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Autore: Cossiopea    19/11/2019    2 recensioni
Il passato è un concetto strano.
Ciò che è stato non sarà. Ogni singolo istante di vita, ogni minimo respiro un secondo dopo è già dimenticato, lasciato scorrere verso quella landa della nostra memoria da cui possiamo ripescare i ricordi...
Il passato.
Sono rare le volte in cui qualcuno non rimpiange ciò che è stato, quasi uniche le volte in cui qualcuno è felice della sua vita.
Io non dovevo morire. Non posso.
Hanno provato a rinchiudermi dal mio passato, hanno tentato di farmi dimenticare... hanno sbattuto il mostro in gabbia, un mostro che ogni giorno si lancia contro le sbarre ringhiando e reclamando la sua libertà.
Non posso morire, non posso fuggire...
Sono un tassello dell'equilibrio cosmico, la potenza di una stella rinchiusa in un frammento di universo...
Genere: Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ebbi un'altra crisi non appena misi piede in camera.

Chiusi la porta e tutta la rabbia, tutta la frustrazione, tutta la paura esplosero nel mio essere senza che riuscissi a fermarli.

Trattenni le urla mentre le zanne mi uscivano dalle gengive nel desiderio di assaggiare il sangue; gli artigli eruppero dalle mie dita che vennero scosse dai fremiti, bramando di strappare la carne; gli occhi si illuminarono di rosso e avvertii la pupilla divenire sottile.

Scariche di energia mi attraversarono il corpo mentre lacrime mi lasciavano scie lungo il viso e ogni oggetto che avevo a portata di mano veniva ricoperto da graffi o distrutto in un morso intriso di rabbia.

Un dolore terribile aleggiava nella mia mente febbricitante e il mondo per un secondo divenne come irreale. Fuochi esplosero e visioni di guerra mi annebbiarono la vista mentre la mia testa veniva assorbita da una sgradevole follia.

Le piastrelle del pavimento divennero pietra incandescente da cui eruttavano fiumi di lava, il cozzare delle spade mi pervase le orecchie, le grida dei guerrieri sostituì il ticchettio della pioggia sui vetri e ogni cosa fu assorbita dalla guerra.

Lampi di realtà interconnesse si confondevano con la mia paura e l'unica cosa che potevo fare era aspettare che tutto si placasse, che ogni cosa smettesse di irradiare morte e che il mio corpo smettesse di tremare al ritmo di un terremoto inesistente.

Non mi rimase che attendere.

Non più padrona del mio essere, con gli artigli che tranciavano ogni cosa incontrassero, mi rintanai, soccombendo al Demone che con sempre più vigore tentava di emergere...

 

Mi doleva tutto e sentivo ogni muscolo del corpo intorpidito e privato dell'energia necessaria per muoversi.

Il freddo delle piastrelle mi entrava nelle ossa e la schiena era scossa dai brividi, fuori dalla finestra lampi di luce illuminavano la notte mentre la tempesta scuoteva con violenza gli alberi e un ramo irto di artigli picchiettava furiosamente contro il vetro quasi volesse intimarmi a farlo entrare.

Mi misi a sedere con fatica, massaggiandomi la testa per poi scoprire che i miei capelli erano incrostati di sangue.

Gemetti all'idea di aver sbattuto la testa o, peggio, di essermi ferita da sola durante la crisi.

Avvicinai con dita tremanti le mani alla ferita, che adesso pulsava al lato del cranio, per scoprire due tagli inferti indubbiamente con un paio di artigli.

Sibilai mentre, con la testa che doleva, mi mettevo in piedi. Gli occhi si abituarono lentamente all'oscurità e solo allora il disastro che avevo causato mi apparve davanti con tutta la sua disperazione.

La scrivania era segnata e il legno graffiato senza pietà. I fogli che stavano sopra di essa giacevano sul pavimento stropicciati e calpestati. La libreria era ribaltata e i volumi privati delle pagine o scagliati con rabbia contro il muro. Il letto disfatto e le coperte tagliuzzate. Il lampadario era spaccato e i frammenti del vetro delle lampadine erano seminati in giro per la stanza...

La sola cosa rimasta intatta era la tastiera.

Gli occhi mi si riempirono di lacrime mentre, stando attenta a evitare i pezzi di vetro a terra, mi avviavo verso quello strumento senza graffi o segni di artigli.

Con il suono dei tuoni che rimbombava fuori dalla finestra, premetti il pulsante di accensione e posizionai le mani sui tasti, chiudendo gli occhi.

Iniziai a suonare e dalle mie dita non più munite di artigli si srotolò una melodia malinconica e pura.

Mi lasciai trasportare dalla musica, fondendo me stessa con quelle note e lasciando che il mondo intorno a me svanisse e mi lasciasse sola con quella melodia.

Le mie dita scorrevano senza tregua da un tasto all'altro mentre, lentamente, delle timide lacrime iniziavano a discendermi il volto... solo che queste erano di gioia.

Dimenticai la tempesta e quel dolce suono prodotto dalle mie mani sovrastò i tuoni e il vento, irradiando ogni cosa con il suo calore.

Poi, mentre il mio cuore batteva al ritmo della melodia, mentre ogni cellula del mio corpo danzava secondo quella musica e il Demone si nascondeva dentro sé stesso... qualcuno bussò alla porta della mia camera.

Non so come lo sentii, con il frastuono della tormenta e il volume della tastiera, ma quell'unico suono bastò per interrompere il piccolo incanto in cui ero immersa e farmi crollare nuovamente nella paura.

Il mio sguardo scattò all'ingresso della stanza e nei miei occhi passò un lampo rabbia scarlatta.

Era tardi.

Sapevo che doveva essere ormai passata la mezzanotte e fu proprio questo a mettermi in allarme contro chiunque fosse dall'altra parte della porta.

Lanciando un'ultima occhiata alla tastiera balzai tra i detriti del lampadario e i libri stropicciati per piazzarmi davanti all'uscio e tirare la maniglia.

Incontrare gli occhi di Susan nel buio mi fece correre un brivido lungo la schiena.

Per un istante ci fissammo attraverso la piccola fessura che avevo creato, in modo che lei non potesse vedere la devastazione che regnava nella mia camera. Era in pigiama e i capelli neri ora sciolti le ricadevano sulle spalle in morbide onde corvine.

-È tardi- dissi poi io, senza lasciar trapelare emozioni dalla voce.

-Lo so- fece Susan, senza abbassare lo sguardo dai miei occhi -Ma volevo parlarti. Ho sentito che suonavi e ho capito che eri sveglia.

Fu forse un bene che nella penombra non notasse il sangue che avevo sulle dita e tra i capelli.

-Parla- le dissi, fredda.

Lei batté le palpebre.

-Non posso entrare?

-No.

Susan sospirò.

-Jill, io... - sospirò di nuovo -In tutti questi anni sapevo di stare sbagliando con te, sapevo che eri una bambina sola, che aveva bisogno solo di affetto e di comprensione... Ma ho avuto paura, capisci? Avevo paura di mia figlia.

La fissai, impassibile.

-Te l'ho detto: è tardi per le scuse- le dissi, sapendo dove voleva andare a parere -Non puoi rimediare a ciò che hai fatto. Tu non sei più mia madre.

Quelle parole parvero colpirla.

-Oh, Jill...- allungò una mano verso il mio viso ma io mi ritrassi al tentativo di contatto.

-Non funziona così, Susan- le dissi e lei si irrigidì quando la chiamai per nome -Non puoi ignorare tua figlia per otto anni e poi pretendere che ti perdoni- il mio tono era più pacato rispetto al pasto, ma manteneva la sua durezza.

-Lo so. Però...- la donna abbassò lo sguardo per poi alzarlo nuovamente su di me -vorrei solo riuscire a ricucire.

-Non puoi farlo- tagliai corto -È finita- feci per chiudere la porta ma Susan mi fermò.

-Aspetta!- esclamò.

La fissai, in attesa.

-Pensavo solo...- disse -che avresti bisogno di stare con altri ragazzi della tua età.

-No.

Il suo sorriso traballò.

-Ci ho pensato, Jill: non è giusto che tu sia chiusa in una camera per ogni secondo della tua vita.

-Ho sempre vissuto così.

-E mi dispiace.

-Non è vero.

Mi guardò, quasi implorante.

-Non ti piacerebbe andare a scuola?

-No.

-Perché?

Non risposi.

-Comunque sia, non importa- tagliò corto Susan dopo aver capito che non avrei accennato a rispondere -Io e tuo padre ti abbiamo già iscritta alla scuola pubblica: a settembre potrai rientrare.

Un brivido gelato mi attraversò la schiena.

-No- dissi, secca -Non andrò a scuola.

-Ormai è deciso- declamò Susan, alzando il mento -Non puoi continuare a vivere così.

-Ho sempre vissuto così- ripetei, fredda -E il caso è chiuso.

La donna bloccò la porta prima che gliela chiudessi in faccia.

-Smettila di ribellarti.

Un fiotto di energia mi attraversò il corpo e sentii il Demone drizzare le orecchie.

-Dopo una vita nella quale mi avete lasciata a me stessa non potete pretendere che appena mi dite di fare una cosa io obbedisca senza ribattere- feci, gli occhi stretti.

-È quello di cui hai bisogno- disse Susan, alludendo alla scuola -Mi dispiace davvero per aver ignorato mia figlia tutti questi anni, ma adesso intendo rimediare al mio errore e fare ciò che è necessario per il suo bene: studiare tramite internet non va bene con te, è evidente. Hai bisogno di avere contatti con altri ragazzi.

I miei occhi lampeggiarono di rosso, ma Susan non parve accorgersene.

-Tu non sei mia madre- sibilai senza trattenere la rabbia che provavo per quella donna.

Chiusi la porta senza lasciarle il tempo di aggiungere altro e ci appoggiai la schiena per poi farmi scivolare sul pavimento, le ginocchia sotto al mento e le lacrime che mi appannavano gli occhi illuminati di sangue.

   
 
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