disse che, per il momento, anche quel discorso poteva dirsi chiuso. Non aveva voglia di parlare di politica. C'erano tante cose che doveva dire alla Sforza, doveva parlarle dell'insofferenza dimostrata dai soldati durante la sua assenza, dei dubbi che lo attanagliavano su cosa sarebbe successo, se lei fosse morta all'inizio dell'assedio e l'esercito, orbato della sua presenza, avesse smesso di essere quella macchina efficiente e perfetta che lei aveva costruito per anni...

Ma di fatto, quando la donna si alzò e gli passò accanto, diretta alla cassapanca per prendere chissà cosa, l'unico pensiero che attraversò la mente di Giovanni fu quello di posarle una mano sulla spalla e chiedere: “Sei stata con altri uomini, mentre eri via?”

“Lasciami.” ordinò lei, scrollandosi di dosso le dita forti del milanese.

Tuttavia, quando si voltò a guardarlo, invece di rimetterlo al suo posto con uno sguardo di fuoco, come aveva previsto, si trovò soggiogata dalla sua presenza e non resistette alla tentazione di toccarlo. Gli posò una mano sul petto e, con cautela, come se avesse paura di scottarsi, gli si avvicinò un po' di più, sfiorandogli le labbra con le proprie.

“Dovresti tornare alla cittadella.” gli disse: “Lo sai che non voglio che passi del tempo lontano, specie di notte... Devi aver sempre tutto sotto controllo.”

Senza nemmeno sentire ciò che la sua amante gli stava dicendo, Pirovano riprese a baciarla, con più voracità di quanta ne avesse messa lei, e in breve anche la Leonessa decise che era inutile cercare di nuotare controcorrente.

Cominciò a spogliarlo in fretta e con rabbia, mentre lui, vinto come non mai dalle spire della sua donna, la lasciava fare, indifeso e ubbidiente, ricambiando l'impegno di lei sollevandole le sottili sottane del suo abito da camera e portandola passo dopo passo verso il letto.

“Solo per questa volta.” l'ammonì lei, smettendo per un istante di baciarlo: “Da domani mattina ritornerai a fare tutto quello che ti ordino io, siamo intesi?”

Giovanni da Casale annuì, ma ormai non la stava più ascoltando, completamente perso nella sua carne e nel suo odore, di colpo disinteressato ai tradimenti di lei e alla sua natura sfuggente. Tutto ciò che gli importava era la belva che lo stringeva tra le cosce e gli toglieva il respiro. Ogni altra cosa, per lui, in quella notte di pioggia, valeva meno di un pettegolezzo da preti.

 

 
 
   
 
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