Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Ode To Joy    26/11/2019    2 recensioni
[Erwin x Levi]
[Kenny x Uri] [Jean x Eren]
”L’Umanità si divide in due categorie: quelli che vogliono cambiare il mondo e quelli con il potere di farlo.”
Paradis, 850.
Il Muro Maria è stato riconquistato ma a caro prezzo: solo otto soldati hanno fatto ritorno da Shiganshina.
Levi ed Eren non sono tra loro.
Erwin è sopravvissuto a costo della sua umanità e non si ritiene più degno di guidare le Ali della Libertà.
Marley.
Prigioniero sotto la custodia di Zeke Jeager, Levi cerca di tenere in vita se stesso ed Eren con la certezza che Erwin sia morto e che nessuno stia venendo a salvarli. Manipolare il fratello minore per renderlo suo complice, però, è solo una parte del piano di Zeke.
“Ora hai sia la volontà che il potere. Smettila di piangerti addosso, vinci questa guerra e riprenditi ciò che è tuo.”
Mytras, 819.
Catturato dopo aver cercato di uccidere il re, a Kenny Ackerman viene risparmiata la vita e promessa la libertà in cambio di qualcosa che lo legherà a doppio filo al principe Uri Reiss.
[Canon-Divergence] [Omegaverse]
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Erwin Smith, Jean Kirshtein, Kenny Ackerman, Levi Ackerman
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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5
Reiner






Il porto di Liberio sorgeva al centro di un ampio golfo, lontano dal vero e proprio centro urbano. In quel modo, in caso di attacchi dal mare, la distruzione dell’insediamento sulla costa non avrebbe pregiudicato il destino dell’intera città. Una ferrovia e un corso d’acqua canalizzato permettevano a chi doveva di spostarsi da un’area all’altra di Liberio.

Tutt’intorno vi erano montagne, per di più rocciose vicino all’acqua e coperte di boschi verso l’interno. Vi erano due roccaforti di difesa poste sui promontori più alti, uno su ogni lato del golfo. Quello più vicino alle abitazioni civili e più facile da raggiungere era il quartier generale della marina di Liberio.

L’altro, isolato, recintato e inaccessibile a chiunque non possedesse l’autorizzazione del governo era un centro di reclusione per prigionieri di guerra. Un tempo, veniva usato per rinchiudere e torturare gli Eldian appartenenti alla Restaurazioni o ad altri gruppi ribelli. Una fermata di passaggio prima del muro sull’isola di Paradis.

Era rimasta in disuso per più di quindici anni, fino all’autunno dell’850.



La scala per accedere alla cima della torre più alta si affacciava sul mare. Scivolare oltre il parapetto significava precipitare nel vuoto per quaranta, forse cinquanta metri e atterrare rovinosamente sugli scogli sottostanti. 

Falco guardava il mare con la schiena premuta contro la roccia scura. 

Non doveva essere lì. Non dovevano esserci nessuno dei due.

“Ti muovi?” Sibilò Gabi, facendo capolino da dietro la curva.

Falco trasalì. Ogni rumore era come un colpo di cannone per lui. Anche le voci dei gabbiani - così insistenti, così stridule - sembravano richiamare l’attenzione dei soldati e avvertirli della loro presenza.

“Non dovremmo essere qui,” sibilò Falco, salendo un gradino alla volta. “È proibito.”

Gabi scrollò le spalle. “Non vuoi vedere il Diavolo negli occhi?”

“Reiner ha detto che non è un Diavolo. Non come lo descrivono tutti.”

“E tu non lo vuoi vedere?”

“Il fatto che non assomigli a un mostro non significa che non sia pericoloso.”

La bambina sbuffò e riprese a salire le scale.

“Gabi, aspettami!” Falco cercò di stare al suo passo e per poco non perse presa sui gradini, resi scivolosi dall’umidità.

Decine di gabbiani erano in piedi sui merli della torre, i colli bianchi allungati verso l’orizzonte.

I due bambini non riuscivano a vedere l’Isola dei Diavoli nemmeno da quell’altezza.

“Se è così pericoloso, perché non ci sono guardie all’ingresso?” Domandò Falco.

“L’ingresso da questo lato è stato murato. Le guardie passano dall’ingresso principale,” spiegò Gabi. “È rimasto solo uno spiraglio vicino al pavimento.”

Falco inarcò le sopracciglia. “Stiamo facendo tutto questo casino per uno spiraglio vicino al pavimento da cui non vedremo un bel niente?”

“Se avrà gli zoccoli al posto dei piedi lo vedrai.”

“Ti ho già detto che non è come tutti lo descrivono. Reiner dice che quelle sono solo storie per spaventare noi bambini, Gabi!”

“Allora perché i grandi hanno più paura di noi?” Non appena mise piede sul pianerottolo ricoperto da un sottile tappeto di muschio, Gabi mise da parte l’irritazione per l’entusiasmo. Diede di lei, Falco allungò il collo per dare un’occhiata da distanza di sicurezza. Negli anni, le linee dell’opera dell’uomo erano divenute meno nitide a causa del muschio e dall’umidità, ma la sagoma della porta era ancora visibile contro il muro scuro.

Gabi poggiò entrambe le mani sulla parete e una folata di vento le tirò indietro i capelli, scoprendo i grandi occhi scuri luminosi. “Vieni, Falco, avvicinati.” Posò un ginocchio a terra e fece cenno all’amico di avvicinarsi.

Falco le ubbidì, suo malgrado.

“Chinati…” Gabi premette la mano contro la nuca dell’amico ed entrambi si chinarono tanto che le loro teste sfiorarono il terreno. 

La bambina aveva ragione: era rimasta una fessura sul fondo della vecchia porta e sbirciarci attraverso. Qualcuno si muoveva. Vagava.

Falco non sapeva dire se chi era al di là del muro stesse camminando su un paio di piedi o su due zoccoli.

“Senti il suo respiro infernale?” Domandò Gabi.

“Io non sento proprio niente,” rispose Falco.

La creatura al di là del muro si fermò.

Entrambi i bambini trattennero il fiato. 

Qualcosa colpì il muro una, due, tre volte.

Falco fu il primo a saltare in piedi e a correre giù per le scale, ma Gabi strillò ancor prima di seguirlo.

“Il Diavolo!” Urlarono i due bambini. “Il Diavolo!”



Dalla parte opposta del muro, all’interno della torre, Eren se ne restò con l’orecchio premuto contro la parete di pietra e rise.

Quel suo perfido, infantile divertimento ebbe vita breve.

“Che stai facendo?” 

Non appena Reiner varcò la porta, le labbra di Eren tornarono a disegnare una linea retta, inespressiva. “Lo hanno fatto di nuovo,” disse.

Reiner inarcò le sopracciglia chiare. “Hanno fatto di nuovo, cosa?”

Eren alzò gli occhi verso il soffitto, come se stesse riflettendo, poi sollevò il pollice, l’indice e il medio della mano destra.

Puntualmente, dal piano di sotto, una delle guardie urlò nella tromba delle scale. “Braun, quei tuoi due mocciosi sono di nuovo qui!”

Reiner lasciò andare un sospiro stanco, come se avesse vissuto tre volte i suoi diciassette anni e fosse terribilmente stanco. “Avevo fatto loro promettere che-“

“Non incuti timore, hai l’aria del fratello maggiore,” disse Eren, stringendosi meglio nel cardigan troppo grande che aveva addosso. “Nonostante la tua brutta faccia, riesci a guadagnarti la fiducia delle persone, le fai sentire al sicuro.” Si allontanò dalla parete, portandosi al centro della stanza. “Io li capisco quei due bambini. Era così anche per me.”

Reiner resse il suo sguardo per un istante - un nuovo record rispetto ai giorni precedenti - poi simulò un colpo di tosse e infilò le mani nelle tasche. “Comincia a fare freddo qui. Vado a prendere della legna per accendere il camino e domani porterò il necessario per chiudere quello spiffero, così Falco e Gabi smetteranno di disturbarti.”

Eren si sedette in fondo al letto. “Sì, hai ragione, ho così tanto da fare qui,” disse sarcastico. “Se porti della legna, potrei usarla come arma. Anche il fuoco non è così innocuo.”

Reiner chiuse gli occhi e si massaggiò la fronte. Quando fu certo di avere il totale controllo di sé, si portò di fronte a Eren e gli afferrò il mento senza fargli male. “Se avessi deciso di scatenare l’inferno ti sarebbe bastata questa bocca arrogante per farlo.”

Eren si tirò indietro disgustato. “E chi ti assicura che non lo farò adesso, quando uscirai da questa camera o stanotte?”

Reiner lo guardò dall’alto in basso. “Tuo fratello,” rispose e il fuoco ustionante delle iridi di Eren si spense un poco. “Qualunque cosa tu abbia cercato in questi anni, Eren, è qui. Se la distruggi, non avrai mai le risposte che cerchi e la libertà che esse portano.”

Eren rimase in silenzio.

“Continua a odiarci,” aggiunse Reiner. “Continua pure a farlo, ma resta vivo.”

“Perché?” Domandò Eren. “Ymir l’avete uccisa senza pensarci due volte, no?” Non glielo avevano tenuto segreto a lungo. Forse l’intento era stato proprio quello di renderlo docile con il potere della paura.

Non aveva funzionato.

Reiner non gli rispose, lo fissò con un’espressione a metà tra la pietà e l’esasperazione. “Proprio non ce la fai a smettere di provocare, vero?” Non c’era bisogno di chiederlo, non dopo che Eren aveva cercato di aggredirlo dopo essere stato rapito da lui e Berthold e privato degli arti. “Ancora non ti sei reso conto della tua posizione?”

Eren lo trafisse con lo sguardo. Lo faceva spesso da quando aveva ripreso i sensi in quella torre, dopo la battaglia di Shiganshina e la ritirata che era seguita. Reiner si era preparato a un prigioniero bravo a fare rumore, ma l’Eren che aveva davanti non era quello che era cresciuto con lui nelle baracche del centro di addestramento.

Era successo qualcosa tra il tradimento suo e di Berthold e la riconquista del Muro Maria.

Gli occhi di Eren avevano sempre messo soggezione a tutti, forse anche al Capitano Levi in persona, ma il fuoco che Reiner conosceva si era tramutato in qualcosa di più oscuro, pericoloso. Zeke lo voleva con lui in quella missione perché lo guidasse e lo consigliasse su come agire con Eren, ma Reiner non era certo di conoscere il mostro che aveva davanti.

“E tu?” Domandò Eren. “Ti sei ricordato della tua di posizione, Reiner?” Domandò derisorio, alludendo a quando, in preda al delirio, il guerriero aveva confessato tutti i suoi crimini alla persona che per anni aveva giurato vendetta contro chi aveva fatto crollare il Muro Maria.

Reiner inspirò dal naso. “Dovresti piangere, Eren,” gli consigliò. “Lo dico per esperienza, non puoi tenere in piedi il muro dietro cui ti sei barricato ancora a lungo.”

Eren ingoiò a vuoto. “Sono stanco di piangere. Perché non lo distruggi tu? Sei bravo ad abbattere muri, no? È la ragione per cui ti hanno addestrato e mandato al macello. Guerriero. Cazzate, sei sono un carro da sfondamento per lo-“

“Perché vuoi costringermi a farti del male?” Lo interruppe Reiner. “Perché non la smetti di combattere? Arrenditi e basta, Eren.”

Quegli occhi verdi dalle sfumature bluastre continuarono a seviziarlo in silenzio e quando parlò fu anche peggio: “uccidimi,” propose. “Uccidimi e non ci saranno più muri d’abbattere, Reiner. Dopo di me, non resterà più nessuno a renderti colpevole.”

Reiner aveva sentito Zeke Jeager parlare del suo perduto fratello minore come di una vittima dell’unico genitore che avevano in comune, di un disegno più grande del singolo individuo e che raccontava la storia di Marley e di Eldia.

In quel momento, Reiner guardava il fanciullo che era stato suo amico, suo compagno e, forse, anche un fratello per lui e vedeva solo un cacciatore in attesa dell’occasione giusta per sbranarli tutti.

“Zeke verrà più tardi con la tua cena,” disse Reiner. “Non fare cazzate, Eren,” aggiunse, prima di uscire. Lo faceva sempre. “Non fare cazzate.”



”Ehi, energumeno, facciamola semplice, lui o lei?”

La domanda di Ymir lo prese di sorpresa. “Non so di cosa stai parlando…”

Lei alzò gli occhi al cielo. “La biondina minuta o il ragazzino rabbioso?”

L’allontanò. “Ma smettila…”

“È chiaro come il sole! A tua difesa: entrambi hanno un bel culo.”

“Vedi cose che non esistono, Ymir.”

Gli diede una pacca un po’ troppo forte sulla schiena. “Tutto questo era per dire che Krista me la sposerò io!”

“E lei lo sa?”

Lei fece un gesto come a dire di lasciar perdere. “Non è importante che lo sappia lei, ma la concorrenza.”

“Non avrai problemi da me.”

“Bene!” Ymir storse la bocca. “Peccato per te, Reiner.”

“Perché?”

“Guarda Eren e Jean come litigano,” gli diede un’altra pacca sulla spalla, di consolazione quella volta. “Quelli saranno sposati prima del diploma, te lo dico io!”

Quel giorno, pensò che fosse la cosa più improbabile del mondo.

E si sbagliò.




-3 giorni dopo la battaglia di Shiganshina-





Il mare era calmo e il cielo era tanto limpido che la luna brillava come un secondo sole. Le luci del porto di Liberio lo salutarono da lontano, dandogli il bentornato a casa. Reiner aveva fantasticato su quel momento per anni, insieme a Berthold. Se Annie aveva mai speso un pensiero a riguardo, a loro non lo aveva mai detto: era sempre stata quella più fredda, razionale.

Nei giorni buoni, Reiner vedeva se stesso sbarcare sulle coste di Marley come un eroe di ritorno dalla guerra, Berthold e Annie con lui. In quelli brutti, quando la paura del fallimento prevaricava su ogni cosa, s’immaginava con le catene ai polsi, mentre la gente ai bordi delle strade lo umiliava a parole o gettandogli roba addosso - solo fango nel migliore dei casi.

La notte in cui Reiner Braun tornò a Marley, non lo attesero né un comitato di benvenuto né una condanna a morte. Annie non era lì e non sapeva nemmeno se fosse ancora viva. Berthold lo aveva abbandonato nelle mani del nemico e sapeva che non lo avrebbe più rivisto.

Avevano condiviso tanto e per un tempo così lungo che quando Reiner vide Liberio in lontananza, tutto quello che poté fare fu voltare lo sguardo.

Il desiderio di tornare a casa lo aveva divorato insieme al senso di colpa per le sue azioni e ora aveva l’impressione che ogni passo lo portasse più lontano da dove voleva essere.

“Stanno ancora dormendo?” Domandò Zeke Jeager dalla prua.

Reiner lanciò un’occhiata ai due soldati privi di sensi sul fondo della piccola imbarcazione. Zeke aveva avuto la gentilezza di avvolgere il più giovane in un mantello, ma non si era preoccupato tanto per l’altro.

“Sì,” rispose con voce incolore, poi sollevò lo sguardo. “Dove stiamo andando?”

“Alla prigione, quella sul promontorio,” rispose Zeke, tornando a guardare di fronte a sé.

Reiner inarcò le sopracciglia. “Una prigione non è un luogo giusto, Sir.”

“Non c’è più nessuno in quel castello,” spiegò Zeke. “È una buona gabbia di contenimento ed è isolata.”

“Con tutto il rispetto, Sir,” obiettò Reiner. “Non esiste una gabbia che possa contenere mostri come questi.” Gettò una seconda occhiata ai due prigionieri.

Era un miracolo che le ferite, la fatica e le droghe che avevano usato li avessero tenuti buoni fino a lì.

Zeke abbandonò la prua dell’imbarcazione e si sedette di fronte a lui. A dividerli vi erano i due soldati privi di sensi. “Immagino tu sia stanco, Reiner,” disse, “ma la tua missione di guerriero non si è ancora conclusa.”

Reiner non ne aveva dubitato neanche per un istante. Nel momento in cui aveva unito i fili che legavano Eren al suo superiore, aveva capito che Zeke si sarebbe servito di lui ancora per un po’.

“Riporta il Titano Progenitore a Marley,” gli avevano ordinato. “Non possiamo lasciarlo ancora nelle mani della casa reale di Eldia.”

Bene, pensò. Metà del lavoro lo aveva già fatto Grisha Jeager e ora che stavano portando Eren a Liberio, quale era il prossimo passo da compiere?

Zeke Jeager non glielo aveva ancora detto, ma Reiner sapeva che era solo questione di tempo prima che lo venisse a sapere. 

Nulla poteva essere lasciato al destino e aveva la netta sensazione che Zeke non avrebbe abbandonato suo fratello al suo.



Quando attraccarono ai piedi del promontorio, una squadra di soldati di Marley uscì dal buio per aiutarli nella manovra. Zeke saltò giù dall’imbarcazione, atterrando nell’acqua bassa. Prese da parte il capo squadra e cominciò a dargli istruzioni.

Reiner sollevò lo sguardo e la sagoma nera della roccaforte lo inquietò. Non si mosse fino a che il suo superiore non tornò da lui.

“Ho bisogno che tu ti prenda cura di Eren per me,” disse Zeke, abbassando lo sguardo sulla figura addormentata accanto a quella del fratello. “Io penserò a lui.”

Reiner non obiettò. C’erano solo loro due lì a poter contenere la situazione e se poteva scegliere, preferiva affrontare Eren e non Levi. Zeke era un soldato più esperto, più forte, più adatto a gestire la minaccia dell’incarnazione delle Ali della Libertà.

Eren era praticamente cresciuto insieme a lui e questo garantiva a Reiner un poco di vantaggio. Lo sollevò dal fondo dell’imbarcazione senza chiedere ulteriori spiegazioni. Fu come prendere tra le braccia una bambola.

“Vai,” disse Zeke, indicando il capo squadra dei soldati con un cenno del capo. “Ti guideranno loro.”

Reiner scavalcò il corpo privo di sensi del Capitano Levi e, alla fine, mise di nuovo piede sulla sua terra.



I soldati che lo accompagnarono fino alla roccaforte non gli dissero niente. Non gli chiesero di Eldia, non mostrarono alcuna curiosità per gli anni che aveva passato sull’Isola dei Diavoli. Reiner notò solo con quanta cura si tenevano a distanza. Il problema, però, non era lui ma il fanciullo privo di sensi tra le sue braccia.

Fu Reiner a spezzare il silenzio quando presero a salire le scale dei bastioni, invece di scendere quelle dei sotterranei.

“Dove lo stiamo portando?” Domandò.

Il capo squadra gli rispose senza smettere di camminare. “Il Capitano Jeager ha fatto domanda al governo per riabilitare il prigioniero. Avrà uno degli appartamenti che sono riservati ai detenuti politici.”

Reiner non comprendeva. “Riabilitare?” 

Che cosa voleva farne il governo di Eren? Non c’era nulla da riabilitare. Chi indossava le Ali della Libertà con tanta passione non poteva diventare un cane di Marley.

Il capo squadra scrollò le spalle. “Così mi è stato detto.”



La camera in cui gli fecero portare Eren era fredda e buia. Il materasso era spoglio e macchiato di umidità. Doveva essere rimasta vuota per molto tempo.

“Noi abbiamo finito,” disse il capo squadra, restando sulla porta mentre Reiner si portava al centro della stanza. “Il Capitano Jeager ti raggiungerà quando avrà finito con l’altro.”

Quando avrà finito.

Reiner ignorò il brivido freddo che gli attraversò la schiena. Non aveva mai visto con i suoi occhi cosa accadeva tra le mura di quel castello. Non era rimasto a Marley abbastanza a lungo per divenire testimone delle imprese dei soldati regolari.

Il corpo di Eren tra le sue braccia gli parve improvvisamente pesante. Lo guardò e si ricordò di tutte le volte che aveva raccontato del crollo del Muro Maria durante i giorni dell’addestramento.

Non aveva il diritto di sentirsi disgustato. Lui non era migliore degli uomini che avevano rivestito il ruolo dei carnefici tra quelle mura.

“Ricevuto…” Si limitò a dire Reiner, tanto per togliersi quegli sconosciuti di mezzo.

Lasciarono la porta aperta e non si disturbò a chiuderla. Si avvicinò al letto, invece, e vi depose Eren con cura, stando attento a non svegliarlo con qualche gesto brusco.

Reiner restò a osservarlo per un istante. I segni della trasformazione erano scomparsi da ore e così le tracce che la battaglia gli aveva lasciato addosso.

Ben presto il suo corpo avrebbe bruciato anche l’ultima dose di droga che lo teneva in quello stato, ma ci avrebbe messo un po’ a tornare in forze.

Erano Titani, non immortali. 

Se fosse servito, Reiner non era certo che sarebbe riuscito a trasformarsi. Era stanco, abbattuto, ferito per la morte del suo migliore amico e la presenza di Eren a Marley lo turbava profondamente. Anche se Zeke avesse deciso di congedarlo, non se ne sarebbe andato. Non poteva voltare le spalle, tornare a casa e aspettare ordini dal governo.

La missione che gli era stata affidata a dodici anni, la stessa di Berthold, Annie e Marcel, aveva smesso di essere solo quello. Ripensò a Marco, al modo in cui lo avevano ucciso e poi a Jean. 

Sì, Jean. Prima aveva sentito la sua voce rimproverare Connie e Sasha di non essere tristi per lui, poi aveva impedito alla Capo Squadra di dargli il colpo di grazia.

Evento collaterale.

In gergo militare, a questo si riducevano tutti i legami che Reiner aveva creato e distrutto negli ultimi cinque anni della sua vita. Un terzo dei suoi giorni su quella terra.

No, non ce la faceva.

Marcel era morto per salvarlo. Annie l’avevano persa ancor prima che la catturassero e Berthold era stato lui ad abbandonarlo. 

Tutti gli altri, i suoi compagni, i suoi nemici, non potevano ridursi a una lista di nomi.

Marco, che era morto implorandoli. Ymir, che avevano venduto per guadagnare tempo. Krista, che non aveva mai conosciuto davvero. Connie e Sasha, che avrebbero pianto per lui anche dopo quello che aveva fatto. Jean, che aveva esitato a ucciderlo. Armin, che aveva stimato più di chiunque altro. Mikasa, che aveva temuto più di tutti gli altri.

E poi c’era Eren. 

Eren, che aveva massacrato ancor prima di conoscerlo, quando aveva abbattuto i cancelli di Shiganshina. Eren, che aveva pianto quando lo aveva tradito ma non aveva esitato a combatterlo, non come con Annie.

Eren, che aveva combattuto fino alla fine per la sua vendetta e per la libertà. Eppure, Reiner era certo che una delle due fosse una bugia.

“Ce l’hai fatta,” disse al fanciullo privo di sensi. “Il Muro Maria è di nuovo integro. La ragione per cui ti hanno permesso d’indossare le Ali della Libertà non esiste più. Hai compiuto la tua missione,” si morse il labbro inferiore. “E anche io,” aggiunse. “Dimmi, Eren, alla fine di tutto, ne è valsa la pena?”

Eren dormiva, non poteva rispondergli. La sua espressione era tanto distesa che Reiner gli augurò di aprire gli occhi il più tardi possibile. C’era l’inferno ad aspettarlo al suo risveglio, uno a cui nessun addestramento lo aveva preparato.

Una folata di vento gelido entrò dalla finestra rotta. Reiner imprecò tra i denti, strofinando la mancina sul braccio destro. Notò che c’era un camino sul lato opposto della stanza, ma quando s’inginocchiò per valutare il suo stato non trovò nulla che lo aiutasse ad accendere un fuoco.

“Se tuo fratello vuole davvero tenerti qui, qualcosa dovrà cambiare,” mormorò, afferrando il tizzone appoggiato al muro e giocando distrattamente con la cenere nera, resa umida dall’aria di mare.

Quando la voce di Eren spezzò il silenzio, Reiner trasalì e il ferro gli cadde di mano.

Scattò in piedi, ma gli occhi dell’altro erano ancora chiusi. Si agitava nel sonno, chiamando qualcuno.

“Armin.” Gli parve di udire.

Reiner esaurì la distanza che lo separava dal letto un passo alla volta. Quando le sue ginocchia toccarono il materasso, Eren si tese per stiracchiarsi e quegli occhi verdi dalle sfumature bluastre ebbero il potere d’illuminare la stanza buia.

“Reiner…” Lo riconobbe subito.

Ci fu un momento d’immobilità in cui il guerriero trattenne il fiato e l’altro non lo percepì come una minaccia.

Tempo che il sonno scivolasse via e gli occhi di Eren si accesero di odio. Cercò di portarsi la mano alla bocca.

“Fermo,” sibilò Reiner a bassa voce, come se temesse che qualcuno potesse udirli. Gli bloccò il polso destro sopra la testa. “Stai fermo,” ripeté con voce più calma, sedendosi sul bordo del materasso. “Cosa credi di poter fare? Riesci a stento a restare cosciente, come credi di poterti trasformare e combattere?”

Il petto di Eren si alzava e abbassava velocemente. Non tentò altri colpi di testa, ma Reiner sapeva di non poterlo lasciare andare. 

Si chinò su di lui. “Eren…” Cominciò, ma perse le parole per il tempo di un respiro. “È tutto finito.” Fu quello che riuscì a dire. “Non devi più combattere. Non devi più fare niente.”

Eren dischiuse appena le labbra ingoiando aria dalla bocca. C’era confusione nei suoi occhi e Reiner seppe che toccava di nuovo a lui farlo a pezzi. “Sono tutti morti,” disse senza nessuna intonazione particolare. “Sono tutti morti, Eren. Le Ali della Libertà sono state spezzate. Non devi più combattere.”

Eren non reagì immediatamente, poi tentò di colpirlo con la mancina, ma fu pugno tanto debole che Reiner non dovette impiegare molta forza per immobilizzarlo.

“No…” Biascicò, cercando di dimenarsi. “No, non è vero…”

“Fermo!” Reiner lo bloccò con il peso del suo corpo e gli premette una mano contro la fronte per costringerlo a guardarlo negli occhi. “Calmati, Eren. Devi stare calmo e ascoltarmi.”

Eren non ebbe la forza di opporsi oltre e le prime lacrime gli rigarono le guance. 

“Sei a Marley,” continuò Reiner. “Sei nella terra di cui ti parlavo, quella da cui è venuto anche tuo padre.”

Eren strinse le palpebre.

“Eren, guardami!”

Lo fece. Reiner lo sentiva tremare contro di sé e una parte di lui, quella che lo aveva spinto alla follia, si odiò per quello che gli stava facendo.

Proseguì con la sua spiegazione. “Avete perso. Tu sei stato catturato e gli altri… Tutti gli altri sono caduti in battaglia.” La sua mano scivolò dalla fronte di Eren ai suoi capelli, in un incoerente tentativo di consolarlo. “Dei soldati che hanno indossato le Ali della Libertà, siamo rimasti sono io e te… Solo io e te, Eren.”

Gli credette e non tentò di ribellarsi a quella verità. 

Eren strinse gli occhi e si raggomitolò su un fianco, piangendo disperatamente. Reiner non si mosse e gli strinse la spalla tanto per assicurarsi di avere una presa su di lui.

Rimasero così fino all’alba.



”Allora, direi che Krista sta al primo posto e fin lì siamo tutti d’accordo.”

Era quando le ragazze si mettevano da una parte che cominciavano i discorsi poco intelligenti.

“Quelle che vengono dopo… Boh!”

“Annie?” Propose Berthold. Patetico tentativo di socializzare.

Connie lo derise. “Tu hai una cotta, non conti.”

“Sasha è carina,” provò Marco, arrossendo.

“Non riesco a vedere Sasha come una donna,” ammise Connie.

Toccò a lui ridere. “Con Ymir ci riesci?”

L’altro fece un gesto come a dire di lasciar perdere. “Ehi, Jean, tu cosa ne pensi?”

Jean non partecipava alla conversazione, guardava altrove: Eren che discuteva con Armin e Mikasa.

“Ah, giusto!” Connie ghignò. “Il nostro Jean punta in alto, all’irraggiungibile!”

Jean lo guardò. “Che hai detto, scemo?”

“Avanti, amico, Mikasa è troppo cotta di Eren per accorgersi anche solo che esisti!”

“Connie, da amico, vaffanculo!”

Era vero, Mikasa era troppo presa da altro per accorgersi di Jean, ma non era lei che lui stava guardando.

Se ne sarebbe accorto poi.




-5 giorni dopo la battaglia di Shiganshina-






C’erano delle stanze per il comandante della prigione nella torre più lontana dal mare - e dagli appartamenti in cui era rinchiuso Eren - e Zeke ne aveva preso possesso. 

“È riuscito a mangiare qualcosa?” Domandò.

Reiner sedeva di fronte alla scrivania con la testa china e lo sguardo stanco. “Ci sto lavorando.”

Zeke si allontanò dalla finestra che dava su Liberio e lo fissò. “È così da cinque giorni, forse di più.”

Reiner lo guardò con astio. “Anche noi stiamo andando avanti da cinque giorni.”

Zeke non se la prese per la sua mancanza di rispetto. Si avvicinò alla scrivania e lo guardò dall’altro in basso. “Sai perché ti ho voluto qui, Reiner? Perché tra te e Eren c’è più storia che tra chiunque altro vi sia in queste terre.”

“Non più di chiunque altro,” disse, guardando il pavimento. “È ancora vivo?”

“È sotto controllo,” lo rassicurò Zeke.

C’era qualcosa del suo superiore che a Reiner dava sui nervi: la tranquillità - quasi apatia - con cui gestiva tutta quella situazione infernale. Eppure, era certo di averlo sentito divertirsi smodatamente durante la battaglia di Shiganshina.

Era uno Jeager, si disse. Lui poteva avere la mente a pezzi, ma non gli risultava che da quella famiglia fossero mai nati soggetti stabili.

Non aveva conosciuto Grisha, ma forse Eren era quello più sincero dei tre nel porsi verso gli altri. 

“Eren non mi considera un amico, Sir,” disse. “Comprendo perché tu mi voglia qui, ma non sarà la mia presenza a spingerlo a fare alcunchè.”

Zeke incrociò le braccia contro il petto. “Non so un tiranno, Reiner,” lo rassicurò. “Se hai qualcosa da dire, dilla chiaramente.”

Reiner non esitò a farlo. “Ho seguito il piano,” disse. “Eren pensa che siano tutti morti, che non ci sia alcuna ragione per cui combattere.”

“Nessuna che lui ancora conosce,” lo corresse Zeke.

Reiner aggrottò la fronte. “Il governo ha approvato il piano di riabilitazione?”

“Eren è nato per essere un guerriero. Il suo tempo è limitato come quello di tutti noi, ma non intendo sprecarlo.”

Non era il talento di Eren - qualunque esso fosse - che Zeke non voleva sprecare, ma i giorni che gli restavano da vivere, da condividere con lui. Gli unici fratelli che Reiner aveva avuto erano quelli che aveva perso, oppure tradito.

Zeke non conosceva Eren, eppure il legame di sangue che li univa lo spingeva ad amarlo senza remore.

“Perché non glielo dici?” Domandò Reiner.

“Che cosa?”

“Tutto, Zeke. Tutto.” Compreso quello che a lui e Berthold non si erano sentiti in dovere di chiedere e che, forse, Grisha Jeager aveva nascosto in casa sua per tutti quegli anni.

Zeke abbassò lo sguardo e l’ombra dell’esitazione rese il suo viso più umano. “Adesso è troppo fragile.”

A Reiner venne da ridere. “Zeke, Eren è quanto di più lontano ci sia dalla fragilità.”

Aveva retto la tragedia del Muro Maria, l’addestramento e il destino a cui suo padre lo aveva condannato. 

Si rifiutava di mangiare e di prendersi cura di sé, ma era solo una fase. 

Le sue iridi ardevano quando lo guardava.

Era sempre stato così: falliva, si disperava un po’ e poi si rialzava, pronto a liberare il mondo. Era quasi ridicolo e proprio per questo era più forte di lui, Berthold e Annie messi insieme.

“Dice di aver combattuto fino a questo momento per la vendetta e la libertà,” raccontò Reiner. “La vendetta è personale, ma quello che voleva trovare a Shiganshina lo è ancora di più. Le persone muoiono in guerra, questo lo ha accettato anche lui. La verità su suo padre, però… La verità su chi è veramente è ciò che sperava di trovare alla fine della sua ultima battaglia e quella gliela puoi dare soltanto tu.”

Zeke strinse le labbra e annuì. “Si ricorda di me?” Domandò. “Di cosa gli ho detto prima di rapirlo?”

“Onestamente, non credo che gli importi molto…”



Gli appartamenti di Eren erano divisi in due piani. Varcata la porta d’ingresso, ci si ritrova in un salotto circolare con un gran camino. Delle scale di legno portavano a un soppalco che fungeva da pianerottolo di accesso a una sala da bagno e alla camera. Eren non aveva mai messo piede fuori da quest’ultima.

Le guardie restavano di guardia di fronte all’ingresso, ma non varcavano mai la soglia. Anche nelle ore dei pasti, Reiner era dovuto scendere di persona a prendere il vassoio con il cibo per il prigioniero.

Tutti avevano paura del Diavolo di Paradis. 

Reiner non aveva ancora avuto occasione di tornare in città, visitare sua madre e valutare se e come era cambiata Liberio in quegli anni. Si chiedeva se le voci fossero arrivate fino a lì, se la notizia del suo ritorno e della perdita dei suoi tre compagni fosse arrivata al ghetto.

Forse Eren era divenuto il protagonista della nuova storia degli orrori che i genitori di Marley raccontavano ai loro figli per metterli in guardia dagli Eldian.

Beh… Nello stato in cui versava in quel momento, Eren sembrava davvero uscito da uno di quei macabri libri di favole oscure che Reiner aveva dovuto sopportare da bambino.

La sua poca collaborazione aveva impedito a Reiner di fare qualsiasi cambiamento all’interno della camera. Era riuscito a portare della legna per accendere un fuoco e riscaldarla, ma la polvere era aumentata, il materasso era ancora lercio e la finestra rotta.

Eren era l’ultima cosa a essere arrivata ed era la più sporca. 

Quando Reiner e Zeke varcarono la porta, lo trovarono raggomitolato in un angolo tra la testiera del letto e il muro di pietra, era avvolto nello stesso mantello in cui aveva fatto tutto il viaggio da Shiganshina a lì - era della Legione Esplorativa, lo avevano sottratto a Levi - e il suo sguardo era rivolto verso il cielo.

Reiner guardò Zeke con la coda dell’occhio: la sua espressione si era addolcita in una maniera che non aveva mai visto.

“Eren…” Chiamò il suo superiore.

Il fanciullo li guardò: era pallido, gli occhi scavati e i capelli unticci. Nel vedere una nuova presenza accanto a Reiner, il suo viso si animò.

Zeke fece un passo in avanti. “Ti ricordi di me?” Domandò.

Eren annuì. “Sei l’uomo che mi ha rapito,” disse. “L’uomo che ha detto di essere venuto a salvarmi e che mio padre era malvagio.”

Reiner strinse le labbra e si guardò bene dall’intervenire in alcun modo. Poggiò una spalla all’architrave della porta e decise che sarebbe rimasto lì, a guardare.

Zeke indicò il bordo del materasso lercio. “Posso?”

Eren non rispose e l’altro lo prese come un sì.

“Reiner mi dice che non stai mangiando nulla.”

Gli occhi verdi dalle sfumature bluastre si spostarono sul guerriero più giovane. 

“Sei tu che gli hai ordinato di restare con me?” Domandò Eren.

Zeke passò lo sguardo dal giovane sulla porta al fratello minore. “Ho creduto che la presenza di un ragazzo della tua età, che conosci da-“

“Io non lo conosco,” lo interruppe Eren. “Conoscevo Reiner Braun, ma è morto qualche mese fa.”

Reiner non fu preso di sorpresa da quelle parole, ma lo sorprese la calma con cui vennero pronunciate.

A Zeke servì un istante, prima di riprendere la parola. “Che cosa ti ha spiegato Reiner della tua posizione?”

“Perché mi fai domande di cui sai già la risposta?”

“Perché il tuo stato in questo momento è preoccupante e devo sapere quanto chiaramente riesci a percepire la situazione.”

Eren inspirò profondamente dal naso. “Mi avete catturato perché ho dentro di me qualcosa che a voi serve,” disse. “L’unica ragione per cui sono ancora vivo è perché, deduco, non abbiate ancora deciso chi debba divorarmi.”

Zeke rivolse a Reiner uno sguardo perplesso. “Gli hai detto questo?”

“Non ho detto niente,” replicò il giovane guerriero.

“È la spiegazione più ovvia,” aggiunse Eren. “Reiner non lo sa perché non c’era, ma ho imparato come nascono i Titani come noi e come questa maledizione va avanti.”

Zeke annuì con aria grave. “Hai ricordato di aver divorato tuo padre,” concluse.

“Ho ricordato cose che non mi appartengono,” disse Eren. “Ho ricordato te,” aggiunse con voce strozzata.

Reiner vide i suoi occhi riempirsi di lacrime e seppe che la questione sarebbe stata più facile del previsto.

“Che cosa hai ricordato, Eren?” Anche la voce di Zeke aveva perso fermezza.

Al primo singhiozzo che uscì dalla labbra di Eren, le lacrime scesero a bagnargli le guance. “Che il tuo nome è Zeke.”

Fu un colpo al cuore per il Capitano dei guerrieri. 

“Oh, Eren…” Zeke tentò di toccarlo, ma il fratello minore si ritrasse ulteriormente contro il muro. “Sai chi sono?” Domandò, restando al suo posto.

“No,” rispose Eren. “Ma lo vedo da me che assomigli a mio padre.”



-6 giorni dopo la battaglia di Shiganshina-





“Avevi ragione.” Zeke era felice. “Questa mattina, Eren ha divorato la colazione e ha chiesto altro cibo.”

Reiner annuì distrattamente: era riuscito a passare un’intera notte lontano da Eren e non era riuscito a chiudere occhio comunque. “Gli hai raccontato tutto?”

Il sorriso di Zeke perse d’intensità. “Quello che ho ritenuto necessario per farlo reagire.”

Reiner reclinò la testa da un lato. “Capirà che non gli hai detto tutto e vorrà di più.”

Zeke annuì. “Abbiamo tempo,” disse. “So che vorresti tornare a casa, ma devo andare a Liberio a fare rapporto personalmente ed Eren non può essere lasciato da solo.”

Reiner annuì: l’idea di rivedere sua madre non lo faceva impazzire e rendersene conto lo faceva stare male.

“Ho dato ordine ai soldati di fare qualcosa a quella camera,” disse Zeke. “Non vogliono metterci piede perché hanno paura del Diavolo.”

Reiner capì l’antifona. “Ci penso io.”



Eren non poteva uscire dagli appartamenti della torre, ma i soldati non avevano alcuna intenzione di restare nelle sue vicinanze. 

Reiner fu bravo a trovare una soluzione costruttiva per tutti.

“Maledizione, quanto puzzi!” Sbraitò, spingendo Eren dentro al bagno. C’era stato modo di pulirlo da fondo mentre il prigioniero se ne stava confinato sul letto lurido nella stanza accanto.

Eren gli lanciò uno sguardo carico d’odio. “Dov’è Zeke?”

Reiner fu tanto così dal prenderlo a schiaffi. “Oggi il fratellone non c’è,” disse, poggiando le spalle alla porta chiusa. “Siamo solo io e te, vedi di comportarti bene.”

Eren lo guardò in un modo tale che si sorprese di non vederlo fargli la linguaccia.

Reiner aveva acceso il fuoco prima di andare a prelevare il prigioniero e aveva fatto portare l’occorrente perché Eren potesse pulirsi e cambiarsi.

C’era una vasca al centro della stanza.

Eren vi girò intorno, incuriosito, passando la punta delle dita sul bordo di marmo. 

“Sai che cos’é, vero?” Lo prese in giro Reiner.

“A casa, cose del genere se le potevano permettere soltanto i nobili,” disse Eren, senza guardarlo. “La prima volta che ho fatto il bagno in una di questa è stato a corte, durante l’incoronazione di…” Si bloccò e ritrasse la mano come se il marmo lo avesse scottato.

Reiner inarcò le sopracciglia. “L’incoronazione di chi?”

Eren scosse la testa. “Non ti riguarda,” disse, e girò la manopola del rubinetto.

“Se lo stavi dicendo a me, significa che è qualcosa che posso capire.”

“Una delle ultime volte che Levi mi ha rimproverato lo ha fatto perché ho parlato troppo,” raccontò Eren, passando la mano sotto il getto dell’acqua. “Quindi tacerò.” Quando fu soddisfatto, si chinò per tappare la vasca e si sedette sul bordo per guardarla riempirsi.

Reiner prese un respiro profondo. “Quindi che vuoi fare? Restare in silenzio qui dentro con me come due idioti? Siamo su terreno neutrale, Eren.”

Eren lo guardò. “Non saremo mai su terreno neutrale, io e te.” L’acqua raggiunse metà della vasca e si sollevò in piedi per liberarsi dei vestiti.

Lo fece in fretta, senza vergogna e Reiner lo guardò per tutto il tempo. Nessuno dei due aveva motivo di sentirsi imbarazzato: si erano visti nudi decine di volte nelle docce comuni. 

Reiner, però, non aveva mai avuto ragione di osservarlo prima di allora. In quel momento, con solo loro due nella stanza, non poté farne a meno. Con i vestiti addosso, Eren pareva più minuto di lui o di Berthold - persino di Mikasa - ma si era guadagnato la sua dose di muscoli durante l’addestramento. Aveva un corpo armonioso, graziato da una pelle olivastra che non aveva mai avuto imperfezioni. Negli anni più brutti della pubertà, non aveva mai mostrato i difetti tipici di quell’età ingrata. 

Che Eren era bello, Reiner lo aveva sempre saputo ma come sapeva che il cielo era azzurro e l’erba verde. Vederlo così, glielo fece sentire.

Questo è quello che ha avuto Jean, pensò.

Eren s’immerse nell’acqua velocemente e non appena si sedette sul fondo della vasca lasciò andare un sospiro profondo. “Non ci posso credere…” Mormorò, passandosi le mani bagnate tra i capelli.

“Va meglio?” Domandò Reiner, avvicinandosi al tavolo da toletta per recuperare la bottiglia di sapone. La porse al prigioniero con un mezzo sorriso. “Al campo, le ragazze e, a volte, anche gli istruttori si lamentavano che i ragazzi avevano poca cura della loro igiene. Tu no. Tu eri più pulito delle ragazze.”

Eren gli strappò la bottiglia di mano. “Il Capitano aveva ragione,” disse. “In quanto soldati, siamo chiamati a condividere i luoghi in cui mangiamo, dormiamo e ci laviamo. Se non rendiamo la pulizia un nostro dovere, ci ammaleremo, faremo ammalare gli altri e-“ Si diede dell’idiota e si morse il labbro inferiore. 

Non aveva più senso recitare a memoria gli insegnamenti di Levi. Reiner non era un suo compagno di squadra e non era lì per convincerlo a eseguire le faccende domestiche come se da questo dipendesse la sua vita.

“Stavi di nuovo parlando troppo,” disse Reiner. Fece per allungargli una carezza tra i capelli, ma ritrasse la mano immediatamente. 

Eren apri la bottiglia, versò metà del contenuto nell’acqua e poi una piccola dose sul palmo destro. Strofino le mani e poi si passò le dita tra i capelli.

Reiner tornò al suo posto, di fronte alla porta. “Per quanto vale, finché straparli io mi sento rassicurato.”

Eren aggrottò la fronte. “Per quale motivo?”

“Il te che straparla è il te che conosco,” ammise Reiner un po’ nostalgico. “È il te che faceva rumore a ogni buona occasione, specialmente con Jean-“

“Non lo nominare!” Ordinò Eren.

Reiner trattenne il fiato e si ricordò che no, non era più l’Eren che aveva conosciuto quello che aveva davanti. “Mi dispiace…” Era sincero.

Gli occhi di Eren si fecero lucidi e prese a strofinarsi i capelli con forza per tenersi occupato.

Incapace di sopportare il silenzio, Reiner provò a cambiare argomento. “Sto per farti una domanda stupida.”

Eren smise di muoversi e fissò l’acqua ricoperta di schiuma, in attesa. 

“Hai capito di avere un fratello?” Domandò Reiner. “Ti è chiaro che il Titano Bestia, Zeke Jeager, è il primo figlio di tuo padre?”

Eren serrò i denti sul labbro inferiore, ma non concesse all’altro l’attenzione dei suoi occhi. Incapace di stare fermo, prese a giocare con la schiuma sulla superficie dell’acqua. “Smettila di trattarmi come uno stupido.”

Reiner non credeva che lo fosse. Al contrario, era l’ultimo nemico da sottovalutare. “Zeke era felice questa mattina,” disse. “Ha passato la notte con te. Come lo hai reso così felice?”

“Non ho fatto niente,” rispose Eren. “Ha parlato per tutto il tempo e l’ho ascoltato.”

“Di tuo padre?”

“Anche…”

“Ti ha raccontato qualcosa di Marley, di come funzionano le cose qui?”

Eren annuì nuovamente.

“Ora la storia che hai conosciuto comincia ad avere un senso, vero? Le Mura, i Titani, i segreti dei Reiss...” Reiner scivolò contro la porta, fino a sedersi sul pavimento. “A me è accaduto in modo inverso. Qui ci riempivano di storie che non ci tengo a raccontarti. Quello che ho trovato insieme a voi è stato ben diverso.”

“Non voglio sapere quanto ti ha fatto male uccidere i tuoi amici, Reiner,” disse Eren, gelido. “Ci ha già pensato Berthold a usare quella carta.”

“E credi che mentisse?” Domandò Reiner, altrettanto freddo. “Credi che qualcuno vorrebbe veramente fare di sua spontanea volontà quello che abbiamo fatto noi?”

“Io credo che sia impossibile chiedere a chiunque fosse lì, a vivere l’inferno che avete provocato, di comprendervi,” disse Eren.

Reiner non poteva dargli torto. “Quindi non offri un po’ di comprensione nemmeno a tuo fratello?”

Eren non esitò: “no.”

“E a lui lo hai detto?”

“Lo capirà…”

“Non ti conosce, Eren.”

“Vorrà dire che mi conoscerà,” concluse Eren, tornando a guardarlo negli occhi. “Mi vuole? Allora mi avrà, ma nel modo in cui sono, non come vuole lui.”

Reiner comprese di cosa avevano parlato per tutta la notte. “Ti ha detto del programma di riabilitazione.”

Eren scosse lentamente la testa. “Non diventerò un cane di Marley,” disse. “Non diventerò come te.”

Certo che no, solo Zeke Jeager si poteva aspettare qualcosa di diverso dal suo fratellino. Eren aveva ragione: lui non lo conosceva, ma Reiner sì.

“Zeke ti sta offrendo una possibilità di scampo,” gli disse. “Sei ancora vivo e puoi continuare a sopravvivere se fai la scelta giusta.”

Eren sorrise con amarezza. “Scegliere,” disse. “Levi mi faceva scegliere, solo lui. Mio padre non me ne ha dato la possibilità e mio fratello mi propone di uccidermi in due modi diversi: facendomi divorare, oppure divenendo uno schiavo.”

“E tu cosa vorresti?” Domandò Reiner con il cuore in gola.

“Vorrei che ci fosse un modo per privarvi di quello che tanto volete da me,” ammise Eren. “Vorrei che tutto questo finisse. I Titani che tengono prigioniera la gente su Paradis, quelli come noi, tutti quanti… Vorrei avere il potere di porre fine alla maledizione di Ymir una volta per tutte.”

Piangeva di nuovo e anche Reiner sentiva un nodo stringergli la gola. Nel mondo di cui parlava Eren, il destino dell’Umanità sarebbe stato nelle mani dell’Umanità stessa. Forse era la forma di libertà più grande e anche la più pericolosa.

Scegliere.

Ecco di cosa Eren stava parlando. Se si fossero guardati tutti in faccia da esseri umani, senza Titani di mezzo, forse la guerra non sarebbe finita, ma l’incubo sì. 

“Le guerre esistono con o senza mostri,” disse Reiner.

“Ti sbagli,” replicò Eren. “I mostri si cibano della morte e della distruzione ma non serve che arrivino sotto forma di Titani.”

Fu in quel momento che Reiner Braun seppe che, qualunque cose fosse successa, non avrebbe mai vinto contro Eren Jeager.

E qualcosa si ruppe.



Il giorno dopo, Zeke diede a Reiner il permesso di tornare a casa. 

Ritrovò sua madre e venne a sapere che sua cugina, Gabi Braun, sognava di seguire le sue orme e divenire un guerriero.

Quando la vide, lo abbracciò forte e cominciò a riempirlo di domande. Reiner le disse quel che poteva e allora lei gli confermò che le voci su Eren erano arrivate fino alla città.

“Ma com’è il Diavolo che tenete prigioniero nella torre?”

Gli promise che, un giorno, glielo avrebbe fatto conoscere e avrebbe capito da sola che non era affatto un diavolo.



Alla luce delle ultime conversazioni che avevano avuto, Reiner non era affatto certo di sapere che cosa era Eren.

Resistette a casa solo tre giorni, all’alba del quarto si presentò alla prigione senza che qualcuno lo avesse convocato. Zeke non si sorprese di vederlo lì: Eren era contagioso in un modo che non si poteva spiegare, ma il magnetismo che esercitava era qualcosa a cui era impossibile opporsi.

Era il fascino della resilienza.

Il mondo di Eren era andato distrutto, eppure lui era ancora lì, col suo netto rifiuto a piegarsi di fronte alle regole della nuova realtà in cui era stato rinchiuso.

E Reiner voleva essere lì quando avrebbe tentato di uscire dalla gabbia di nuovo.



Gli aveva visti baciarsi per caso.

Erano entrambi stati messi in punizione nelle stalle e gli era stato chiesto di andare a controllare che non si stessero ammazzando a vicenda.

Li aveva trovati silenziosi.

Uno con la bella bocca imbronciata e l’altro storta in un sorriso derisorio.

Eppure, le loro fronti si toccavano, i loro nasi si sfioravano.

Era stato Jean a sollevare il viso di Eren, ma lo aveva guardato a lungo prima di osare e far sue quelle labbra astiose.

Era stato attento a non farsi vedere e a sparire prima che accadesse altro.




-11 giorni dopo la battaglia di Shiganshina-






“Chi sono i bambini che continuano a cercare di vedere il Diavolo?” Domandò Eren..

Reiner si stava dannando davanti al camino per accendere il fuoco. “Lei è mia cugina Gabi e il poveretto che si porta dietro è un suo amico, Falco.”

Il Diavolo…” Ripeté Eren.

Reiner gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla. “La cosa ti diverte?”

L’altro scrollò le spalle.

Il mare in tempesta era qualcosa di spaventoso. Dalla finestra - che era stata aggiustata il giorno in cui Reiner lo aveva chiuso in bagno - Eren guardava le onde grigie alzarsi, scagliarsi contro la roccia sotto la roccaforte. Una parte irrazionale di lui temeva che potessero frantumare la roccia e farli precipitare tutti nel vuoto. Nella sua posizione, che cosa gliene sarebbe importato?

Eppure gli importava.

Qualcosa a cui non riusciva a dare un nome lo teneva in vita e lo spingeva a reagire al dolore con l’ostinazione a restare in piedi.

“Per quanto tempo resterò qui?” Domandò a Reiner, ancora occupato a ravvivare il fuoco nel caminetto alle sue spalle.

“Hai un’intera torre a tua disposizione,” gli ricordò il ragazzo che un tempo era stato suo amico. “Questa stanza non è la tua cella, solo tu ti ostini a non voler uscire.”

Eren si strinse nelle braccia, combattendo un brivido freddo. Non voleva spostarsi vicino al fuoco ed essere a portata di braccio di Reiner. “Avete dimostrato la stessa premura con Ymir?” Domandò, guardando l’altro da sopra la spalla.

“No,” rispose Reiner, secco.

“Perché?”

“La sua situazione era diversa!” Esclamò il guerriero esasperato. “Smettila di parlare di lei e comincia a riflettere un po’ di più su te stesso.”

Eren sbuffò e mise da parte il disgusto per attraversare la stanza e sedersi sul tappeto, di fronte a Reiner. Il lato positivo: accanto al fuoco non tremava come una foglia. “Zeke vuole salvarmi permettendo a Marley di usarmi come arma, fino a che il mio tempo non si sarà concluso,” disse. “Perché non fare lo stesso con Ymir? Era divenuta come noi nel periodo del crollo.”

Reiner lo fissò allibito. “Zeke ti ha detto dei tredici anni di tempo?”

Eren aprì e chiuse la bocca un paio di volte, poi scosse la testa. “Ho delle voci che mi parlano in testa,” confessò. 

Reiner lo fissò. “Hai delle voci che ti parlano in testa,” ripeté.

Eren aggrottò la fronte. “Non guardarmi così! Abbiamo dentro le coscienze di chi è venuto prima di noi, non è così strano.”

“Non ho mai sentito nella mia testa la voce di chi mi ha preceduto,” confessò Reiner.

Eren storse la labbra in un ghignetto. “La tua testa non riesce nemmeno a ricordarti chi sei, ti ricordo.”

Reiner sospirò e appoggiò il tizzone da una parte. “Che cosa è successo?”

“Quando?”

“Tra quando abbiamo cercato di rapirti e quando, effettivamente, ci siamo riusciti,” chiarì il guerriero. “Hai questo potere da cinque anni e le voci in testa non le hai mai avute.”

Eren fece una breve riflessione. “Non proprio,” replicò. “Nessuno mi ha insegnato a trasformarmi. La prima volta che mi sono morso la mano, l’ho fatto e basta.” Prese a dondolarsi nervosamente. “Ci sono diverse cose che ho fatto e basta, ma non ho mai pensato che non fossi io prima di eventi recenti.”

“Che eventi recenti?”

Eren sorrise amaramente. “Eventi...”

Reiner comprese che si riferiva al modo in cui il potere dei Titani si passava da portatore a portatore. Facendo un breve calcolo, il guerriero dedusse che Grisha Jeager non era stato l’unico ad essere divorato la notte in cui nei territori del Muro Maria si era scatenato l’inferno. Se Eren era in possesso del Progenitore, allora un Reiss era morto quella notte.

Quella, però, non era la parte peggiore, non per Eren.

Reiner un padre non lo aveva mai avuto e tutto quello che gli era arrivato di lui erano le storie a tratti deliranti di sua madre. Ciò nonostante, immaginava non fosse piacevole ricordarsi di colpo di aver ucciso un genitore divorandolo.

“Mi dispiace,” gli sfuggì.

“Non essere ridicolo,” disse Eren, sarcastico. 

Reiner portò gli occhi sulle fiamme scoppiettanti. “Perché lo ha dato a te?”

Anche Eren voltò lo sguardo verso il caminetto. “Perché ero suo figlio.”

“E che ragione sarebbe?” Reiner era irritato. “Sei l’ultima persona al mondo a cui darei il potere che hai!”

“È l’unica risposta che mi sono riuscito a dare,” si giustificò Eren. “A lui non ho potuto chiederlo.”

Reiner non poteva crederci ma quel piccolo bastardo era riuscito a farlo sentire una merda anche per qualcosa che non era direttamente colpa sua. 

“Lo odi per quello che ha fatto?” Gli venne spontaneo chiedere.

Eren non rispose al suo sguardo. Le fiamme del camino si riflettevano nei suoi occhi, dando l’impressione che le iridi fossero color oro. “Non lo so,” mormorò, infine. Lasciò andare un sospiro e tornò a guardare Reiner. “Dirai tutto questo a Zeke, vero?”

“Fare rapporto è il mio dovere.”

Dovere,” lo scimmiottò Eren. “Ti ha messo qui perché sa che con te ho più possibilità di parlare.”

“Piano inutile: mi dici solo quello che hai voglia di dire.”

“E Zeke cosa vorrebbe sentirsi dire da me?”

“Nulla che tu sei disposto a concedergli,” rispose Reiner. “Non ti conosce. Non ha idea che per quello che desidera potremmo stare qui anni per quanto sei caparbio.”

“Cosa vuole? Che giuri fedeltà a Marley dieci giorni dopo quello che è successo a Shiganshina?”

“Evidentemente…”

“Piuttosto la morte.”

“Lo sa, Eren. Lo sappiamo tutti. Lo hai ripetuto fino a sfinirci!” Sbottò Reiner. “Quello che non riesco a capire è il perché?” Aggiunse. “Lo hai capito che sono morti tutti?”

“Sì, sei stato molto chiaro a riguardo.”

“E allora usa la testa!” Nemmeno Reiner sapeva perché era tanto fuori di sé. Zeke poteva illudersi che il suo fratellino fosse quieto perché si stava facendo influenzare dalla sua presenza, ma Eren era istintivo, tremendamente emotivo, alle volte delirante, ma non era assolutamente da sottovalutare.

Eren si fece più vicino, allungando il collo per studiarlo con attenzione. “Nemmeno io capisco il perché.”

“Ah, se non sai tu quello che ti passa per la testa.”

“No, mi riferivo a te,” chiarì Eren. “Se potessi ti ammazzerei nel peggiore dei modi e tu a stento mi sopporti. Che cosa ci fai ancora qui?”

Perché sto meglio con te che a casa. Reiner non poteva dirlo: sarebbe stato come condannarsi a morte. 

Sua madre non gli era mancata e il modo in cui l’aveva accolto a casa non aveva avuto il potere di farlo sentire in colpa. Non gli aveva chiesto niente, non si era posta domande sul fatto che le famiglie dei suoi compagni non stessero festeggiando il loro ritorno. 

“Ora tuo padre sarà orgoglioso di te e tornerà da noi.” Questo gli aveva detto. “Ora sei degno di essere suo figlio.”

Perché la verità era che da lui non aveva voluto altro che una via d’uscita dalla sua infelicità. Non importava il prezzo che Reiner aveva dovuto pagare per garantirgliela.

Rimettere piede nella casa della sua infanzia era stato come guardare in faccia tutti i demoni che in cinque anni dentro la Mura aveva obliato con una bella storia. Se mai aveva ripensato alla sua camera e al viso di sua madre, non se lo ricordava.

Le tre notti che aveva passato lì dentro, però, le aveva passate fissando il soffitto e rimpiangendo quelle nelle baracche del campo d’addestramento.

Sì, a casa c’era Gabi, che lo guardava come se fosse un eroe con quei suoi occhi brillanti, ancora pieni di fiducia nei confronti del mondo. Sognava di seguire la sua strada, di combattere per la sua gente. Reiner non aveva avuto il cuore di dissuaderla perché ricordava quell’età, ma sperava che non superasse mai le selezioni preliminari.

Reiner aveva fatto tanto per tornare a casa e, alla fine, aveva realizzato che casa era quella che prima aveva distrutto e poi si era lasciato alle spalle.

Eren era tutto ciò che gli era rimasto di quei cinque anni, la sola cosa che gli provasse che era stato tutto reale e non un delirio della sua mente.

“Ti è entrato in quella testa che Armin è morto?” Reiner evitò la domanda, battendo l’indice contro la sua tempia. “Non lo rivedrai mai più, Eren. E Mikasa? Per quel che ne sappiamo giace a pezzi a Shiganshina, come tua madre!”

Eren artigliò la stoffa dei pantaloni. “Smettila…”

“E Connie e Sasha?” Reiner non aveva alcuna intenzione di fermarsi. Quell’idiota voleva che sfondasse il suo muro di difesa e allora lo avrebbe fatto. “Eri ancora cosciente quando quelli delle retrovie sono esplosi, vero?”

“Reiner, ti avverto, non-“

“E Jean ha esitato.” Quella era una delle poche cose che Reiner ricordava lucidamente della fine della battaglia. Lo avevano neutralizzato, catturato, messo contro un muro e mentre Hanji lo minacciava, Jean le aveva chiesto di aspettare. “Stavano per uccidermi e Jean ha avuto pietà di me.”

Gli occhi di Eren erano lucidi, le labbra tremanti.

“Jean era mio amico, Eren,” disse Reiner. “Come lo eri tu e come lo era Armin. Quando ti abbiamo tradito, tu hai reagito immediatamente. Jean ha avuto tutto il tempo del mondo per accettare la cosa, eppure, nel momento decisivo, ha esitato. Sì, solo un amico lo avrebbe fatto in una simile circostanza.”

Eren ingoiò aria dalla bocca. “Lo hai ucciso tu?”

Reiner scosse la testa. “Ero privo di sensi quando mi hanno portato via. Credo, però, che quell’atto di umanità sia stata l’ultima azione di Jean.” I suoi occhi scrutarono Eren. Il dolore sul suo viso era innegabile, ma, nonostante avesse innescato la miccia con cura, non era avvenuta alcuna esplosione.

“Eren…”

“Che cosa vuoi?” Domandò il fanciullo con voce tremante.

“Sei l’ultimo uomo rimasto in piedi e intorno a te non c’è altro che distruzione,” disse Reiner, quasi gli volesse dare un consiglio da amico. “Stai resistendo per niente, te ne rendi conto?”

Una lacrima scese a solcare la guancia di Eren, mentre sollevava lo sguardo per guardarlo dritto in faccia. “Mi hai detto di rimanere in vita e poi mi provochi così? Vieni a patti col tuo cervello, Reiner.”

“Non mi fido di te,” disse il guerriero. “Non m’importa cosa dice Zeke. Sei una mina vagante e ti conosco abbastanza per dire che sei meno minaccioso quando decidi di farti terra bruciata intorno.”

“Mi hai detto tu che non lo faccio perché ho bisogno di risposte.”

“Sì, ma non è una spiegazione sufficiente.” Reiner si fece più vicino. “Che voce senti nella tua testa?”

“Quella del Capitano che ci ordina di non morire,” rispose Eren, fermo. 

Le Ali della Libertà sono cadute.

“Lui come è morto?”

Reiner scosse la testa. “Te l’ho detto, ero-“

“Zeke non può non averne parlato.”

“No, non lo ha fatto.”

“Non ti credo.”

“In mezzo a quell’inferno, il Capitano Levi sarà morto in mezzo a tanti altri!”

Se Eren non ricordava male, sia Erwin che Levi erano sul lato esterno del muro mentre lui abbatteva Berthold. Era stati loro a fronteggiare Zeke.

Non ne era sorpreso: il Comandante poteva aver affidato la sconfitta del Titano Bestia a un solo soldato.

Le Ali della Libertà non esistono più.

“No,” disse Eren. “Levi è stato l’ultimo a morire.” C’era qualcosa di sottinteso in quelle parole, come se sapesse qualcosa o lo avesse intuito.

Reiner si sentì gelare. Pensò all’uomo rinchiuso nei sotterranei, di cui solo Zeke si occupava - e non aveva mai pensato di chiedere come - e di cui Eren non doveva sapere assolutamente nulla. 

Il giovane guerriero non sapeva che rilevanza avesse Levi nel piano del suo superiore: se Eren non avrebbe mai ceduto, l’incarnazione delle Ali della Libertà non era una battaglia che valeva la pena combattere. Quel che Reiner dava per certo era che Eren dovesse continuare a credere di essere da solo, isolato, senza speranza.

Se c’era una minima possibilità di successo, stava tutta lì, nell’infrangere il cuore di Eren fino a che non ce l’avrebbe fatta più a dire di no. Zeke pensava fosse una cosa poco, una pressione minima per ottenere il minimo risultato. Reiner sapeva che se il suo superiore voleva che il suo fratellino indossasse i colori di Marley, avrebbe dovuto spezzarlo ripetutamente.

A quel punto, le domande che il giovane guerriero si poneva erano due: Zeke avrebbe avuto il coraggio di spingersi tanto oltre? E anche se lo avesse fatto, quanto ci sarebbe voluto per abbattere lo spirito combattivo di Eren?

Reiner era appena tornato da una guerra e aveva la netta sensazione che a breve ne sarebbe scoppiata un’altra.

“Reiner?” 

“Uhm?”

“Hai detto che adesso siamo su terreno neutrale, io e te,” disse Eren. 

“Mi hai risposto che non lo saremo mai.”

“Ho cambiato idea.”

Reiner inarcò le sopracciglia. “Davvero?”

Non c’era timore negli occhi di Eren, non c’era nulla che lo facesse sospettare di qualcosa che andasse oltre le sue parole. “Mi hai già tradito, Reiner,” disse. “Non c’è più niente che tu debba nascondermi e io non ho nulla che valga la pena tenere segreto.”

Reiner vedeva della logica in quelle parole. “Che cosa vuoi, Eren?”

“Promettimi che, finché saremo entrambi rinchiusi qui, non mi mentirai più.”

Il guerriero sbatté le palpebre un paio di volte. “Io non sono rinchiuso.”

Eren piegò le labbra in uno di quei perfidi ghigni di cui tutti avevano sempre sottovalutato le sfumature. “Oh, sì, che lo sei, Reiner,” disse. “Vorresti scappare ma non lo puoi fare. Non so perché, non mi hai voluto rispondere ma in queste condizioni, non versi in una situazione molto diversa dalla mia e Zeke non centra niente.”

“Non ti fidi di lui.” Reiner non ne era sorpreso.

“Nemmeno tu,” replicò Eren. “A questo punto della storia, ucciderci a vicenda non è la cosa peggiore che possiamo fare l’uno all’altro. No, il peggio lo abbiamo già fatto. Promettermi di non mentirmi più e se troverò una via d’uscita, ti porterò con me.”

Reiner non era certo di capire a cosa Eren si riferisse. Era al di là del mare che aveva sognato da bambino e ancora tendeva la mano verso una libertà troppo astratta perché valesse la pena combattere per essa.

Non c’era una via d’uscita per loro.

Anche se fossero arrivati ai confini del mondo, non sarebbero mai riusciti a fuggire da loro stessi.

Erano bambini perduti, cresciuti come mostri e come tali sarebbero morti.

L’unica che restava da decidere era il quando, perché il come non sarebbe mai stato pacifico.

Eppure, Reiner aveva bisogno di una speranza a cui aggrapparsi e, suo malgrado, Eren ne era stata l’incarnazione per tanto tempo.

“Te lo prometto, Eren.”
   
 
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