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Autore: _Frame_    24/11/2019    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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210. Un ultimo sogno e L’ultimo tramonto

 

 

Even if our countries are different,

If our words are different,

If our characters are different,

I always want to... gaze at the same moon as you.”

 

(Aiyaa Four Thousand Years, Yuki Kaida)

 

 

 

 

Giappone fece dondolare le gambette dal gradino del portico su cui era seduto, senza però riuscire a toccare il suolo con le punte dei piedini. I sandaletti di legno troppo larghi a ciondolare dalle piante dei piedi e la cinta di stoffa allacciata in vita pendere attorno ai fianchi ancora troppo magrolini. Sistemò la tavoletta con i fogli da disegno sulle ginocchia piegate, strinse il pennello gocciolante fra le piccole dita, e sollevò lo sguardo contemplativo, andando incontro alla luce della luna piena che si specchiò nelle profondità dei suoi larghi occhi neri.

Un tenue chiarore argentato ne coronava la forma gonfia e tozza, sospesa nel cielo, frastagliandosi fra le chiome degli aceri che crescevano nel boschetto circostante. Si alzò un flebile e scricchiolante alito di vento che rimestò un delizioso e muschiato profumo d’autunno, di bosco, di corteccia umida e di legna appena arsa, mescolato agli aromi speziati della cena che poco prima Giappone aveva preparato e mangiato assieme a Cina.

Giappone si strofinò il pancino sazio di quel dolce tepore che ancora gli deliziava le labbra e guardò di nuovo la luna che quella sera splendeva solo per lui, come un faro. Intinse ancora il pennello nella china, guidato da quel senso di benessere, e riprese a disegnare, sentendone un bisogno irrefrenabile, come ogni volta in cui era felice nonostante la lontananza da casa.

Alle sue spalle, giunsero rumori ovattati dalla cucina dove Cina stava finendo di sfaccendare. Lo scroscio dell’acqua corrente, i piatti di ceramica rimestati nell’acquaio, il trillo delle posate, e lo sfrigolio delle padelle ancora roventi da cui stava raschiando via l’olio. Dalle tendine socchiuse fuoriuscì una spumosa scia di vapore. Un profumino invitante di salsa agrodolce, di carne d’anatra, di carta di riso avvolta in verdure saltate, di frittura di verza e gamberetti, e di pastella dolce.

“Giappone?” Lo scroscio dell’acqua s’interruppe, lo sfrigolio delle padelle roventi si abbassò fino a svanire, e ci fu solo un ultimo clangore di piatti che venivano impilati. Uno zoccolare di sandali si avvicinò al portico, battendo lenti passi sul pavimento di legno. “Giappone,” lo chiamò ancora Cina. “Sei in giardino? O sei già di sopra a dormire?”

Giappone arrestò il movimento della mano, contrasse le dita che reggevano il pennello, e si girò di scatto verso il richiamo. Socchiuse la bocca per rispondere, ma le parole rimasero incastrate in gola, come succedeva ogni volta che non riusciva a trovare in tempo quelle adatte.

L’ombra di Cina si allungò sul portico e attraversò lo spacco delle tende. “Sei qui?” Cina scostò la tenda e si materializzò sulla soglia, ancora circondato da qualche dolciastro sbuffo di vapore proveniente dalla cucina. Si guardò attorno un paio di volte prima di posare lo sguardo sul gradino dove Giappone sedeva da solo. “Ah, eccoti.” Stava reggendo un piattino con la mano libera. “Potevi rispondermi, prima. Mi hai fatto preoccupare.”

Giappone raccolse un singhiozzo di fiato per farfugliare qualche sillaba di scuse. “M-mi...” Le sue guance arrossirono, il cuoricino batté più veloce, lo stomaco si strinse in un nodo d’agitazione, e il peso d’inadeguatezza cadde a schiacciargli il petto. “Mi dispia...”

Cina attraversò la tenda e si sedette sul gradino affianco a lui, inondandolo con quella sua presenza solenne eppure anche così familiare e rassicurante nella quale Giappone si sentiva sempre protetto. Posò il piattino fra loro. “Ti va qualche dolcetto? Sono freschi, deliziosi.” Rise, senza alcuna malizia. “O non hai più spazio dopo la cena?”

Giappone strinse la tavoletta da disegno al petto e si sporse ad arricciare la punta del nasino, catturato dal profumo di quei dolcetti dalla crosta caramellata, lucida e brunita. Si lasciò solleticare di nuovo da un impeto di golosità, nonostante la sazietà della cena, e il suo pancino brontolò. “Dolci?”

Cina annuì, gli avvicinò il piatto. “Con la marmellata di azuki, la tua preferita. Assaggiane uno e dimmi cosa ne pensi, su.”

Giappone posò il pennello, raccolse un dolcetto e lo rigirò un paio di volte. Lo addentò. La sua bocca si colmò di un sapore dolce, soffice, e tanto delizioso da fargli brillare gli occhi e sorridere il cuore. “È...” Il sapore dolce della pasta unito a quello più fresco della marmellata di fagioli rossi lo riportò a casa, lo accompagnò di nuovo nel suo paese, a passeggiare fra le canne di bambù, a sguazzare in mezzo ai petali dei fiori di ciliegio, a cogliere le foglie d’acero rosso che galleggiavano nei laghetti, a osservare le albe che sorgevano ogni giorno fra le pendici dei monti innevati. Ne morse un altro boccone e mangiucchiò con più voracità.   “È buono.” Si leccò le punte delle dita e quasi gli dispiacque di non riuscire a sorridere a Cina, a mostrare la sua gratitudine davanti a quel turbinio di emozioni che gli erano soffiate attraverso l’anima.

Cina sorrise per entrambi, come se capisse. Era chiaro: Cina capiva sempre ogni cosa. “Ero sicuro ti sarebbero piaciuti. Se vuoi posso preparartene ancora nei prossimi giorni. È la stagione adatta.”

Giappone annuì – la testolina china e gli occhi bassi – e sgranocchiò anche l’ultimo boccone.

Cina rivolse uno sguardo incuriosito alla tavoletta da disegno appoggiata sulle ginocchia di Giappone, al pennello sporco di china, e a qualche foglio che aveva scartato. “Ah, ti stai esercitando ancora con gli ideogrammi?”

Giappone compì uno scatto. “Ah!” Un battito di cuore gli rimbalzò in gola. “E-ecco, io...” Tese la mano per raggiungere i fogli. “Veramente...”

“Non sono difficili una volta fatta l’abitudine, vero?” Cina fu più veloce e raccolse la tavoletta dalle sue ginocchia. “È tutta questione di...” Batté le palpebre, dapprima confuso, e sgranò gli occhi, irradiato da un’espressione sbalordita che gli strappò il fiato dal petto. “Oh.”

“P... per favore.” Giappone abbassò la tavoletta e nascose il suo faccino mortificato dietro le ciocche corvine cadute sulle guance di nuovo rosse d’imbarazzo. “Non guardarlo ancora.”

Cina invece tornò a sollevare la pagina inchiostrata per ammirare meglio il disegno. I suoi occhi erano ancora lucidi d’incanto. “Incredibile.” La raffigurazione di una luna, identica a quella che splendeva su di loro in quella stessa sera, riempiva il foglio con gli stessi giochi d’ombra e di luce infossati fra i crateri, le stesse chiome degli alberi a rosicchiarne l’arco inferiore che toccava il profilo del boschetto, e la stessa nuvoletta a sbavarne il contorno. La luna d’inchiostro era così viva da dare l’impressione di poterla afferrare ed estrarre dal foglio, come se Giappone fosse stato in grado di ritagliare un angolo di cielo per incollarlo direttamente sulla carta. “È davvero bellissima.”

“Oh. I...” Giappone si strinse nelle spalle, tenendo sempre bassa quell’espressione imbarazzata. “In realtà...”

“È il più bel disegno che ti ho mai visto fare finora, lo sai?” Cina gli restituì il foglio.

“No. Non...” Giappone strinse la tavoletta al petto. “Non è ancora finito.”

Cina rinnovò il sorriso. “Non vedo l’ora di poter ammirare l’opera completa, allora.” Accavallò le gambe, lasciando anche lui penzolare un piede dal gradino, e pescò un dolcetto dal piatto. Lo smangiucchiò godendosi il tepore della serata autunnale, la maestosa visione della luna che piena che pareva respirare attraverso il bosco scosso dal venticello. “Diventi ogni giorno più bravo, sai? Dovresti esercitarti più spesso, e magari potremo anche incorniciare i tuoi lavori più belli e appenderli in casa.”

Giappone divenne paonazzo al pensiero. “No.” Scosse il capo. “Mi imbarazza.”

“E perché dovrebbe?” rise Cina. “Anzi, dovresti esserne fiero.”

“Potrei...” Il rossore sbiadì dalle guance di Giappone. Sul suo visetto cadde la solita ombra di inadeguatezza che gli incupiva lo sguardo ogni volta in cui la familiare nuvoletta di dubbi e paure sorgeva a brontolare e a soffocare i suoi pensieri. “Potrei non essere bravo quanto dovrei.” Stropicciò una manica fra le piccole dita. “Potrei non esserlo abbastanza.”

“Sciocchezze.” Cina finì il suo dolcetto. “Non esiste un modo per essere bravo quanto dovresti, te lo garantisco. Sarai sempre bravo abbastanza, qualunque cosa deciderai di fare. L’unico che avrà il potere di porre dei limiti sulle tue capacità sarai tu, perciò non impensierirti. L’importante sarà sempre e solo fare del tuo meglio.”

“Oh.” Giappone batté gli occhi. Il suo sguardo si rasserenò. “Fare del mio meglio.” Staccò la tavoletta da disegno dal petto e tornò a studiare la luna che aveva raffigurato. I crateri non proprio identici a quelli veri, il contorno un po’ troppo tremolante, le cime degli alberi fin troppo scosse – ma non un lavoro terribile come gli era apparso a un primo sguardo. Domani potrò fare meglio, si consolò. Ogni notte potrò riprovare a disegnare la luna, a raffigurarla meglio. Anche se... “Perché la luna è diversa ogni notte?”

Cina rivolse quel suo sereno sorriso al cielo. “La luna è sempre la stessa.” Pettinò una ciocca di capelli dietro la spalla. “Ciò che cambia è solo il modo in cui noi la percepiamo.”

“E perché?”

“Perché dipende dal suo ciclo.” Cina sollevò il braccio, facendo scivolare la manica all’indietro, e percorse il contorno argentato con l’indice. “La luna segue un suo ciclo, come tutto ciò che ci circonda. Le piante, i fiori, gli animali, le stagioni, e anche gli uomini.”

“E anche le nazioni?”

“Anche le nazioni,” annuì Cina. “Tutto quanto. Tutto ha un suo ciclo che richiede il suo tempo. Ed è questo che fa il tempo: cambia continuamente le cose, anche se a volte non ce ne accorgiamo nemmeno.”

“Le cambia bene o le cambia male?”

Cina quasi rise. “Le cambia e basta. Per qualcuno saranno cambiamenti buoni e per altri saranno cambiamenti cattivi. È proprio come l’immagine della luna, se ci pensi a fondo. Lei è sempre la stessa, tutto ciò che cambia è la sua prospettiva.”

Giappone sospirò, assaporando le sillabe di quella parola così nuova e adulta. “Prospettiva.”

“Sì,” confermò Cina. “Proprio come quando disegni. Ciò che ritrai è solo la tua prospettiva.”

“Oh.” Giappone tornò a chinare il visetto, a rigirare la tavoletta da disegno, e si strofinò i capelli dietro l’orecchio, stropicciando un’espressione confusa. “Capire bene queste cose è più complicato di disegnare, però.”

Questa volta, Cina rise di gusto. “Sì.” Tornò ad annuire. “Sì, hai proprio ragione.” Gli fece correre una carezza fra i capelli, non troppo insistente, e gli sfilò la mano dalle ciocche. A Giappone non piacevano le carezze. “Ed è per questo che io ti starò affianco per spiegarti tutto quello che vorrai, ogni volta in cui ne avrai bisogno. Per ora, tutto ciò che devi imparare è che questi cambiamenti non possono essere fermati. Anche se a volte sarai tu a percepirli come cattivi, ingiusti, o addirittura dolorosi. Ogni cosa ha un suo ciclo, ed è nostro dovere rispettare questo ciclo, senza sentircene spaventati.”

Giappone reclinò il capo di lato. “E non possiamo fare niente se a volte desideriamo cambiarlo come vogliamo noi?”

“Uhm,” meditò Cina. “Pensa a questo.” Levò un indice al cielo, tornando a far ciondolare la manica attorno al polso. “Se io ti donassi un fiore, tu saresti in grado di farlo sbocciare quando desideri?”

“Io...” Giappone si guardò i piedini dondolanti, corrugò lievemente la fronte, pensieroso, immaginandosi le fioriture dei ciliegi che esplodevano solo una volta all’anno, e scosse il capo. “No. Non potrei.”

“Proprio così,” rispose Cina. “Dovresti rispettare il suo ciclo, anche se vorresti vederlo fiorire immediatamente. Ricorda: anche il più bello e profumato dei fiori non può mostrare i suoi colori per un anno intero. Se tu rispetterai il ciclo di tutto ciò che ti circonda, allora anche la natura stessa rispetterà i tuoi limiti senza ostacolarti.” Raccolse il pennello con cui Giappone aveva disegnato e lo raddrizzò, disponendolo parallelamente alle assi del portico. “Equilibrio, pazienza, perseveranza, gentilezza e rispetto per il ciclo del tempo. Questi sono i valori che dovranno guidarti durante tutta la tua vita, ancor più perché dentro di te non dimora un’anima soltanto, ma centinaia di migliaia, e questo peso diventerà sempre più grande. Senza equilibrio e senza la giusta disciplina, non saresti mai in grado di sostenerlo.”

Un peso sempre più grande? Giappone accostò una mano al petto, strinse le dita sul battito del suo cuoricino, e quella pesante consapevolezza palpitò sotto il suo tocco, gli illuminò lo sguardo in un abbaglio. Riscoprì quella consapevolezza che ogni giorno si faceva più viva e concreta dentro di lui. La consapevolezza di essere una creatura fuori dal comune, di custodire dentro di sé tante anime diverse che avrebbe dovuto far convivere in armonia con tutto ciò che le circondava. Ne sarò mai in grado?

“La luna che vediamo qui...” Giappone si sfilò la mano dal petto e di nuovo rivolse lo sguardo alla luna, a quella sua luce malinconica. “È la stessa che si vede anche nel mio paese, allora?”

“Certo,” gli disse Cina. “Ogni notte. Ed è la stessa che si vede in tutti gli altri paesi del mondo.”

“Ma gli altri allora la vedono in maniera diversa.”

“In certi casi sì.”

“E allora come facciamo a sapere che è davvero la stessa luna?”

Fra le sottili labbra di Cina sorse un sorriso spontaneo. “Lo sai...” Anche nei suoi occhi si specchiò una luce diversa, più distante e profonda, antica come la foresta che li circondava e saggia come la luna che vegliava su di loro. “Hai ragione. A volte il mondo ci appare così diverso, visto da due prospettive differenti, che è facile dimenticarsi di stare in realtà guardando la stessa cosa.” Trasse un sospiro profondo, socchiuse le palpebre. “E a volte è molto più facile lottare per far valere unicamente la propria idea, anziché fermarsi, osservare meglio, forzarsi di guardare anche con gli occhi di chi ti sta affianco, e rendersi conto che si sta osservando la stessa cosa. È per questo che molte volte gli uomini e anche le nazioni decidono di lottare fra di loro, di scatenare dei conflitti.”

“È perché pensano di più a quello che vedono in maniera diversa invece che a quello che vedono in maniera uguale?”

“Bravo.” La voce di Cina squillò di gioia nel sentirglielo dire. “Proprio così. Perché ci si focalizza di più sulle proprie differenze anziché su ciò che si ha in comune. E così è anche per la luna. Per esempio...” Tornò a indicarla, a tracciare i contorni dei crateri ora puliti, senza alcuna nuvola a sbavarne la nitidezza. “Io ora ci vedo un piccolo coniglietto che pesta la sua medicina nel mortaio. Tu invece cosa ci vedi?”

“Uhm.” Giappone lo imitò, volgendo anche lui il visetto alla luna, e restrinse le palpebre per concentrarsi sulla sua superficie butterata di crateri. “Un...” Reclinò la testolina di lato, assottigliò la vista e ne studiò ogni ombra, ogni rientranza, ogni sbavatura di luce emanata dalla sua superficie. Le lunghe orecchie di un coniglietto ritto sulle zampe posteriori, un pestello sorretto fra quelle anteriori, e una ciotola a riempire l’altra metà della luna. “Anche io vedo un coniglietto, ma...” Si lasciò di nuovo sfiorare da una carezza di nostalgia. “Ma sta preparando la pasta per fare i mochi.”

“Ecco,” gli sorrise Cina. “Hai visto? È facile vedere due cose differenti. Eppure stiamo entrambi osservando la stessa identica luna.”

“Perché tu sei vicino a me,” gli rispose Giappone, ancora incerto. “E io sono vicino a te. Ma come faccio a sapere che...” Si strinse nelle spalle e stropicciò la cinta di stoffa fra le dita. “Che io vedo la stessa luna di una nazione che vive dall’altra parte del mondo?”

“Allora dovresti porti un’altra domanda.” Di nuovo gli occhi scuri di Cina si fecero seri ma gentili, pazienti come lo erano ogni volta in cui si ritrovavano a impartirgli una lezione importante. “Perché hai deciso di guardare la luna?” Snodò la gamba accavallata, batté piano il palmo sul gradino di legno. “Questa sera tu hai deciso di uscire, di sederti a disegnarla qua sul portico, non è vero? Come mai sei uscito anziché rimanere in casa?”

Giappone si ritrovò attraversato da un battito di soggezione. Davanti a quegli occhi antichi che molte volte non riusciva a decifrare e nei quali si sentiva annegare, in lui nacque una nuova consapevolezza. La consapevolezza di essere un’anima infinitamente più piccola rispetto a quella di Cina che palpitava di solennità. Davanti a quel maestoso sole millenario, era Giappone la vera luna – solo un pallido riflesso dello splendore dei suoi raggi. “Per...” Inspirò, strinse le manine sotto le maniche, e agguantò una presa di coraggio. “Per vederla meglio. E perché c’è la sua luce che mi fa vedere bene il foglio.”

Cina annuì. “Esatto.” Disegnò un ampio arco con la mano attorno alla sua forma tondeggiante. “Tutti osserviamo la luna per la stessa ragione, ossia ritrovare la sua luce quando ne abbiamo bisogno. La luna fa questo in ogni luogo in cui la si osserva, anche se la si vede in forme differenti. E così sarà per sempre. Ricordati questo, Giappone.” Il suo sorriso si fece più triste, più distante. “Io forse non potrò esseri sempre affianco quando avrai bisogno di aiuto. Forse un giorno intraprenderemo strade separate, e prima o poi dovrai imparare a camminare solo con le tue gambe. Ma la luce della luna sarà sempre presente quando ti sentirai perso nel buio. E così vale per tutti.”

Negli occhi di Giappone sbocciò una scintilla di curiosità. “Per tutti chi?”

“Per tutti quelli che si sono persi e che hanno bisogno di ritrovare la loro strada.” Cina intrecciò le dita, giungendo le mani sotto gli orli delle maniche. “Ogni volta in cui tu ti sentirai perso nel buio, ricordati di alzare lo sguardo e di osservare ciò che ti circonda, invece che fissare solo i tuoi piedi che camminano. È così che ritroverai la luce, ed è così che la luce ritroverà te.”

“Sguardo alto?”

“Proprio così,” affermò Cina. “A sguardo alto. È proprio tenendo lo sguardo alto e aperto sul mondo che ti circonda che riuscirai a distinguere il tuo cammino, Giappone. Per questo non dovrai mai avere paura del mondo.” Raccolse l’ultimo dolcetto avanzato nel piattino. “Segui la tua luce, permetti agli altri di osservarla e di condividere la propria...” Lo spezzò in due e porse a Giappone la metà più grande. “E il mondo non sarà mai un luogo troppo oscuro in cui vivere e prosperare.”

La luce della luna che vegliava su di loro impresse per sempre quella lezione nel cuore di Giappone, con la stessa semplicità con la quale lui aveva inchiostrato il suo ritratto sulla carta.

Un’altra notte condivisa, un altro ricordo forgiato nei loro animi, un’altra luna guardata assieme sotto lo stesso cielo, un nuovo insegnamento, e tutta l’eternità per metterlo in pratica.

 

♦♦♦

 

6 dicembre 1941

Stato fantoccio di Manciukuò

 

L’olio aveva finito di bruciare, consumato dalla lampada ormai spenta, e Cina si risvegliò ritrovandosi al buio, ribaltato fra i cuscini, con una ciocca di capelli fra le labbra schiuse, un braccio schiacciato dal fianco, l’altro piegato sopra la testa, e gli occhi umidi affacciati all’ambiente appannato, pregno dell’odore d’inchiostro fresco.

Cina arricciò la punta del naso, emise un breve mugugno che rimbombò attraverso la testa invasa dal ronzio di un’emicrania, si rotolò sull’altro fianco e incrociò le braccia intorpidite sotto il petto, sfiorando l’orlo del tavolino con la fronte. Impastò la bocca che sapeva di carta e si stropicciò le palpebre, lasciando svanire le immagini di quel sogno così vivido, ancora impresso nei suoi occhi. Ho dormito?

Indurì le spalle senza provare alcuna fitta di dolore, inarcò la schiena senza udire alcuno schiocco delle vertebre, e trascinò una gamba fra i cuscini, trovandola appesantita come dopo una lunga e riposante dormita.

Batté la mano sul tavolo, urtò il pennino, fece rotolare a terra una delle ultime lettere scartate e accartocciate, e per poco non ribaltò la boccetta d’inchiostro ormai asciutto. Trascinò le ginocchia al ventre per mettersi seduto, si tolse i capelli dalla faccia e si diede una strofinata alla nuca. Gli occhi ancora annebbiati dal sonno e dall’oscurità. Com’è buio. Sarà già notte fonda. Ma quanto avrò dormito? Reclinò il capo all’indietro e trasse un lungo sospiro dalle narici. Incredibile, mi è bastato chiudere gli occhi per addormentarmi subito. Non mi capitava da mesi.

Le immagini da cui era appena emerso gli rimbalzarono addosso come tanti zampilli d’acqua. Il gonfiore della luna piena, il visetto di Giappone da piccolo, i suoi occhi scuri e attenti, la tavoletta da disegno custodita fra le sue manine, i dolcetti della luna che avevano condiviso in quella lontanissima serata d’autunno.

E ho anche sognato.

Aveva ancora i brividi. Cina si coprì meglio, dandosi una strofinata a spalle e braccia, ma la sensazione sgradevole gli rimase incollata alla pelle, impossibile da raschiare via anche a suon di unghiate.

Che strana sensazione.

Il vento entrò dalla finestra aperta, scosse le tendine, mosse le lettere accartocciate, e fischiò un sussurro incomprensibile alle orecchie di Cina. Il suo cuore emise un tonfo basso e profondo che gli annodò lo stomaco, i nervi si tesero, colti da una scossa d’allarme, e i suoi occhi si disfarono della patina di sonno, tornando larghi e vigili, turbati da un unico pensiero, da un unico presagio.

Giappone...

Cina rievocò quel nome dalle profondità del sogno in cui si sentiva ancora immerso. Quel ricordo così dolce si annerì, carbonizzato da un’ombra che gli trasmise un improvviso e spiazzante senso d’urgenza che bruciò attraverso il sangue.

Scrutando il cielo notturno attraverso lo sventolio delle tende mosse dal vento, si accorse che qualcosa stava cambiando e che lui doveva sbrigarsi.

Stava per succedere qualcosa.

Devo avvertire Inghilterra.

Cina si rialzò con uno scatto di ginocchia, ricadde con un gomito fra i cuscini, si sbracciò per spogliarsi e calciare via la veste serale, si gettò contro l’anta dell’armadio che aveva lasciato aperta, strappò via la giacca dall’appendiabiti e si rivestì in fretta e furia.

Sta per succedere qualcosa. Qualcosa che deve essere fermato. Quel brivido gli rimase addosso, doloroso come un boccone andato di traverso, insistente come un sassolino infilato nella scarpa. Ma ora Cina sapeva cosa fare.

Corse via e uscì senza nemmeno richiudere la porta. Boccheggiò una scia di fiato bianco nel freddo della notte e raccolse i capelli nella presa dell’elastico, senza curarsi di qualche ciocca rimasta a sventolargli contro le guance e le orecchie. A meno che non sia già troppo tardi.

 

.

 

Il militare che presiedeva alla base del Quartier Generale mostrò un’espressione austera, intagliata nel viso granitico, e scosse il capo con intransigenza. “Sono desolato, ma ora non è possibile contattarlo.”

“Cosa?” Cina picchiò le mani sulla scrivania che li separava, facendo traballare una pila di documenti. S’infiammò di rabbia e d’impazienza. “E perché no?” Strinse i pugni facendo stridere le unghie sul legno laccato. “Io ho tutto il diritto di parlarci, e questo è un ordine. Esigo che mi mettiate subito in contatto con l’ambasciata di Londra. Ascoltate pure quello che abbiamo da dirci, non è questo che mi preoccupa.” Scoccò un’occhiata dietro di sé, da sopra la spalla, ma non riuscì a incrociare lo sguardo degli altri due militari armati che sorvegliavano l’entrata della camera da sotto l’ombra dei copricapo. Li guardò con sufficienza. “So di essere già abbastanza monitorato anche così.”

“Signore,” disse l’uomo che gli era davanti. “Sono sicuro che qualunque cosa lei senta la necessità di...”

“No, voi non capite,” esclamò Cina. “Qui non si tratta di una mia necessità.” Si premette la mano sul petto e si tirò sulle punte dei piedi per sporgersi più avanti. “Se non gli parlo subito saremo tutti in pericolo, non lo capite?”

“Anche se...”

Un altro ufficiale s’infilò nella penombra della camera, raggiunse il collega che si trovava dietro la scrivania, e si chinò a mormorargli qualcosa all’orecchio, coprendo il movimento delle sue labbra.

L’uomo contrasse le estremità delle sopracciglia, lo squadrò di traverso, spiazzato, labbra socchiuse, e l’altro annuì prima ancora di dargli il tempo di intervenire.

Si schiarì la voce e tornò a rivolgersi a Cina. “Come le stavo dicendo, anche se fossimo autorizzati a metterla in contatto con l’ambasciata, non sarebbe possibile farlo. Non ora.” Socchiuse le palpebre e rivolse uno sguardo complice all’uomo che gli aveva appena parlato. “Lui non si trova a Londra, a quanto ci risulta.”

“N-non è...” Cina riabbassò i talloni, tornando con i piedi a terra, e tirò le spalle all’indietro. Inarcò un sopracciglio. Inghilterra non è a Londra? Ma cosa... “E dove si trova, allora, si può sapere?”

“Non ci è stato comunicato.”

“Be’, datevi da fare e cercatelo!”

“Non ci è permesso farlo.”

“Oh, per l’amor di...” Cina strizzò i pugni fino a sentire spruzzi di fuoco guizzare fra le dita, digrignò i denti, ricacciò indietro un grugnito vibrante, si scostò una manata di capelli spettinati dalla fronte, e diede le spalle ai due uomini. Grandioso. Non aspettò che gli aprissero la porta. Lo fece da solo con un calcio e marciò fuori dall’edificio. Le vigili occhiate dei militari di guardia gli rimbalzarono addosso e finirono incenerite dalla sua fiammeggiante aura di nervosismo. Il conflitto fra America e Giappone potrebbe scoppiare da un momento all’altro e Inghilterra si mette a scomparire in giro per il mondo. Lui che sarebbe l’unico in grado di avere una qualche influenza per lo meno su America. Non posso credere che stia vivendo questa situazione con tutta questa superficialità, nonostante tutto quello che ci siamo detti.

Imboccò l’ampio stradone che conduceva all’inferriata e all’uscita del complesso di edifici, dove un’altra coppia di militari lo aspettava affianco all’auto per ricondurlo a casa. I rabbiosi passi di Cina scricchiolarono sulla ghiaia, risuonarono nell’eco della notte e gli pulsarono nelle orecchie a ritmo del battito accelerato del suo cuore. Cina se ne accorse solo in quel momento, trafitto da un brivido di disagio. Si stava guardando i piedi.

Arrestò di colpo il passo. Si massaggiò la fronte, ancora frastornato dal ricordo del sogno che continuava a perseguitarlo, “Ogni volta in cui tu ti sentirai perso nel buio, ricordati di alzare lo sguardo e di guardare ciò che ti circonda, invece che fissare solo i tuoi piedi che camminano. È così che ritroverai la luce, ed è così che la luce ritroverà te”, e levò gli occhi al cielo, andando incontro al riverbero della luna.

Un sospiro d’incanto gli scivolò fra le labbra e si condensò in un soffio bianco.

Oh. Qui la luna si vede bene.

Avevano appena passato il plenilunio. La sua forma ancora gonfia e brillante gli trasmise una morsa di tristezza e nostalgia, la stessa che aveva provato dopo essersi risvegliato con in mente il ricordo di Giappone, del suo visetto tondo e dei suoi occhi ancora così puri e innocenti, estranei alle crudeltà della guerra da cui Cina aveva sempre cercato di proteggerlo.

Cina sospirò. Il cuore pesante e il riflesso della luna a specchiarsi nei suoi occhi lucidi.

Distese un braccio, spalancò la mano schiudendo le dita come un ventaglio, e ne afferrò l’immagine, desiderando strapparla dal cielo e donarne la luce a chi ne aveva più bisogno, a chi ormai aveva smarrito il cammino. Dovunque tu sia, Giappone, qualunque scelta tu abbia deciso di compiere, prego ancora che tu riesca un giorno a ritrovare la tua luce in mezzo al buio e che tu sia ancora in grado di risollevare lo sguardo da terra, riprendendo consapevolezza del mondo che ti circonda. Strinse il pugno, inghiottì quel faro d’argento che vegliava sul mondo intero. Mi auguro che tu ti ricordi ancora di osservare la luna nel momento del bisogno.

Cina si strinse nella giacca, si rimise in cammino a passo più lento lungo lo stradone di ghiaia, e affidò quell’ultima preghiera alla luna. Alla luna che, in quella stessa notte, era già sporca di sangue.

 

♦♦♦

 

6 dicembre 1941

Largo dell’Oceano Pacifico

Bordo della Portaerei Akagi

 

Un ansito scosse il respiro assopito di Giappone, lo fece sobbalzare sulla cuccetta della sua cabina e lo svegliò di soprassalto. Le dita bianche e sudate strette alla coperta sotto la quale non si era nemmeno infilato, gli occhi spalancati rivolti al soffitto, un anello di stordimento a stridere attorno alla testa appesantita, e le immagini di quell’ultimo sogno a scorrere nell’oscurità dove ancora non riusciva a distinguere e ad assemblare le ombre.

Giappone inspirò fra le labbra secche, e il suono di quel flebile soffio d’aria gli rimbombò nel petto e nelle orecchie. Un... sogno? Socchiuse gli occhi, ritrovandosi ancora a galleggiare nel dormiveglia, in quell’agrodolce e nostalgico sapore che il sogno gli aveva spalmato sulle labbra.

Si girò sull’altro fianco, rannicchiò le ginocchia al ventre e strinse le mani sulle spalle. Non le trovò più piccole e paffute, ma lunghe e affusolate. Contrasse le dita e non incontrò la resistenza del pennello con cui aveva disegnato, ma la stoffa della giacca. Annusò l’aria e tastò l’aroma del legno verniciato della cabina e quello stopposo del cuscino, non più quello speziato delle pietanze di Cina, del suo tè, degli involtini di verdura e dei dolcetti della luna che condividevano durante le serate d’autunno trascorse sul portico a osservare il cielo notturno.

Un sogno, si ripeté Giappone, provando una fitta di amarezza in fondo al petto. Solo un sogno. E sempre lo stesso che mi perseguita da giorni, per di più. Dalla prima notte che ho trascorso a bordo della portaerei, dalla prima notte in cui ho intrapreso la mia rotta in mezzo al Pacifico per raggiungere le Hawaii. Rilassò la tensione dei muscoli, lasciando ricadere le braccia sul materasso. Si strofinò i capelli. Chissà perché...

“Ti eri addormentato.”

Giappone tornò a voltarsi.

La sua ombra lo osservava, seduto sul ciglio della cuccetta. Lo sguardo enigmatico e imperscrutabile attraverso l’oscurità della cabina. “Hai dormito per ore.”

Giappone strinse la mano fra i capelli e batté le palpebre, ancora stordito. “Stavo sognando.” Soffiò un sospiro stanco. Le labbra ancora secche e amare. “Credo.”

La sua ombra sollevò l’estremità di un sopracciglio. “Sul serio?”

“Sì.” Giappone annuì. “Sempre lo stesso sogno, da giorni.”

“Cos’hai sognato?”

“Io...” Il calore di Cina dopo che gli si era seduto affianco, il senso di orgoglio che gli aveva gonfiato il cuoricino di una gioia disperata quando lui si era complimentato per il disegno, i dolcetti di pasta morbida spezzati fra le sue dita, quegli occhi saggi e antichi che gli si erano avvicinati con pazienza come durante ogni insegnamento, e quelle parole che non erano mai sfumate dalla sua mente. Giappone riscoprì tutta la purezza trasmessa dal rapporto con Cina che non sarebbe mai più tornata, quel bagliore di luce a cui ancora si aggrappava per non sentirsi affogare nel buio e che non voleva venisse intaccato da alcuna ombra. Non gli mentì. “La luna.” Omise solo parte della verità.

La sua ombra reclinò il capo, lo scrutò a fondo da dietro le ciocche di capelli corvini, e spostò lo sguardo sulle pareti spoglie della cabina. “Non dovrai aspettare a lungo per rivederla con i tuoi occhi. Ormai siamo usciti dalla zona delle tempeste, la rotta è stabilizzata, e le navi cisterna stanno già rifornendo tutto il convoglio prima della tratta finale che ci porterà nelle acque delle Hawaii. Abbiamo quasi raggiunto la latitudine da cui far partire gli stormi.”

Quelle parole pizzicarono Giappone con una piccola scossa. La rotta è stabilizzata? Allora io dovrei essere già... “Dovrei andare a controllare che le operazioni si stano svolgendo regolarmente, allora.” Si rialzò dalla cuccetta, si sfilò la giacca sgualcita e ne indossò una pulita dell’uniforme invernale, quella nera. “E devo anche accertarmi che stiano continuando a inviare i quattordici punti del trattato all’ambasciata di Washington, in modo che la dichiarazione di guerra arrivi per tempo e che non ci accusino di calunnie.”

La sua ombra annuì. Si rialzò dal bordo della cuccetta senza alcun rumore e scivolò alle spalle di Giappone. “L’ora è quasi giunta, ormai.”

Uscirono e percorsero assieme i corridoi che s’intersecavano nelle viscere della portaerei.

Giappone si massaggiò la fronte, intrecciò le dita alle ciocche della frangia, allontanò i capelli dallo sguardo e svelò gli occhi ancora appannati dalla nebbiolina di sonno che gli galleggiava attorno, isolandolo dalle vibrazioni delle pareti, dal profumo del pavimento riverniciato, dai rumori provenienti dalle sale della nave davanti cui sfilava il suo passo.

Mentre ancora guardava in basso, lo colse un sussulto assurdo e inaspettato. Mi sto guardando i piedi. Sollevò il capo e posò gli occhi sulle pareti nude come quella della sua cabina. Le toccò, senza incontrare la resistenza di alcuna finestra, di alcun oblò che potesse affacciarsi al cielo del Pacifico. Soffiò un sospiro sconfortato. Avrei voluto osservare la luna almeno per un’ultima volta, prima che sorgesse l’alba.

“Sei pensieroso.” La sua ombra gli avvolse le spalle, gli spinse addosso il peso della sua fredda presenza. “Hai lo sguardo turbato. A cosa pensi?”

Giappone irrigidì la schiena attraversata da un brivido ghiacciato. Divenne più pallido e il suo sguardo vacillò, spogliandosi di ogni difesa. “A...” Non seppe più tenerglielo nascosto. “A Cina,” mormorò. “Sto cominciando a domandarmi cosa penserà di me dopo...” Voltò il capo e tenne gli occhi distanti da quelli color sangue che gli stavano scavando nel cuore e nell’anima. “Dopo tutto questo. Forse sarà deluso.”

“E tu lascia che lo sia,” gli rispose il fiato gelido dell’ombra. “Lui si è scelto il suo destino, tu ti sei scelto il tuo. Non è stato Cina stesso a insegnarti come ogni cosa, anche le nazioni, hanno un loro ciclo da compiere che deve essere rispettato?” Le mani strinsero sulle sue spalle, aumentarono quel peso d’oppressione, e le parole gli scivolarono sulla guancia come la carezza di una lama. “Questo è il tuo. È il tuo ciclo che sta seguendo il suo corso d’evoluzione, che sta ambendo a un livello più alto, e nemmeno lui può intromettersi. Se Cina non può contrastarlo, non ha altra scelta che arrendersi a esso. Non devi sentirti in colpa per aver scelto questa strada.”

“Sì.” Giappone posò una mano sulla sua, socchiuse gli occhi, vi si abbandonò come aveva fatto prima di salpare dalle Isole Curili, quando si era stretto all’oscurità davanti al panorama dell’oceano in tempesta e del cielo plumbeo, trovando conforto in quell’abbraccio solitario. Il ricordo di Cina svanì, spazzato via come una nuvola. “Mi fido.”

Superarono le cabine degli ufficiali, le entrate degli ascensori che portavano al ponte di lancio, e camminarono davanti alle anticamere degli hangar dove alcuni piloti incrociarono il passo fra loro, svanirono fra le file di fusoliere, scambiarono qualche cenno e qualche parola, si radunarono condividendo scodelle colme del tè verde e del sakè caldo che stavano distribuendo nelle cucine. Il profumo pungente del liquore di riso si mescolò a quello del carburante, rinvigorì i volti dei giovani che lo sorseggiarono lentamente, a occhi chiusi, senza alcuna traccia di turbamento a incrinare le loro espressioni plasmate da compostezza e serenità.

Gli aviatori si spostarono attorno agli aerei, s’infilarono nelle cabine di pilotaggio per gli ultimi collaudi, allacciarono le cinte attorno alle tute di volo, regolarono i lacci degli occhialoni, annodarono le sciarpe di lana e rimboccarono i baveri di pelliccia dietro la nuca.

Alcuni erano seduti in gruppo sotto i musi degli Zero. Uno di loro sfogliò dei cartoncini su cui erano ritratti i profili delle imbarcazioni della Pacific Fleet, li fece sfilare davanti agli sguardi concentrati dei compagni che si sbracciarono per fare a gara a indovinarne l’identità.

“Vestal!”

Le loro voci si sovrapposero, squillanti d’entusiasmo.

“No, no, è la Nevada.”

“Nevada, Nevada!”

“California!”

Il pilota che reggeva il cartoncino abbassò l’immagine e trattenne a stento un sorrisetto di rimprovero. “Arizona, somaro.”

Uno di loro rise, diede una piccola pacca alla nuca del vicino. “Ma è sempre ancorata nella Battleship Row.”

L’altro ricambiò con una spallata. “Non sperare che io ci ronzi sopra come un calabrone solo sperando che tu riesca a fare centro su quella giusta, sai.”

“Riproviamo.” Di nuovo il pilota cambiò immagine e la mostrò ai compagni.

Si levarono altre sbracciate, altri cori. “La so, la so!”

“Maryland!”

“Ecco.” Il giovane pilota fece volare un’occhiataccia da sopra il cartoncino. “Questa è davvero la Nevada.”

Tutti risero. “Il Bushido più letale dei cieli.”

“Ehi, attento a non affondare le nostre portaerei.”

Altre risate riempirono l’ambiente dell’hangar.

I pensieri di Giappone si rischiarirono ma il suo cuore si appesantì davanti a quella visione, al senso di protezione provato nei confronti delle vite che avrebbe dovuto sorreggere e guidare fra le mani tremanti che già bruciavano di anticipazione.

L’ombra s’infilò nel turbamento che gli aveva annebbiato lo sguardo. “Non essere in pena per loro,” gli disse. “Sono consapevoli di quello che fanno, conoscono il rischio che corrono, e andranno fino in fondo, tenendo fede a ogni responsabilità nei tuoi confronti. Non c’è niente di più valoroso di un guerriero che dona la vita per il servizio della Patria, o sbaglio?”

Giappone acconsentì senza emettere fiato. Continuò a camminare senza più alcuna esitazione. Alcuni di loro potrebbero perdere la vita, e ne sono pienamente consapevoli. Eppure affronteranno volontariamente la morte per un bene superiore alle loro singole vite. Si posò la mano sul cuore e chiuse gli occhi, come quando da piccolo andava in cerca dei battiti di ogni singola anima dimorata nel suo petto, cercando di distinguerli. Io non morirò, ma sarà comunque mia responsabilità salvaguardare le loro vite, proprio come loro hanno deciso di sacrificarsi per la mia.

Il cielo del conflitto stava per lacerarsi sotto il suo passaggio, per far piovere sangue dietro il suo cammino, per scagliare una tempesta di fuoco e morte su tutto il Pacifico.

Il suo ultimo tramonto di pace. La sua prima alba di guerra.

Le sorti dell’Impero dipendono esclusivamente da voi, giovani guerrieri. Fate tutti il vostro dovere.

 

♦♦♦

 

6 dicembre 1941

Isola di Oahu, Hawaii

 

La lancetta del radar roteò spianando la luce azzurrina del quadrante, si specchiò sulle lenti di America senza captare alcun eco, perdendosi nel suo sguardo insolitamente assente, e continuò a percorrere la circonferenza del suo campo senza emettere alcun battito.

Uno dei due operatori rimpugnò la matita abbandonata fra i fogli spiegazzati e segnò una nuova nota sulla sua cartella. “Ora locale uno-cinque-tre-due. Ancora nessun eco captato.”

America fece scivolare i gomiti dal ripiano del pannello, accasciò le spalle contro lo schienale della seggiola, e batté piano le palpebre appesantite dalla tensione che gli fremeva sotto la pelle come una corrente elettrica. Accavallò le gambe, fece dondolare il piede, i suoi occhi si allontanarono dal pannello del radar e vagarono fuori dal portellone che avevano lasciato aperto. Sospirò, ancora preda di una nuvoletta di turbamenti, e strinse i pugni affondati nelle tasche. La Enterprise non è ancora entrata in porto, e al suo arrivo poi si è aggiunto anche lo stormo di B-17 che stiamo aspettando dalla California. E se penso che quelli a Washington sono ancora dietro a decodificare quei dannatissimi messaggi che continuano a inviare da Tokyo... Corrugò la fronte, aprì e strinse i pugni infilati nelle tasche della giacca, e fece traballare le gambe accavallate. Per di più le comunicazioni fra le Hawaii e gli Stati Uniti sono lentissime, e se ci fosse qualcosa di importante da comunicarmi non riuscirebbe ad arrivare da me in tempo. E cosa succederà, poi, quando quei messaggi smetteranno di arrivare all’ambasciata? Che si tratti di una specie di dichiarazione di guerra spezzettata? Quando si arriva alla fine allora – boom – Giappone attaccherà? Allora io dovrei...

L’operatore si scollò dal monitor e s’infilò la matita dietro l’orecchio. “Be’, non ci aspettavamo di certo di riceverli oggi.” Strinse le braccia al petto. “E comunque se...” Spostò lo sguardo su America e si rimangiò le parole. Incrinò un sopracciglio. “Si sente bene, signore?”

“Uh?” America compì un rimbalzo sulla seggiola. “Io? Bene? Cosa?”

“Non ha un bel colorito,” gli disse l’uomo. “È sicuro di sentirsi bene?”

“Forse ha fame?” L’altro pareggiò le carte dei rapporti appena compilati e buttò un’occhiata al suo orologio. “È quasi ora di cena, dopotutto.”

America si affrettò a scuotere il capo e a gesticolare. “No, no, no, sul serio.” Indicò fuori dal furgone della stazione radar. “Sono solo in pensiero per tutto quello che sta succedendo a Washington, per quei messaggi che stanno continuando a decodificare in ambasciata, e poi anche per la Enterprise che non è ancora arrivata. E se ora devono arrivare anche quei B-17 dalla California, ecco...” Fece spallucce e si diede una strofinata alla nuca. “C’è più lavoro del previsto.”

I due operatori incrociarono un’occhiata ancora scettica.

Uno dei due ammorbidì il tono. “Signore, consideri che oggi è sabato. E ormai non succederà nulla di cui preoccuparsi particolarmente, non fino a lunedì.”

L’altro rise e annuì. “Poi non è che la guerra scoppierà da un’ora all’altra. Perché non va a rilassarsi al porto? Si faccia un drink o due, e vedrà che sia la Enterprise che i B-17 saranno qua prima che se ne accorga.”

“Ma io...”

“Se arriveranno altre notizie importanti riguardo gli ultimi messaggi ricevuti in ambasciata, di certo glielo faranno sapere.”

“Sì,” confermò l’altro operatore. “Non s’impensierisca troppo.” Si batté una mano sul petto, sorrise sotto il riverbero azzurrino e fermo, senza alcun lampeggio a disturbarlo. “Qui ci pensiamo noi a sorvegliare la situazione, dopotutto.”

“Uhm.” America stropicciò un’espressione ancora riluttante, ma un suo piede si era già spostato verso l’uscita della postazione. “Sicuri?”

“Nessun problema, signore.”

“Oh. Okay, allora...” America si alzò, si diede una spolverata alla giacca e mostrò un piccolo sorriso di gratitudine. I suoi occhi però non sorridevano. “Io vado a farmi un giro. Vi faccio mandare su la cena?”

I due annuirono. Uno si rinfilò le cuffie e gli inviò un saluto sventolante. “Si faccia una bevuta anche per noi, mi raccomando.”

America seguì il loro consiglio e s’incamminò da solo per scendere a Pearl Harbor, sapendo già che non si sarebbe fermato a lungo, che non sarebbe riuscito a infilarsi in uno dei locali sulla spiaggia per bere assieme ai suoi uomini e a sbafarsi un panino alla salsiccia dietro l’altro, come di solito amava fare.

Viscido e strisciante come una serpe, quel cattivo presagio che gli era scivolato addosso da quando aveva posato piede a Oahu rimase a fargli compagnia, a torcersi attorno alle sue caviglie, a stuzzicarlo con i suoi sibili e a ridacchiargli dietro l’orecchio. Goditela, America, parve sussurrargli. Goditela finché puoi.

 

♦♦♦

 

Inghilterra posò un primo passo dondolante sul gradino della scaletta di discesa, sentendosi ancora sballottato dalla turbolenza che aveva scosso il loro volo durante tutta la traversata del Pacifico, e si aggrappò con entrambe le mani alla ringhiera metallica. Un brivido di nausea gli torse le budella, lo costrinse a premere un palmo sulla bocca e a reprimere un conato. Divenne verde in viso. Maledizione. Ho la nausea costante, a forza di stare con i piedi per aria. Non mi sembra nemmeno di riuscire a camminare dritto. Le braccia tremarono, i muscoli s’indebolirono e le ginocchia ballonzolarono, dandogli l’impressione di trovarsi ancora sospeso fra le nubi. Inghilterra scosse il capo e iniziò la discesa della scaletta. Devo sbrigarmi a ritrovare America, prima di non avere nemmeno più le forze di reggermi sulle mie stesse gambe.

I motori ancora accesi ronzarono dietro il suo orecchio, il vento tropicale soffiò sul suo viso freddo di nausea, trascinando anche l’odore acre del campo di aviazione. Un aereo da caccia attraversò una delle piste di decollo, sollevò il muso, e sfrecciò incontro al cielo arrossato dal tramonto. Un ufficiale in uniforme bianca raggiunse il fondo della scaletta, irrigidì un attenti e rivolse a Inghilterra un saluto militare.

Inghilterra gli rispose con uno sventolio svogliato e posò il primo passo sulla pista di Wheeler Field.

Una scossa rovente risalì la superficie d’asfalto, gli fulminò la gamba, spremette il battito del suo cuore fino in gola e gli ghiacciò il sangue, risucchiando ogni colore dalle guance e incollandogli la mano sudata attorno alla ringhiera.

La terra tremò, il vento gli fischiò nelle orecchie trascinando un lamento spaventato, il cielo si fece scuro, il sole così basso e carico di presagio gli suggerì che una minaccia era in agguato dietro i promontori scoscesi dell’Isola di Oahu.

Inghilterra sbiancò. Gli occhi sgranati e le labbra socchiuse, ammutolite da quel crampo di dolore affondato nel suo stomaco. Cos... cos’è stato? Ho... Arretrò di un passo, tornando con entrambi i piedi sulla scaletta. Si guardò attorno e si diede una sfregata alle spalle e alle braccia. Nonostante l’aria tropicale, batté i denti per il freddo. Ho i brividi.

“Inghilterra?”

La voce di Canada lo fece sobbalzare.

Canada arrestò il passo qualche gradino più in alto del suo e gli rivolse uno sguardo turbato e premuroso. “Ti senti bene? Sei pallidissimo.”

Inghilterra riguadagnò una boccata di fiato. “Io...” Fu come ingoiare un pugno di sabbia. Resistette a un altro capogiro e si prese la fronte per arrestare le vertigini. Si massaggiò le tempie e strinse gli occhi per allontanarsi dalla luce del tramonto, da quel sole che pareva una palla di sangue. Va tutto bene, si convinse. È solo stanchezza. Sono esausto, non mangio decentemente da giorni, è da settimane che mi sto strapazzando da un capo all’altro del mondo, e mi passerà tutto una volta che troveremo America e che potrò stare tranquillo vedendolo al sicuro. “Io credo che faremmo meglio a trovare America e ad andarcene da qui prima che mi passi la voglia di rimontare su un altro dannatissimo aereo.”

Un secondo ufficiale vestito di bianco smontò da un furgone parcheggiato di fronte a uno degli hangar, attraversò la pista e raggiunse il militare fermo in fondo alla scaletta da cui Inghilterra e Canada stavano smontando. I due discussero, le loro parole vennero coperte dalle folate di vento, dai ronzii dei motori ancora accesi, e si scambiarono un cenno di assenso. 

Quello appena arrivato li accolse a sua volta dal fondo della gradinata. “Signori.” Batté un saluto sotto il copricapo. “Benvenuti a Oahu, signori. Prego...” Si girò a indicare il furgone. “Provvediamo subito a scortarvi fino a Opana Point.”

Inghilterra e Canada sgranarono la stessa occhiata scossa di perplessità. “Opana Point?”

L’uomo annuì. “Se è lui che state cercando, ci hanno appena informati che è stato visto l’ultima volta all’osservatorio, per un lavoro di sorveglianza alla base radar.” Inarcò un sopracciglio. “A meno che voi non...”

“No, no.” Inghilterra lo interruppe con uno sventolio di mano. “Va benissimo.” Basta che ci portiate da America il più in fretta possibile e sperando che non si trasformi in un’ennesima corsa senza scopo. Si fece guidare attraverso la pista di Wheeler Field, si spostò per permettere a Canada di montare sul furgone prima di lui, si lasciò alle spalle quella scossa di disagio che lo aveva fulminato appena sceso dall’aereo, e si abbandonò a un sospiro impotente. “Andiamo a Opana Point, dunque.”

 

.

 

Inghilterra sbiancò per la seconda volta nel giro di una giornata. Barcollò di lato, cadendo fra le braccia di Canada che gli impedirono di accasciarsi a terra, in mezzo all’erba, e spalancò la bocca in un muto gemito di esasperazione. “Che cosa vuol dire che se n’è appena andato?” La voce uscì flebile. L’ultimo affranto sospiro del suo cuore troppo stanco di correre in giro per il mondo in cerca di quel beota.

L’operatore radar annuì, le guance ancora piene del boccone di panino che stava smangiucchiando prima che il loro furgone giungesse a Opana Point. Si ripulì le labbra da uno schizzo di senape, riappoggiò il panino rosicchiato fra le carte ammassate davanti al pannello azzurrino, e spinse le spalle sullo schienale della seggiola. “Solo un paio d’ore fa.”

“Poco prima che arrivasse la cena, in effetti,” intervenne l’altro, succhiando una sorsata dal suo thermos di caffè.

Inghilterra ebbe un tic all’occhio. Le sue braccia accasciate fra quelle di Canada irrigidirono, una scossa gli attraversò il petto e riaccese una fiammata, un ruggito del cuore che gli diede la forza di rimettersi in piedi da solo. “Ma se n’è andato dove?” Si aggrappò all’anta del furgone che fungeva da stazione mobile. “Via da Opana Point? Via dall’isola? Via dalle Hawaii? Non sarà mica già tornato a Washington?” Merda, tutta questa strada per niente? Dannato America, mi sembra di rincorrere una stramaledetta palla che sbalza via ogni volta che la si tocca con la punta del piede.

“No, signore.” L’operatore riavvitò il tappo del thermos e scosse il capo. “È ancora qua a Oahu. Si è solo allontanato dalla base perché, ecco...” Incrociò lo sguardo con il collega, sollevò un sopracciglio e si strofinò la nuca. Un’ombra di disagio gli cadde sul volto. “Aveva un’aria alquanto appesantita.”

“E ci siamo permessi di congedarlo,” lo assecondò l’altro, “dato che per questa sera ormai non sono previsti...”

“Un’aria appesantita?” Inghilterra e Canada si guardarono, in preda allo stesso sussulto d’incredulità. Un pensiero identico scoccò attraverso la mente di entrambi. Stiamo davvero parlando dello stesso America? Nessuno dei due fu in grado di immaginarsi America a capo chino, le spalle ingobbite, e gli occhi grigi e insonnoliti, mentre trascinava i piedi fra le stradine illuminate del porto.

E se invece fosse vero? si domandò Inghilterra, scosso da un amaro e improvviso senso di colpa. Se avesse bisogno d’aiuto? Se avesse bisogno di noi? Ora sì che dobbiamo fare in fretta per raggiungerlo e assicurarci che stia bene.

Inghilterra fece roteare lo sguardo e si passò una mano fra i capelli. “Be’, questa è comunque un’emergenza. Finesettimana o non finesettimana, ora lui deve tornare al lavoro perché ci sono questioni serie da affrontare che non possono di certo aspettare lunedì.”

Canada annuì. Compì un timido passo in avanti e rivolse un sorriso educato e gentile ai due operatori. “Perdonatemi l’insistenza, ma non vi ha detto per caso dove sarebbe andato?”

L’operatore esitò, batté le palpebre, squadrò Canada un paio di volte da capo a piedi, come se lo avesse notato per la prima volta. Si schiarì la voce e raddrizzò le spalle, scollandole dallo schienale. “Nossignore.” Alzò il mento per indicare l’esterno del furgone. “Ma vi consiglio di cercare a Honolulu o a Pearl City. È molto probabile che abbia raggiunto il porto. Sapete, nel finesettimana c’è sempre molto movimento perché i marinai e gli ufficiali sono in congedo e di solito scendono ad alloggiare nelle caserme e a svagarsi sull’isola.” Fece roteare una mano. “Musica, un sacco di balli sia nei locali e nei club del porto sia sulle navi stesse.”

L’altro annuì. Spinse i gomiti sul ripiano dei pannelli, raccolse il viso fra i pugni e rivolse uno sguardo sognante al soffitto. “Cucina tipica.” Diede un’altra sbocconcellata al suo triste panino spalmato di senape. “Grigliate di pesce, alcol a fiumi, cocktail alla frutta...”

Canada trasse un sospiro meravigliato. “Ooh.” Giunse le mani davanti al petto. Brillanti scintille d’incanto gli attraversarono le lenti. “I cocktail tropicali. Quelli all’ananas e cocco?”

Inghilterra lo fulminò senza troppa convinzione. “Non ti ci mettere anche tu!” Ci mancherebbe solo questa. Si sfilò la mano dai capelli e spalmò un massaggio sulla faccia grigia, ammollata dalle rughe incavate di stanchezza. “E si può sapere come diavolo facciamo a trovarlo se c’è molto movimento?”

“Uhm.” Canada si strinse nelle spalle e azzardò una risposta. “Forse basterà andare dove c’è più... confusione?”

“Andiamo a cercarlo al porto, allora.” Inghilterra rivolse un’ultima additata ai due operatori radar. “Ma avvertite comunque chi di dovere che lo stiamo cercando. Spargete la notizia. I primi che lo trovano dovranno avvisarci immediatamente.”

“Sissignore,” confermarono i due. “Agli ordini.”

Inghilterra e Canada si allontanarono dalla postazione, dall’ombra roteante della parabola, e raggiunsero il furgone all’interno del quale li attendeva ancora l’ufficiale che li aveva scortati fino a Opana Point.

Inghilterra stritolò i pugni ai fianchi. “Giuro che mi sente.” Montò sul furgone, si lasciò sprofondare in uno dei sedili posteriori, accavallò le gambe e annodò le braccia al petto, ricominciando a bollire di rabbia. “Giuro che appena lo troviamo lo strangolo con le mie mani. Farci girare tutte le Hawaii solo per venire a prenderlo per le orecchie e riportarlo a Washington, mentre dovrebbe essere una sua responsabilità capire che dovrebbe trovarsi là già da un pezzo...”

Canada gli si sedette affianco, si allacciò la cintura di sicurezza e gli sorrise. “Ma si sta rivelando un viaggio piuttosto, uhm, avventuroso anche per noi, no? E forse...” Guardò fuori dal finestrino, riscoprendo il calmo panorama tropicale infittito dalla vegetazione e rischiarito dalle luci del tramonto. “Dovremmo approfittare di questi momenti in cui possiamo ancora stare assieme prima che la guerra torni a separarci.”

La scossa di presagio che aveva fulminato Inghilterra quando aveva posato piede a Oahu tornò a bruciare attraverso le guance. Prima che la guerra torni a separarci. Lo stomaco si strinse in un nuovo nodo di nausea, brividi gelati gli rizzarono la pelle d’oca, e il suo viso si rifece latteo. Considerando la piega che sta prendendo il conflitto, forse potrebbe accadere prima di quel che sospettiamo. Oh, dannazione a te, America...

Inghilterra poggiò la tempia al finestrino e guardò lontano, desiderando solo raggiungerlo e portarlo via da quell’isola che non aveva mai smesso di tremare sotto i suoi passi, di scuoterlo con i suoi continui sussurri d’allarme.

Dove diavolo sei finito?

 

♦♦♦

 

Tre larghi bicchieroni foderati di granella di zucchero picchiarono i bordi ed emisero un forte squillo di brindisi. “Salute!” Schizzi di cocktail all’arancia e pompelmo zampillarono dagli orli, gocciolarono dal polso di uno dei marinai e macchiarono la tovaglietta disposta sul tavolo del bar, allargando piccole chiazze color arancio affianco alla ciotola dei salatini e delle noccioline tostate.

I tre giovani risero, le guance già rosse di alcol e di euforia, e tracannarono l’ennesimo brindisi, riempiendosi la bocca del sapore di tropici, di quell’allegria che ogni finesettimana soffiava su Oahu, fresca e frizzante come la brezza proveniente dall’oceano.

Uno dei marinai batté il bicchiere sul tavolino e si girò a sbracciare verso il compagno che reggeva la brocca inumidita di condensa. “Ehi, versamene un altro po’.”

“Un altro giro da questa parte, offre la casa!”

“Ancora noccioline! Qui abbiamo finito le noccioline!”

“Oh, guarda, guarda!” Uno di loro scese dallo sgabello trascinandosi dietro il vicino, scostò una ghirlanda di fiori che pendeva dal soffitto del bar all’aperto, e si precipitò al bancone illuminato dall’insegna di neon verde. “Stanno affettando gli ananas. Dio, ho una gola di ananas...”

Qualcuno avvitò la manopola della radio, sintonizzò sulla frequenza giusta, e un’ondeggiante musica hawaiana si propagò lungo tutta la strada che correva fuori dal locale.

Altre risate e altre voci si mescolarono alla musica. “Aah, non vedevo proprio l’ora di togliermi l’uniforme, oggi.”

“Chi si fa una bevuta di noce di cocco con me?”

Nessuno seppe resistere.

America infilò le mani nelle tasche della giacca, calciò via un piccolo sassolino finito in mezzo alla strada asfaltata e lo fece rimbalzare fra le palizzate che reggevano il tettuccio di paglia di uno dei locali all’aperto in cui la musica era più forte e dove le ombre piroettanti di quelli che si erano messi a ballare s’intrecciavano sotto le luci. Si lasciò superare dal rombo di una motocicletta, dalla corsa di un taxi che si fermò davanti alla facciata di un ristorante per far scendere due marinai che tenevano la mano a due ragazze, e da un altro gruppetto di giovani in uniforme bianca che risero infilandosi dentro un negozietto illuminato da una ghirlanda di lanterne. Camminò lento, senza fretta e senza meta, inosservato come un’ombra.

Altri rumori gli solleticarono le orecchie – tante risate, passi in corsa lungo il marciapiede, cubetti di ghiaccio mescolati nei calici di cocktail, melodie pizzicate da corde di chitarre che venivano passate di mano in mano, carne sfrigolata su piastre roventi, e tacchi picchiettati sulle piste da ballo.

Lo travolse un delizioso profumo speziato di salsiccia grigliata, più quello della frutta fresca affettata sui banconi dei bar impregnati dell’odore sciropposo dei liquori.

Altre luci si accesero dietro le vetrine e attorno alle insegne dei locali, nonostante la palla del sole stesse ancora galleggiando sopra i tettucci di paglia che spiovevano sulla strada. I neon colorati brillarono sui visi sorridenti di tutte le persone che passeggiavano per strada, di quelli che s’intrufolarono nei negozietti di manufatti locali, esibendo poi collane e bracciali di conchiglie, e di quelli che si fermavano a tracannare i loro bicchieroni di birra o di succo fuori dai bar, affianco alle auto parcheggiate, in mezzo ai rigagnoli di fumo evaporati dalle punte delle sigarette che finivano spremute sotto le loro suole.

Tre giovani in uniforme bianca uscirono ridendo da un piccolo negozio di tatuaggi. Uno di loro continuò a ridere reggendosi la pancia e diede una pacca a quello che si stava coprendo la spalla nuda con una pezza di garza. “Cosa dirà tua madre quando lo vedrà?”

Se lo vedrà.”

Il terzo di loro si coprì la bocca e scoppiò a ridere. “Ommioddio, ti segherà la testa.”

“Se prima non gliela segherà qualche giapponese.”

“Ma dooove?”

“Aspetta, aspetta.” Il giovane marinaio si sfilò la tracolla della macchina fotografica che gli pendeva sul petto e richiamò gli altri compagni. “Facciamoci una foto da spedirle fintanto che c’è la luce giusta.” Si misero tutti in posa davanti all’insegna che ritraeva un marinaio nerboruto abbracciato al fisico snello di una sirena, e attesero il flash.

Davanti a loro passò un altro gruppetto di uomini a passeggio con delle ragazze che rimbalzavano sulle scarpette basse tenendosi aggrappate ai loro gomiti. Una di loro – indossava la giacca militare del compagno sopra la divisa da infermiera – rise a una battuta, leccò le briciole di un panino dalle dita, e si appoggiò con la tempia alla spalla dell’altro. Un sorriso perlaceo splendette fra le labbra imporporate. “Oh, cielo, cielo, sono già piena.”

Il giovane marinaio che le aveva offerto il boccone del panino imbottito le sorrise a sua volta. “Ma come?” Le aggiustò la giacca attorno alle spalle, in modo che non scivolasse. “E io che dovevo portarti in quel nuovo locale che hanno aperto su Hotel Street. Fanno dei gamberetti fritti che sono la fine del mondo.”

Altri giovani si unirono alla loro passeggiata, e uno di loro saltò a battere una pacca sulla schiena del marinaio. “Steve paga da bere per tutti!”

“Evviva!”

“Salute, salute!”

“Grazie, Steve!”

Lui finse un broncio e prese posto assieme alla ragazza sugli sgabelli dei bar, facendola accomodare per prima. “Vi piacerebbe, eh?”

Uno di loro gli scivolò vicino, spremendo la spalla alla sua, e gli strizzò l’occhiolino. “Mi piacerebbe perché abbiamo ancora una scommessa in sospeso e qui c’è qualcuno che mi deve un drink.”

Risero tutti e si servirono sotto le luci delle lanterne che erano appese fra le ghirlande di fiori rosa, gialli e arancio. Unsero i bicchieri con abbondati versate di Jack Daniel’s, mescolarono il whiskey ai succhi di frutta di arancia e pompelmo, decorando poi il tutto con anellini di ananas e ciliegie rossissime pescate da vasi di maraschino.

Il marinaio che accompagnava la ragazza vestita da infermiera si servì dalla ciotola di frutta secca, sgusciò dei pistacchi. “Ragazzi, ma a voi sembra di essere in servizio?” Ne sgranocchiò uno e rise. “Se avessi potuto portarmi dietro il cane direi di essere in vacanza.”

“E te ne lamenti?”

“Se questa è guerra...” Un altro del gruppo fece oscillare il suo cocktail fra le pareti del suo calice, si spostò contro il bancone per lasciar passare il cameriere con un vassoio pieno di bibite. “Allora arruolatemi a vita, giuro.”

Il suo vicino scosse il capo con disapprovazione. “E pensare tutte le scenate che hai piantato quando ti hanno detto che saresti stato trasferito.”

Una delle ragazze che accompagnavano i marinai gli si gettò con le braccia al collo. Una vaporosa gonna colorata a sventolarle attorno alle caviglie, due occhi sorridenti che parevano stelle staccate dal cielo, una ghirlanda di fiori a penderle dal collo, e un largo berretto di paglia a schiacciare i capelli acconciati. “Ma quello era prima che incontrasse me.”

Il marinaio rise, le schioccò un bacio sulla guancia e le fece il solletico al naso. “La mia bella sirenetta.”

America sorrise, intenerito dalla scena e contagiato dall’allegria che respirava sotto la luce delle lanterne di carta e fra le ghirlande di fiori tropicali. Proseguì la sua passeggiata, avvicinandosi all’eco della musica strimpellata dalle orchestrine che si esibivano al porto, dai pontili delle corazzate, anziché soffiata dalle casse delle radio.

Il sole ancora sospeso fra cielo e mare coronò i profili scuri e piatti delle imbarcazioni ancorate a Pearl Harbor. Sciami di luce luccicavano e traballavano fra i tralicci delle imbarcazioni, rischiarendo i gruppi di marinai rimasti a bordo che ora danzavano e battevano le mani al ritmo delle piccole bande che la mattina dopo avrebbero suonato l’alzabandiera, come ogni giorno.

Nemmeno quella visione, però, allettò America a tal punto da spingerlo a saltare a bordo e a unirsi a loro.

Sempre a mani infilate nelle tasche, lo sguardo un po’ perso a vagare fra le vetrine dei locali e dei negozietti ancora aperti, America posò gli occhi sul suo riflesso che gli sfilò affianco, specchiato sulle finestre di un ristorantino di pesce. Si vide distante e traslucido. L’immagine di un fantasma. Che strano, pensò. Di solito non ci avrei pensato due volte nell’unirmi a loro, a farmi un drink o due, e a mangiare fino a scoppiare. Sono sempre il primo a lasciarsi trascinare quando c’è da divertirsi e da stare in mezzo alle persone. Sollevò un braccio per ripararsi dalla luce fin troppo bassa del sole scarlatto che stava precipitando all’orizzonte. Socchiuse gli occhi. Eppure stasera riesco a stare bene anche così. Anche solo passeggiando in mezzo a loro senza che si accorgano di me, anche senza farmi coinvolgere.

Un alito di vento fresco e pungente gli passò attraverso, gli pizzicò la guancia, gli sussurrò un sibilo incomprensibile all’orecchio, gli solleticò il naso impedendogli di distinguere i profumi dolci e aspri provenienti dai vapori dei bar e dei club, e lo costrinse a rimboccarsi la giacca.

America scosse il capo, sollevò lo sguardo in cerca del promontorio di Opana Point da cui era appena sceso, ma trovò solo tetti di paglia, terrazzini di legno, la torre dell’orologio con su scritto ‘ALOHA’, e altre insegne al neon che si stavano accendendo una dietro l’altra. Forse sono solo un po’ inquieto per quello che sta succedendo a Washington senza di me? Per quei messaggi da Tokyo che non hanno ancora smesso di inviare e di decifrare? Però hanno ragione. Anche se fosse una vera dichiarazione di guerra, non è che Giappone potrebbe attaccarmi da un giorno all’altro. E poi sto facendo sorvegliare e proteggere tutti i territori coloniali e non è arrivato nessun allarme d’invasione. Chissà allora cosa mi prende?

Lasciò ciondolare il capo fra le spalle, diede un calcetto a un tappo di bottiglia che qualcuno aveva fatto cadere in mezzo alla strada, e trasse un lungo sospiro esasperato.

Uff, quanto vorrei non aver litigato con Inghilterra. Lui forse saprebbe cosa fare in una situazione del genere. Per una volta vorrei davvero che fosse qui. Quando tornerò a Washington, la prima cosa che farò sarà chiamarlo per sistemare le cose. Raddrizzò le spalle, si gonfiò il petto di fierezza e di buone intenzioni, e accelerò il passo. Le guance rosse di emozione, un sorrisetto gongolante stampato sulle labbra, e il cuore di nuovo alleggerito di quel peso. Ecco, ecco, così gli dimostrerò di essere io il più adulto e maturo fra i due. Geniale, America!

Un altro gruppo di giovani in uniforme – questi però indossavano giacche felpate da aviatori – uscì dalla porticina di un bar imboccando la stradina che portava ai locali sulla spiaggia. Uno di loro saltò alle spalle di un compagno, gli rubò il berretto, rise, e l’altro lo inseguì incitato anche dai compagni intenti a condividere bottiglie di birre e cestini con patatine fritte e frutti di mare.

Di nuovo America si sentì addolcito dalla sensazione rassicurante di essere circondato dalla sua gente, dai suoi marinai, dai suoi soldati e dai suoi piloti che, nonostante le nubi di guerra sempre più basse e minacciose a brontolare sopra la loro nazione, erano ancora capaci di sorridere e di volgere lo sguardo al sole.

Però, anche se non sono proprio in mezzo a loro, sono contento di poterli osservare e di godermi tutta la loro spensieratezza.

America proseguì la camminata, godendosi ogni risata, ogni bevuta, ogni nota di musica proveniente dalle radio e dalle bande, ogni piccolo ballo condiviso con le ragazze sorridenti che accompagnavano piloti e marinai. In lui crebbe il desiderio di proteggerli, di combattere per le loro vite, proprio come loro avrebbero sempre lottato per la sua.

In fondo, per stasera mi sta bene anche così, si disse ancora. So già di essere la nazione più fortunata del mondo anche solo per il fatto di poter proteggere un popolo così onesto, forte e leale, sia in pace che in guerra. Forse è per questo che, nonostante tutto, non ho per niente paura dell’idea di dover affrontare un conflitto con Giappone.

L’immagine di Giappone gli rimbalzò in mente. Il suo viso austero sostituì quello sorridente dei suoi uomini, i suoi occhi scuri e impenetrabili sostituirono quelli chiari e brillanti delle persone che si stavano divertendo attorno a lui, la sua aura tetra e minacciosa raggelò la luce che splendeva fra le stradine della città di porto.

America non ne ebbe paura, come non ne aveva avuta quando lo aveva affrontato a viso aperto. Già, io non avrò mai paura di Giappone, pensò con orgoglio. E non mi farò nemmeno mai spaventare dall’idea di dover combattere contro di lui, anche se ora tutta questa situazione è così confusa e disastrata. Giappone e il suo popolo combattono guidati dall’odio, io invece combatto guidato dalla giustizia. Combatto tramite persone valorose e giuste che sono disposte a dare la vita per la libertà di tutte le altre nazioni. Ecco perché Giappone non potrà mai essere più forte di noi. Ed ecco perché non temo nessun genere di sconfitta. Se Giappone vorrà affrontarmi, io sarò pronto. Quando arriverà il momento, sarò in grado di trarmi in salvo e di tenere al sicuro ogni mio soldato. Annuì a se stesso, più determinato che mai. E poi salverò anche lui.

Si riparò di nuovo la fronte e gli occhi, e levò lo sguardo sui promontori che sorgevano da dietro gli edifici del porto, sulle scogliere che si frastagliavano fra gli scrosci del mare mosso, sui fianchi scoscesi e verdeggianti dove crescevano le piantagioni di canna da zucchero. Una pallida luna era già appesa al cielo del tramonto, celata dalle creste dei promontori e ombreggiata dall’aria umida che quella sera soffiava sull’isola di Oahu.

Di nuovo un freddo sibilo di vento solleticò l’udito di America, lo chiamò a sé.

America arrestò il passo, chiuse gli occhi, e si isolò dal vociare, dalle risate, e dalla musica, accogliendo dentro di sé la necessità di staccarsi da tutto e, per una volta, di stare da solo.

Seppe cosa fare, seppe dove andare, seppe di cosa aveva realmente bisogno.

 

.

 

Dopo la scarpinata fra le stradine sterrate che serpeggiavano fra le piantagioni deserte, America affondò un ultimo passo sul prato smeraldino che foderava la superficie del promontorio, riguadagnò equilibrio, sorretto da due forti folate d’aria che gli erano soffiate in faccia, e distese una mano davanti al viso, affacciandosi al panorama spalancato su Kahuku Point.

Alte creste d’onda agitate dalla brezza di mare s’infrangevano contro il cielo rosso come la polpa di un’arancia. Gli ampi raggi del sole ormai sprofondato nell’oceano abbracciavano l’orizzonte, frastagliati dai cavalloni e mossi da quella superficie d’acqua senza fine da cui sorgevano picchi di scogli sporcati dalla schiuma verdastra delle onde.

L’ansa della costiera, rischiarita dalle luci che brillavano sul porto e su Honolulu, raccoglieva la forma di Pearl Harbor, lo schieramento della Pacific Fleet, i minuscoli profili delle navi su cui fiammeggiavano le fiaccole che rallegravano la festa del finesettimana, e le lunghe scie segnaletiche sempre accese sulle piste dei campi di aviazione.

America si lasciò cadere seduto in mezzo all’erba ancora tiepida e profumata di salsedine. Si tolse la giacca, la appallottolò dietro la schiena, vi si appoggiò reclinando le spalle, e chiuse gli occhi come aveva fatto quando ancora si trovava al porto, in mezzo alla stradina affollata. Lo cullarono solo lo scroscio delle onde, le carezze del vento, il profumo del mare, e le ultime rossastre luci del sole a specchiarsi sulle sue guance rosee.

Crollò addormentato senza quasi accorgersene. Dormì sereno per l’ultima volta, godendosi il suo ultimo tramonto di pace, il suo ultimo sonno vegliato dall’occhio di luna spalancato sul cielo tropicale che presto si sarebbe infiammato di sangue.

Quella che lo avrebbe accolto, una volta sveglio, sarebbe stata la sua prima alba di guerra.

 

.

 

Diari di America

 

Penso che quella notte fu uno degli ultimi regali che il destino mi fece, uno degli ultimi gesti di carità nei miei confronti, uno degli ultimi momenti in cui riuscii a godermi il “Vecchio me” prima che la guerra cominciasse a cambiarmi e a stravolgere il mio paese.

Fu tutto molto poetico, se ci ripenso ancora oggi.

Mi ricordo che mi sdraiai lì, in mezzo alle piantagioni, sull’erba morbida e ancora tiepida, circondato dal profumo del mare, dei fiori tropicali, e che mi ritrovai di fronte a quel tramonto stupendo che cadeva dritto nel mare. Non era una luce accecante o fastidiosa. Era una luce confortevole. Fu come se una gentile mano invisibile nata dai raggi del sole si fosse posata sui miei occhi e mi avesse fatto venire sonno dicendomi: “Dormi, America. Per questa notte dormi pure sereno, chiudi gli occhi e fai bei sogni per un’ultima volta. Goditi il pensiero di essere ancora fuori dalla guerra, goditi l’idea che la tua gente è ancora al sicuro, goditi il fatto di non sapere che domani dovrai affrontare un disastro colossale che non ti farà dormire in pace per almeno un secolo della tua vita. Quando ti risveglierai, l’Inferno comincerà anche per te.”

E io sto ancora aspettando, in realtà. Dopo così tanti decenni trascorsi da quella tragica domenica mattina di dicembre, sto ancora aspettando il giorno in cui mi sarà concesso tornare a riposare bene e serenamente come durante quell’ultimo tramonto che ho ammirato dai promontori di Oahu. Un giorno forse potrò tornare a riposare senza gli echi delle bombe e dei siluri a tuonarmi ancora nelle orecchie, senza più l’odoraccio del sangue a farmi svegliare di soprassalto, in un bagno di sudore, facendomi credere di esserne ancora sommerso, e senza le voci dei fantasmi a piangere e a gridarmi nella testa.

Dopo così tanti decenni insonni trascorsi dalla mia entrata definitiva nella Seconda Guerra Mondiale, sto ancora aspettando il giorno in cui anche io mi meriterò di nuovo il riposo, la pace, la serenità, e il perdono.

   
 
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