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Autore: moonlightstucky    23/11/2019    1 recensioni
Raccolta di onefiction Stucky ispirate a parole intraducibili.
1. Cwtch, gallese: l'abbraccio in cui ci sentiamo protetti, il posto sicuro che ci dà la persona che ci ama. E’ un posto in cui niente ti turba, niente ti ferisce, niente può colpirti.
2. Cafuné, portoghese: passare le dita tra i capelli della persona amata.
3. Won, coreano: la difficoltà di una persona nel rinunciare ad un’illusione per guardare in faccia la realtà.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Steve Rogers
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Note: dark oneshot, potrebbe urtare la vostra sensibilità. Bucky continua ad essere il Soldato d’Inverno, anche dopo gli avvenimenti di Civil War.

Won, coreano: la difficoltà di una persona nel rinunciare ad un’illusione per guardare in faccia la realtà.

L’avevano avvertito che non era rimasto nulla del Bucky Barnes che lui conosceva, se non il nome.
L’avevano avvertito che l’HYDRA aveva catalogato tutti i suoi ricordi, prima di azzerarne la memoria, e che si sarebbe servita dei frammenti frastagliati della sua esistenza come un’arma invisibile che avrebbe usato contro il Capitano al momento giusto, quando meno se l’aspettava.
Ma come poteva dare ascolto alle voci di coloro che gli erano stati vicini nel momento della transizione dal suo mondo al futuro, quando l’uomo che lo fissava con quello sguardo tormentato era la persona con cui aveva trascorso la maggior parte della sua vita? Come poteva dare ascolto alla voce della ragione, quando quella del cuore gli urlava che il suo grande amore era ritornato per restare al suo fianco?

Ignorò i primi segnali che dimostravano che il Soldato d’inverno non era perito con gli Helicarrier e con lo SHIELD, come voleva invece far credere agli altri.
Dopo il processo che lo dichiarò innocente degli innumerevoli crimini perpetrati per oltre mezzo secolo, si dimostrò sereno, privo dei rimorsi che aveva ostentato qualche ora prima di affrontare Tony Stark in Siberia. Era persino propenso a parlarne, come se descrivere il modo in cui aveva strappato le budella ad una vittima fosse un’azione tanto banale come andare a fare la spesa.

Si mostrava accondiscendente: rideva quando era il momento di ridere, si corrucciava quando era il momento di corrucciarsi, si eccitava quando era il momento di eccitarsi.
O meglio, aveva imparato a leggere il linguaggio del corpo di Steve e reagiva come l’altro si aspettava che reagisse. Non aveva reazioni spropositate né naturali, un occhio ben allenato come quello di Natasha aveva notato che persino quando sorrideva non era sincero. Anche Steve avrebbe potuto rendersene conto, se non fosse stato troppo impegnato a recuperare il tempo perduto.

Il fatto che Bucky non fosse più Bucky fu davvero percepibile quando si assentò per due notti e una mattinata senza dare spiegazioni. Ritornò nel tardo pomeriggio e finse di non essersene mai andato, dopo aver fatto preoccupare il suo migliore amico, che aveva mobilitato una squadra di ricerca per trovarlo.
Prima e durante la guerra Bucky Barnes non aveva mai lasciato il fianco di Steve Rogers senza un preavviso di un minimo di cinque giorni e senza dire dove sarebbe andato, con chi e perché.
La sua scomparsa avrebbe dovuto far scattare qualche allarme nel cervello del Capitano, ma il sollievo di vederlo di nuovo al proprio fianco mise a tacere ogni tarlo. Ora che Bucky era tornato poteva tornare a respirare.

Sam teneva d’occhio il Soldato ogni volta che condividevano una stanza, nel lungo travaglio della latitanza. Osservava il modo in cui le labbra si muovevano per pronunciare parole mute, come se stesse ripetendo silenziosamente un copione che aveva memorizzato.
Non era inglese, forse era russo; non se l’era mai cavata bene con le lingue. Aveva segnato su un taccuino qualche termine che ricorreva più spesso, senza farsi notare beccare dallo sguardo di falco di Barnes: tsel, missiya, konets.
Se Natasha si fosse rifatta viva, avrebbe chiesto a lei il significato.

Steve continuava a vivere la sua luna di miele con Bucky. Si svegliava al suo fianco ogni mattina, condivideva con lui i pasti tra un’effusione affettuosa e l’altra, si esercitavano nella prima palestra abbandonata che trovavano e scaricavano l’adrenalina tra le lenzuola, esplorandosi liberamente e senza pudore, come non avevano potuto fare negli anni quaranta. Cercava di recuperare il tempo perso e di ingoiare il senso di colpa che lo seguiva come un’ombra dal giorno della maledetta caduta dal treno di Bucky.
Ogni tanto, con una cadenza regolare, ma di cui Steve non tenne alcun conto, accadevano degli episodi bizzarri.
Si svegliava all’improvviso, nel cuore della notte, perché qualcosa di freddo gli aveva toccato le membra. Non era il freddo che il braccio di metallo di Bucky poteva trasmettere attraverso il tessuto della maglia, era qualcosa di più gelido, sembrava privo di anima. Tuttavia, gli bastava guardare Bucky, che respirava profondamente accanto a lui, per convincersi che si trattava soltanto di un sogno.
A volte gli incubi di Bucky lo tenevano sveglio, soprattutto quando il moro urlava nel bel mezzo della notte, sfoderava il suo coltello preferito da sotto la federa del cuscino e glielo puntava contro la giugulare. Lo sguardo assente, vuoto, che l’altro gli rivolgeva sarebbe dovuto bastare a fargli comprendere che l’amore della sua vita era irrimediabilmente perduto.

Natasha non diede sue notizie per un mese intero, il tempo necessario al Soldato per compiere il suo dovere.
Gli ordini dell’HYDRA erano stati cristallini: entrare nella vita dell’uomo sul ponte e strappargliela via. Utilizzare i ricordi di qualcuno a cui il Capitano era stato legato. Assecondare i suoi desideri. Tenere gli occhi sul bersaglio. Completare la missione. Fine.
Era stato fin troppo semplice fingere di essere qualcun altro, questo Bucky per cui il Capitano – Steve – aveva rinunciato a tutto. Vivere senza fissa dimora era la prassi già da tempo prima che la missione cominciasse. Ricambiare delle effusioni o fare sesso con l’uomo non era molto differente dall’essere usato da Pierce, da Rumlow o da chiunque altro avesse potere su di lui. Ancora una volta, era ordinaria amministrazione.
Ciò che era davvero complicato, invece, era trovare il momento adatto per recidere il filo che legava Steve Rogers alla vita.
Ci aveva provato ogni secondo martedì e terzo giovedì del mese, per undici mesi, e c’era sempre stato un imprevisto, un passo falso, un tentativo andato a vuoto.
Ma era deciso a completare la sua missione quel giovedì stesso.

La giornata trascorse in modo monotono: sveglia, colazione, esercitazione in palestra, sesso nella doccia, cena, letto.
Nulla lasciava presagire ciò che alle due e trentasette sarebbe avvenuto.
Si assicurò che il target dormisse prima di agire: prese dalla rete del materasso il suo coltello preferito, quello con l’impugnatura che recava le impronte della mano in vibranio e l’incisione TWS, e si posizionò cavalcioni sull’uomo.
Come aveva già avuto modo di osservare, i suoi riflessi erano davvero invidiabili; un semplice fruscio di foglie fuori dalla finestra era in grado di svegliarlo.
Steve aprì di scatto gli occhi e tirò un sospiro di sollievo quando si rese conto che non si trattava di una minaccia esterna ma soltanto di Bucky. Gli poggiò le mani sui fianchi e gli rivolse quel sorriso assonnato che in un’altra vita gli avrebbe fatto provare le farfalle nello stomaco e che ora gli faceva soltanto martellare il cuore nelle orecchie a ritmo di tu sei la mia missione.
Passò l’indice sulla lama appuntita che stava nascondendo dietro la schiena e finse un gemito quando l’altro si spostò sotto di lui e fece sfiorare i loro membri, a malapena coperti da dei pantaloni di cotone. Si abbassò sulle labbra del biondo, così da custodire dentro di sé l’ultimo respiro, e affondò la lama sulla sua giugulare, in maniera così netta e precisa che in tre secondi la vita aveva abbandonato gli occhi cerulei di Steve Rogers.
Aveva portato a termine la sua ultima missione.

   
 
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