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Autore: EmsEms    18/11/2019    0 recensioni
I soldi erano sempre un problema. Gli sarebbe toccato strisciare da suo zio ad implorarlo di anticipargli trenta copeche, con la promessa che una volta pubblicata la sua prima raccolta si sarebbe sdebitato. Tuttavia tornare da suo zio per la seconda volta quel mese significava correre un grande rischio. Un fallimento dopo l'altro nel mondo della letteratura gli sarebbe valso un biglietto di ritorno per il suo paesino natale. Suo padre l'aveva avvertito. Con la poesia non ci si sfama, gli aveva detto. Avrebbe fatto meglio a laurearsi in medicina. Sarebbe tornato con un diploma in tasca e lo avrebbe preso come apprendista presso il suo studio. Non avrebbe visto un soldo finché non avesse abbandonato quel suo puerile capriccio letterario. Non un soldo!
Sua madre, fra un singhiozzo e l'altro, aveva pregato Fyodor di riguardarsi bene, di coprirsi in inverno, di bere quella schifezza di olio di pesce che suo padre gli rifilava durante i suoi attacchi. Alla stazione Fyodor aveva baciato la sorellina, una cosina minuscola avvolta nel mantello di pelliccia che puzzava di camino. La sorella maggiore lo aveva abbracciato, bagnandogli di lacrime la spalla. Suo padre si era rifiutato di unirsi al comitato
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa è una fanfiction un po’ particolare. Il protagonista è il mio OC, Fyodor. Su di lui non vi anticipo niente perché si trova tutto già all’interno della fic. Yevgeniy, invece, ha bisogno di una brevissima presentazione anche in nota: si tratta del fratello minore di Vasiliy, entrambi personaggi originali di Higgs.
 
La storia è ambientata a Pietroburgo a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento ed è completamente indipendente dal canon di Golden Kamui. L’unico personaggio canonico che fa la sua comparsa è Tsurumi, il quale lavorava sotto copertura in Russia proprio in questi anni. In sostanza, questa storia è più ispirata a Delitto e castigo che al manga di Noda Satoru, ed è di conseguenza apprezzabile anche senza aver letto Golden Kamui.   
 
 
***
 
 
Fyodor saltò in piedi appena sentì le scale scricchiolare sotto il peso di quello che sospettava essere il proprietario di casa. La sedia sul quale si era addormentato cadde con un tonfo sordo sul tappeto liso e rattoppato, dal quale si sollevò una nuvola di polvere. Che giorno era? Martedì? Giovedì? Doveva essere giovedì, sì, rimuginò Fyodor, mangiucchiandosi le unghie sporche d'inchiostro mentre i suoi occhi cercavano di difendersi dalle lame di luce mattutina che facevano a pezzi l'oscurità intorno a lui. Ripensandoci, quello aveva tutta l'aria di essere un mercoledì. O forse si sbagliava. Quanti giorni erano passati da quando si era relegato nel suo stambugio a scrivere a persiane sprangate? Della candela era rimasto solo un mozzicone... Lunedì! Era un lunedì! Il proprietario era venuto per riscuotere l'affitto! Senza indugiare un momento oltre, Fyodor si lanciò a capofitto sotto la scrivania, dove si raggomitolò, con le ginocchia al petto e le dita ficcate in bocca per non lasciarsi sfuggire nemmeno un sussulto.
"Fyodor Ivanovich Svidrigajlov!" ruggì Nikolaij, sbattendo il pugno sulla porta.
Fyodor trattenne il respiro mentre il padrone di casa percuoteva la porta quasi volesse buttarla giù.
"Mi devi venticinque copeche, maledetto cialtrone!" aggiunse Nikolaij, con il suo solito ruggito tenorile.
Fyodor chiuse gli occhi ed aspettò in silenzio che il disturbatore se ne andasse. Ciò richiese una buona decina di minuti durante i quali piovvero minacce di sfratto. Nikolaij finì per tirare un calcio alla porta e andarsene a mani vuote. Una volta che si fu spento il rumore di passi giù per le scale, Fyodor sbucò dalla sua tana. Gli girava terribilmente la testa. 'Sfido io', lo sgridò il buonsenso, 'con l'aria viziata che c'è qua dentro è già tanto che tu non sia morto asfissiato!'.
Dopo aver rialzato la sedia, si sgranchì le gambe anchilosate. Si sentiva come un fucile smontato da un soldato incapace di riassemblare i pezzi. E in effetti erano proprio lì sul tavolo, i suoi pezzi. Fyodor osservò le pagine della sua ultima opera, fitte di versi e macchiate di caffè. Tutte le volte che componeva si sentiva rimescolare dentro. E vomitava. Vomitava tutto, poesia e pasti a base di porridge freddo. Grossi pezzi indigesti di incubi e mollicce aspirazioni finivano per impiastricciare la carta. Un rublo a pacco. Ecco come aveva speso tutti i suoi averi, in carta e inchiostro! E adesso come avrebbe pagato l'affitto?
Fyodor smise di tormentarsi le pellicine delle dita e diede una veloce rilettura a quello che aveva appena scritto. Ma sì, gli sembrava di aver fatto un ottimo lavoro. Arrotolate le carte e cacciatesele sotto l'ascella, fece per uscire, quando lo assalì una forte preoccupazione per il suo aspetto: non poteva certo uscire conciato così. Voleva davvero presentarsi davanti a Tsurumi in vestaglia sdrucita e pantofole logore? Alla sola idea, gli salirono i brividi su per la schiena. Eppure... Ma cosa andava a pensare! Era meschino da parte sua crederlo capace di una tale superficialità!
Nel pensare ciò, Fyodor si avvicinò tuttavia allo specchio. Gli erano cresciuti sparuti ciuffetti di barba e i capelli, mossi per natura, si erano unti a tal punto da ricadergli sul viso emaciato come le vele di un galeone senza vento in petto. Il giovane poeta attinse un po' d'acqua dalla bacinella e si stropicciò gli occhi grandi e tristi. Poi afferrò un pezzo di sapone e si sfregò le labbra sporche d'inchiostro. Le unghie ormai erano una causa persa: erano così intrise di china, da sembrare esse stesse la punta biforcuta di una stilografica. Compiute le sue abluzioni con religiosa meticolosità, si asciugò con un pezzo di stoffa e finalmente riconobbe il suo viso nello specchio. Ci voleva un barbiere! E poi dritti dritti all'hotel di Tsurumi. Voleva chiedergli cosa ne pensasse della sua nuova poesia. Un'intera settimana senza di lui gli era sembrata durare un'eternità.
 
"Konstantinov, Konstantinov...? Vediamo un po'" mormorò il giovane concierge, leccandosi l'indice e sfogliando le pagine di un pesante registro rilegato in pelle. La lista degli ospiti di quella sera era così lunga, che la fronte gli si increspò dalla concentrazione, mentre il baffo si contorceva sul labbro superiore come una processionaria smarrita sulla corteccia squamosa del suo volto adolescenziale. Sotto al cappellino di feltro le orecchie a sventola balzellavano su e giù, seguendo il ritmo frenetico di una mascella ruminante.
"Nessun Konstantinov" osservò il concierge, sfarinando forfora sulle pagine del registro nel grattarsi l’attaccatura dei capelli.
Fyodor cercò disperatamente di ricordare, sguardo fisso sul tabellone trafitto di chiodi al quale erano rimaste appese le chiavi di due stanze.
“Zaytzev?” domandò timidamente.
Il concierge gli lanciò uno sguardo di sottecchi e, senza nemmeno controllare, rispose: “c’è un signor Zaytzev, sì. Posso chiedere chi lo cerca?”
“Svidrigajlov” mormorò prontamente Fyodor, felice di essersi finalmente ricordato sotto quale cognome Tsurumi soleva affittare le camere d’albergo.
 
La storia del nome finto era saltata fuori durante il loro primo incontro, quando Tsurumi gli era stato presentato come il figlio illegittimo di un funzionario russo e di una cameriera di origini cinesi, allontanata dalla casa una volta dato alla luce il frutto di una passione consumata fuori dal vincolo del matrimonio. Fyodor ci era cascato subito. D’altronde, Tsurumi parlava talmente bene il russo, da poter impersonare un madrelingua senza destare sospetti. E se anche ce ne fossero stati, di sospetti, tutti si sarebbero trovati unanimemente d’accordo sul chiudere un occhio. Per quel che lo riguardava, un uomo dotato di tale fascino poteva anche essere il figlio di un ubriaco e di una prostituta: non sarebbe stato certo il suo albero genealogico ad impedire a mecenati dell’alta società, uomini dediti alle scienze, filantrope illuminate, artisti affermati e scrittori in erba di vorticargli intorno come uno stormo di uccelli in guerra per un tozzo di pane.
Quella sera Fyodor scoprì la vera identità di Tsurumi in fondo a quattro bicchieri di vodka: uno per scaldarsi la gola, uno per declamare la poesia che aveva scelto di leggere, uno per affrontare i sorrisi imbarazzati dei commensali e, infine, quello che gli aveva sciolto la lingua quando Tsurumi si era seduto accanto a lui, aveva cavato fuori una penna dalla tasca interna della giacca e gli aveva chiesto di autografare la collezione di poesie da cui era stata tratta la lettura avvenuta a cena.
“Mi spiace signore, ma ho solo il manoscritto con me” si era scusato Fyodor, mano malferma a causa dell’alcol e dello sconforto per il modo in cui era stata ricevuta un’opera sulla quale aveva versato tanto sudore. “Ad essere onesto, temo che non vedrà mai la pubblicazione” aveva aggiunto mestamente il poeta, lanciando uno sguardo amareggiato alla padrona di casa, il cui ‘autografo’, sulla carta giusta, gli sarebbe valso fior di rubli.
“Abbia fede. Un talento come il suo è sprecato in un posto del genere” lo aveva consolato Tsurumi, posandogli una mano sul ginocchio. Quel piccolo cenno di conforto infiammò le guance di Fyodor, già rosse di vodka. Colto da un improvviso slancio di follia, tirò fuori il manoscritto dalla tasca interna della giacca, lisciò le pagine stropicciate, tenute insieme da una cucitura inesperta, e lo fece cadere in grembo a Tsurumi.
“Ecco, è suo.”
“Non posso certo accettare un simile regalo!” aveva protestato Tsurumi, ma Fyodor gli aveva già strappato di mano la penna e aveva cominciato a scrivere una dedica sul frontespizio.
L’affascinante sconosciuto, nel riprendersi la stilo, aveva cancellato Zaytzev per sostituirlo con ghirigori, qua aguzzi, là spessi.
Tsu-ru-mi. E’ il mio vero cognome. Sono giapponese” aveva sorriso Tsurumi, seguendo gli ideogrammi del suo nome con il dito.
Il resto della serata lo avevano passato su un divanetto appartato a parlare della situazione politica della Russia e di come Tsurumi fosse stato esiliato dal Giappone per il suo giornale di stampo rivoluzionario. Non si fecero problemi ad esprimere malcontento per il sistema di governo vigente, basato su una disuguaglianza sociale che soffocava le classi dei lavoratori e affamava l’arte si sarebbero ribellati si sarebbero lanciati all’assalto del palazzo dello tsar e avrebbero assediato le labbra appena intraviste attraverso il baffo folto e pettinato con cura avevano sete di giustizia avevano il bicchiere vuoto un attimo solo ci penso io a riempirglielo non si preoccupi vada avanti sì avevano sete la feccia aristocratica nascosta in ognidove sarebbe corsa al riparo tutti avrebbero avuto quel che spettava loro un pezzo di terra un alloggio dignitoso un assaggio della dolce curva di quel collo...
 
Era tornato a casa ubriaco.
 
Una cameriera fece la sua comparsa dalla porta di servizio, sussurrò qualcosa nell’orecchio del concierge, il quale trasalì e si dileguò senza nemmeno degnare Fyodor di una spiegazione. Il poeta, piantato in asso così bruscamente, si dedicò ad un attento studio del mobilio, del tappeto e infine del registro che il concierge aveva lasciato lì nella fretta di sparire dietro le quinte di quell’assurdo teatrino. Sbirciando le pagine Fyodor scoprì che la suite del signor Zaytzev si trovava al secondo piano, nell’ala est dell’edificio.
Sulle scale scricchiolanti dell’hotel il poeta incrociò anziane signore dal collo fasciato di perle e funzionari ancora giovani e quindi dotati di folti capelli neri, laddove i colleghi più anziani imbiancavano. Una volta giunto al secondo piano, Fyodor percorse il corridoio rivestito d’un tappeto che inghiottiva il rumore dei suoi passi, al punto da fargli sospettare che lì non ci fosse proprio nessuno, nemmeno lui.
 
La porta della suite di Tsurumi era socchiusa. Fyodor bussò. Dall’interno si sentiva il sussurro della puntina di un grammofono giunta alla fine della sua corsa. La porta si aprì del tutto quando il poeta vi picchiò le nocche una seconda volta. Mezzogiorno, con la sua luce accecante, toccava ogni mobile e ogni quadro, come un ospite cleptomane indeciso su cosa rubare per primo. Sul tavolino da caffè al centro della stanza c’era un posacenere dal quale si levava un filo di fumo. Qualcuno ci aveva lasciato una sigaretta. L’armadietto degli alcolici era stato aperto, ma non da Tsurumi, il quale, dichiaratamente astemio, rifiutava in modo categorico di bere perfino quando si brindava alla sua salute. La porta della camera era spalancata. Sulla specchiera un intreccio di corpi, mostruoso e osceno, si dimenava come una bestia bruciata viva sulla graticola. Fyodor notò solo allora che i fogli della poesia si erano imbarcati sotto il peso dei versi, o meglio, sotto il peso dell’inchiostro con cui li aveva composti. Non andava bene così. Doveva riscriverli. Riscriverli in bella copia. La poesia che credeva completa quella mattina ora lo disgustava. Presentare un tale pasticcio a Tsurumi! Puah! Che vergogna! Doveva tornare a casa e rifare tutto da capo. Lui in quella stanza non ci sarebbe mai dovuto entrare, sarebbe dovuto rimanere a casa a lavorare alla sua scrivania.
Nella camera da letto una voce chiese a Tsurumi se le informazioni che aveva raccolto in quei tre mesi sarebbero bastate a riempire gli archivi dei servizi segreti giapponesi. Tsurumi si abbandonò ad una risata sciocca, tanto per compiacere l'altro. Le assi del letto smisero di gemere sotto il peso dei due uomini. Si sarebbero rivisti? Tsurumi rispose di no. Perché? Aveva intenzione di tornare in Giappone? Ma no, semplicemente non aveva voglia di rivederlo. E poi la settimana dopo era già pieno d’impegni. Completamente smarrito nel suo mondo di rime ed enjambements, Fyodor studiava una ad una le pagine, incapace di vedere quelle immagini che credeva di aver evocato attraverso una poesia che ora gli sembrava vuota.
 
Fyodor uscì dalla suite con i fogli in mano e non salutò nessuno per le scale.
 
Fuori la strada era un turbinio di carrozze lanciate al galoppo, carretti trascinati da ronzini e cavalieri con gli stivali inzaccherati di letame. Fyodor camminava a testa bassa e rifletteva, mordicchiandosi le pellicine. Che fare adesso? Non poteva tornare a casa: Nikolaj era sicuramente lì ad aspettarlo per estorcergli i soldi dell'affitto.
I soldi erano sempre un problema. Gli sarebbe toccato strisciare da suo zio ad implorarlo di anticipargli trenta copeche, con la promessa che una volta pubblicata la sua prima raccolta si sarebbe sdebitato. Tuttavia tornare da suo zio per la seconda volta quel mese significava correre un grande rischio. Un fallimento dopo l'altro nel mondo della letteratura gli sarebbe valso un biglietto di ritorno per il suo paesino natale. Suo padre l'aveva avvertito. Con la poesia non ci si sfama, gli aveva detto. Avrebbe fatto meglio a laurearsi in medicina. Sarebbe tornato con un diploma in tasca e lo avrebbe preso come apprendista presso il suo studio. Non avrebbe visto un soldo finché non avesse abbandonato quel suo puerile capriccio letterario. Non un soldo!
Sua madre, fra un singhiozzo e l'altro, aveva pregato Fyodor di riguardarsi bene, di coprirsi in inverno, di bere quella schifezza di olio di pesce che suo padre gli rifilava durante i suoi attacchi. Alla stazione Fyodor aveva baciato la sorellina, una cosina minuscola avvolta nel mantello di pelliccia che puzzava di camino. La sorella maggiore lo aveva abbracciato, bagnandogli di lacrime la spalla. Suo padre si era rifiutato di unirsi al comitato d'addio.
A pagare tutte le sue spese pietroburghesi era quindi lo zio, un tipo eccentrico che abitava in città da ben vent’anni e che rivestiva una carica insulsa nel grande apparato burocratico dello stato. Qualche volta invitava Fyodor a teatro e rideva, rideva come un matto perfino quando ad essere messa in scena era una tragedia. Di soldi ne aveva, ma li spendeva tutti in bottiglie di whisky importate dall'estero, bottiglie che stappava senza un ordine preciso e soprattutto senza un’occasione precisa. Inoltre aveva l’odiosa abitudine di chiamare il nipote ‘ragazzo mio’ con un tono paternalistico che rendeva penoso introdurre l’argomento. Poteva già immaginare il rimprovero con cui avrebbe accolto la sua richiesta. ‘Ragazzo mio, io te le presterei pure queste trenta copeche, ma se te le prestassi, torneresti la prossima settimana a chiederne quaranta, e poi cinquanta, e poi un rublo o due, e non impareresti quindi ad essere parsimonioso. Quando troverai moglie mi ringrazierai per la dura lezione che ti sto impartendo. Le donne spendono, ragazzo mio, spendono tutto finché non ti rimane addosso nient’altro che la biancheria’. Lui, però, di moglie, nemmeno la traccia.
 
Assorto nei suoi pensieri, Fyodor prese a costeggiare il canale Griboedov. Dove aveva sbagliato? Forse la parte degli eroi era troppo involuta per il lettore popolare? O era colpa di uno schema metrico lasso? D’altronde non si può avere un corpo sano senza un’ossatura abbastanza solida da reggerne il peso!
Fu la voce di un uomo a richiamare l’attenzione del poeta. Alla voce seguì un braccio, al braccio un fianco. Fyodor si ritrovò a braccetto di un distinto gentiluomo di cui s’avvide solo di uno scorcio d’uniforme. Nikolaj lo aveva denunciato! Lo avrebbero sbattuto in prigione! In preda allo spavento, Fyodor cercò di divincolarsi dalla stretta del gendarme.
“Suvvia Svidrigajlov, cos’hai da agitarti tanto? Non riconosci un vecchio amico?” 
Il poeta inciampò e cadde sulla sponda lastricata del canale.
“Ecco, ti sei tutto impolverato. Rovinare un vestito buono così!” lo rimbeccò il soldato, aiutandolo ad alzarsi.
“Era da un po’ che non ci si vedeva, eh? Sei capitato proprio nel momento giusto!”
Senza aspettare una risposta, la guardia trascinò Fyodor giù per le scalette e lungo uno strettissimo molo dove erano ormeggiate barche sottili e schiacciate, più simili a chiatte per trasportare merci che a veri e propri battelli. Là, un barcaiolo stava tenendo testa ad un bizzarro assortimento di giovani, spingendoli indietro con la pala di un remo tutte le volte che tentavano un assalto all’imbarcazione.
“Ti devo chiedere un favore, Svidrigailov. Vedi, devi fingerti pazzo. Sai fingerti pazzo? Recitare vecchie preghiere a squarciagola, camminare sulle mani, abbaiare come un cane… una roba del genere la sai fare? Insomma, anche sputare per terra va bene, basta che ti sbrighi, ecco, ormai siamo quasi arrivati, almeno prenditi la testa fra le mani!”
Il gendarme spinse Fyodor fra le braccia di una ragazzotta vestita con gusto ma incipriata come un’Ofelia pronta a debuttare in un teatro di second’ordine. Il vento le aveva strappato di testa la retina e spazzolato i lunghi capelli biondi all’indietro, un oltraggio alla classe di nuovi ricchi da cui la ragazza sicuramente proveniva. Fra le braccia di quella Venere ubriaca, Fyodor osservò la trattativa in corso fra il soldato e il barcaiolo.
“E’ colpa del ministero. Lassù non fanno altro che pensare alle spese. Nel giro di una notte le cinque carrozze di servizio diventano due. Non mi sorprenderebbe se un bel giorno, a tirare la carrozza, ci trovassi un asino al posto di un cavallo. Quelli tagliano, buon signore, tagliano tutto. E’ per questo che le chiedo in prestito la barca. Una questione di poche ore, giusto il tempo di riconsegnare questi pazzi al manicomio.”
“Ma io-”
“Eh, la capisco sa? Parole sante le sue. Ma se caricassi tutti questi matti sulla carrozza del commissariato… ho detto matti? Volevo dire pazienti… buoni voi, state buoni! Lasciate in pace il signore, non lo spintonate così!”
Uno dei ragazzi era riuscito a strappare il remo di mano al barcaiolo e adesso lo stava rosicchiando quasi si fosse trattato di un osso da spolpare. La guardia gli assestò una bella manganellata e il giovanotto imprecò non come un pazzo, ma come un bravo cristiano che ricorda tutti i santi e non ne tralascia nemmeno uno. 
Alla fine i giovani ebbero la meglio e si impossessarono barca, mentre il barcaiolo, ormai stanco e disarmato, soccombeva ai sorrisi e alle strette di mano infertegli dal gendarme. Fyodor fu issato a bordo dalla Venere querula e dal vate della compagnia, un tipo coronato d’alloro che verseggiava in latino accompagnandosi con un piccolo flauto di legno, di quelli che si vedono in mano ai bambini alle fiere di paese.
Via gli ormeggi! Su i calici! Un brindisi al capitano! Hip hip hurrà!
Il gendarme si sfilò il cappello e lo agitò in aria, come un soldato che saluta la sua bella rimasta sul molo ad osservare la nave che salpa. Fu allora che Fyodor lo riconobbe: era Yevgeniy, il fratello minore di Vasiliy, una sua conoscenza. I due si erano incontrati per la prima volta in uno dei tanti salotti letterari organizzati da signore di una certa età che credono di poter tornare giovani circondandosi di volti freschi e spolverando ideali del decennio scorso per riuscire a tener viva una conversazione. Era stato Tsurumi a presentarglielo. Nell’arco di un’intera serata Fyodor non era riuscito ad inquadrarlo bene. Non aveva capito se frequentasse o no l’università, se la sua famiglia fosse ricca o povera, se avesse un qualche tipo di interesse oltre a lamentarsi della vodka scadente e delle signorine troppo appassite per i suoi gusti. Le letture di poesia lo annoiavano, le questioni politiche non lo toccavano, le carte erano un passatempo accettabile se c’era una posta in ballo, e soprattutto se era lui a vincerla. In quell’occasione lo aveva trovato vanesio, viziato e arrogante. Ma annaffiato di vino e portato in trionfo dagli amici sembrava un’altra persona. Sembrava il ritratto della gioventù: sprezzante, sfacciato, d’una bellezza pura, cherubica, con i boccoli d’oro che gli incorniciavano il viso e la camicia aperta sul petto gonfio d’orgoglio.
“Proprio una bella idea, quella di rubare i vestiti di tuo padre, Trubeckoj. Quando la vecchia ciabatta se ne accorgerà andrà su tutte le furie!” rise Yevgeniy, leccandosi le dita sporche di vino.
“Già me lo vedo, il sergente Trubekoj, tutto rosso e con la pappagorgia tremolante. Al ladro! Al ladro! Un poliziotto che perde l’uniforme in casa sua! Questa proprio non si era mai sentita” incalzò un altro ragazzo, imitando la vocetta ridicola del capo del commissariato. Tutti risero. Tutti tranne Fyodor, che si era rintanato in un angolino della barca. Per tornare a riva adesso ci sarebbe voluto più di un semplice salto e di nuotare non se ne parlava. Non era mai stato il suo forte.
“Scusate, dovrei scendere...” protestò con timidezza, cercando di attirare l’attenzione della ciurma invano, poiché il fracasso era tale da sovrastare la sua voce. Accanto a lui un ragazzo era riuscito ad acchiappare la scatenata baccante dalla bionda chioma, la quale, ridendo, gli aveva concesso un sorso del suo vino. Bianco in volto, Fyodor si ritrasse ancora di più nel suo cantuccio. Come uscire da quella situazione? Come scendere dalla barca? Erano davvero matti, o solo ubriachi? Il poeta si frugò in tasca. Non aveva proprio nulla da barattare, nemmeno una copeca.      
“Eccoti qua, Svidrigajlov. Non mi sono dimenticato di te, vedi?” lo apostrofò Yevgeniy, strisciando fuori dal voglioso abbraccio di una giovane che Fyodor, tratto in inganno dai pantaloni, aveva scambiato per un uomo.
“Tuo fratello sa che sei qui?” domandò il poeta, ridotto a spettatore di quell’orgia di depravati. Yevgeniy s’incupì brevemente, prima di tornare a sorridere spensierato.
“Lascia perdere mio fratello. Quella prugna secca sa sempre tutto” sbuffò, sedendosi accanto al poeta.
“Toh, pensa a bere piuttosto!”
Fyodor prese con riluttanza la bottiglia che gli era stata offerta, prima di accorgersi che si trattava di vino buono, della qualità che non si rifiuta a cuor leggero. Soprattutto se non se n’è visto un goccio per più di un mese.
“Cos’hai lì?” domandò Yevgeniy, scorgendo i fogli della poesia che Fyodor era riuscito a trarre in salvo. Perché se l’era tenuta stretta, una sciocchezza del genere? A chi sarebbe importato se l’avesse gettata nel canale? Era un pasticcio irrecuperabile.
Colto da un altro di quei deliri improvvisi che lo spingevano a disfarsi dei suoi fallimenti offrendoli in dono al primo che passa, Fyodor gli affidò l’odiato componimento.
“Una poesia. Tieni, è tua.”
Yevgeniy la accettò con scarso entusiasmo. Non era un accanito lettore in generale, men che meno di poesia. Deciso ad infilarsela in tasca per consegnarla più tardi alle fiamme del camino, cambiò idea quando l’occhio gli cadde sui primi due versi. Era un occhio annebbiato dal vino, certo, ma non è forse il vino il più grande alleato della poesia? In un baleno si era tracannato tutti i versi. Era tutto lì? Soltanto dieci pagine? Fyodor giurava di non avere nessun altro foglio nascosto sotto la giacca, e lo pregava di smettere gentilmente di perquisirlo come un criminale. Attento a dove metti le mani! Rosso in volto, Fyodor gli voltò le spalle. In quella posizione, non si accorse che Yevgeniy si era alzato, aveva raggiunto a fatica l’altro capo della nave e spostato le tre ninfe che vi riposavano, i seni all’aria e le labbra appiccicose di vino. Giunto in vetta, Yevgeniy si schiarì la gola, brandì i fogli come un giudice che legge il verdetto finale e prese un gran respiro.  
Ecco un'esplosione di colori. In bocca a Yevgeniy un teatro di ribelli assalta la bastiglia, ghigliottina un re, restituisce al povero la sua dignità in nome della libertà, della fratellanza, dell'uguaglianza. Gli eroi che Fyodor aveva visto sparire nella camera d’albergo di Tsurumi erano tornati e combattevano con tenacia, inciampando solo in qualche 'a capo' inaspettato o in qualche parola che il poeta aveva sbarrato e corretto in una calligrafia illeggibile. Severi matusalemme dai patriarcali baffoni strattonavano le mogli, rimproverandole per essersi fermate a guardare, mentre coppie di giovani amanti si sporgevano dalla ringhiera, tenendosi per mano e ridendo. Un senzatetto accasciato su una panchina scambiò la poesia per una canzone ed intonò una cantilena degna della più fetida bettola di Pietroburgo, con la voce che grattava le corde vocali zuppe di vino. Ad ogni ponte una pioggia di monete, verdura marcia, scarpe sinistre e bottiglie travolgeva l'improvvisata compagnia itinerante, rischiando di far perdere l'equilibrio a Yevgeniy, il quale era riuscito a rimanere in bilico sulla prua piatta della barca per puro miracolo.
Fyodor rimase esterrefatto ad osservare la sua poesia nascere, figlia della sua penna e della voce chiara e tonante di un esaltato. Ecco il suo primo passo in avanti, il suo primo dente per mordere, la sua prima parola: giustizia. Lette con voce tremante nei salotti letterari le sue opere risultavano spente, scialbe, del tutto prive del vigore che solo una lettura come quella di Yevgeniy sapeva conferirgli.
L’incanto svanì quando la barca lasciata a sé stessa andò a cozzare contro una barca ancorata in mezzo al fiume, sbalzando il capitano fuori bordo.
Fyodor si lasciò sfuggire un urlo con cui svegliò l’intera compagnia che, cullata dal rollio della barca ed intontita dal vino, si era assopita. Sulla riva opposta era accorso un robusto apprendista fornaio che aveva assistito alla scena e stava posando i sacchi di farina per lanciarsi al salvataggio. La barca si incagliò in un pontile poco lontano dal luogo in cui era caduto Yevgeniy. Tutti si sporsero e puntarono gli occhi strabuzzati sulla distesa di fogli che galleggiava dove Yevgeniy si era inabissato. Il contadino si era già tuffato in acqua quando il ragazzo riemerse in un vortice di schiuma, boccheggiando come un dannato. Sulla barca si scatenò un putiferio e i consigli di Fyodor di non agitarsi a quel modo non servirono a niente, perché presto si rovesciò. Fra urla e panico generale, tutti riuscirono ad aggrapparsi al pontile, mentre l’imbarcazione veniva trascinata via dalle onde causate da una ventina di giovani gambe scalpitanti. Fyodor fu il più lesto del gruppo: magro com’era, arrampicarsi sul pontile fu una cosa da nulla. L’acqua nelle scarpe sciaguattava mentre correva lungo la riva, terrorizzato all’idea che la sua poesia fosse costata la vita ad un uomo!
Trovò Yevgeniy riverso sulla sponda, ansante per la nuotata fuori programma. Rivoli d’acqua brunastra sgorgavano dai suoi vestiti come sangue dalle ferite di un soldato. Fyodor si gettò in ginocchio accanto a lui e gli allentò il colletto della divisa per permettergli di respirare meglio. Voleva chiedergli come stava, se aveva bisogno di un dottore, ma tutto d'un tratto, i fischi della ronda di giorno sciolsero la folla e misero in fuga gli altri 'matti'.
Yevgeniy saltò a sedere, si pettinò i capelli,  diede una strizzata ai baffi e sventolò un indice sotto il naso di Fyodor.
"È così che si legge una poesia, Svidrigajlov! Ricordatelo bene, a meno che tu non voglia farci morire tutti di noia come la scorsa volta, nel salotto di quella rimbambita tutta pizzi e merletti."
Fyodor non riuscì a trattenersi dal gettargli le braccia al collo. Era bagnato fino al midollo, con ogni genere di ortaggio marcio appiccicato ai vestiti, ma non mollò la presa finché le voci dei gendarmi non si fecero più vicine.
"Corri!" lo incitò Yevgeniy, un uomo che preferiva di gran lunga essere scarrozzato in giro, ma che in quel caso avrebbe fatto un'eccezione.
"E non ti preoccupare se ti prendono," aggiunse divertito "un po' di pubblicità sui giornali non ti farebbe male, caro il mio poeta."
 
 
 
***
 
 
Voglio ringraziare il mio ragazzo per avermi incoraggiata a scrivere. E’ per merito suo che sono tornata a farlo dopo tanto tempo.
  
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