Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: Loscrittoremediobis    27/11/2019    0 recensioni
Avete mai visto uno specchio?
Quell‘oggetto così comune, così solito ma anche così misterioso.
Avete mai provato a toccarlo?
Avete mai tastato quella superfice così liscia da sembrare un lago pronto a incresparsi? Avete mai immaginato di immergersi dentro o vedere qualcosa emergere?
È una pazzia, direte, una sciocchezza; eppure è quello che è capitato a me, Aurore Lumiene: ragazza catapultata in una realtà senza niente di logico, impegnata in una ricerca più grande di lei con compagni tutto fuorché eroici. Una ragazza che dovrà giocare bene le sue carte per sopravvivere in un mondo dove bianco e nero non sono ben distinti e dove, con mille lacrime, tradimenti e legami, riuscirà a voltarsi e a fronteggiare le ombre del futuro.
Se vuoi iniziare quest‘avventura, equivalente a un thè con il Cappellaio Matto, non ti fermeremo...a tuo rischio e pericolo.
Genere: Commedia, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Una dolce melodia si diffuse fra le mura, facendo vibrare le possenti colonne di marmo coi canti sul loro re e sulle imprese dei suoi cavalieri. La polvere, che s’alzava a ogni passo, danzava dolcemente nell’aria, completando quello spettacolo di rude bellezza. La vetrata, unica fonte d’illuminazione, era un mosaico di colori ed emozioni, cuciti insieme a formare un quadro di spade sacre, piume canute e prodi, portatori di precetti quanto giusti quanto universali. Eroi illuminati, la quale luce rischiarava il centro di quella piccola chiesa, facendone risaltare il pavimento di pietra in un cerchio luminoso, quasi a creare un confine fra bene e male.

Camminai verso quel secondo mondo, così diverso dal resto ma unitario, come se da sempre avesse vissuto parallelamente con noi comuni mortali, ma che solo a pochi fosse concessa la visione. Gli stivaletti scuri facevano riecheggiare ogni mio passo, mentre la veste nera come la morte quasi toccava il pavimento, imprigionandomi in una gabbia di castità e purezza. Mi scostai leggermente il velo scuro che, inutilmente, cercava di coprire i miei lunghi capelli biondi, creando un contrasto talmente netto da apparire quasi fastidioso. L’umidità permeava in ogni angolo del posto, come se tante lame gelate fossero state scagliate in profondità della mia schiena, arrivando fino all’osso.

Continuai a camminare verso quel cerchio di luce; lo desideravo, lo bramavo per un motivo a me ignoto, come il predatore non si poteva astenere dalla carne fresca, io non potevo fare a meno di quella luce.

-Aurore-.

Mi bloccai. Davanti a me una ragazza mi guardava con un espressione affranta: i capelli ramati, più corti dei miei, scendevano fino a metà schiena in tanti piccoli riccioli. Indossava un vestito identico al mio, talmente chiuso da apparire opprimente, con l’unica differenza che era del colore della neve, come il velo che dolcemente le cingeva il capo. I suoi occhi verdi, così simili ai miei, parevano quasi scrutarmi con una scintilla di emozione, come se da un momento all’altro potesse venirmi incontro. Rimasi immobile, i muscoli paralizzati per la visione che avevo davanti. Non era possibile, non volevo crederci: il mio cervello mi diceva che era solo un’ illusione, un mero gioco della mente, ma il mio cuore urlava che era tutto vero, che era lei in tutto e per tutto: stessi capelli, stessi occhi intrisi di espressioni nascoste, stesso linguaggio del corpo.

Era lei

La lotta fra ragione e sentimento continuò, rimasi paralizzata per quella che sembrò un eternità, fino a che, stentatamente, non feci un altro passo.

-Ferma-.

I canti si spensero, come il lume di una candela, facendo rimbombare il mio movimento. Strinse i pugni, una rabbia cieca infiammava i suoi occhi. –Non avvicinarti-.
La sua voce risuonò, congelandomi di nuovo sul posto. Quella non era lei: non mi avrebbe mai parlato così, non mi avrebbe mai guardato così. Cercai di parlare, di emettere un suono, ma la voce mi usciva flebile ed eterea.

-Tu non fai parte della luce, lo sai- continuò. Toccando la piccola croce nera che pendeva dal suo collo. –Devi restare qui, a vegliare sulle ombre-.
Qualcosa si ruppe. Quelle parole non avevano un minimo di senso, perché non appartenevo alla luce? Che voleva dire che dovevo vegliare sulle ombre? Cercai di trovare una spiegazione, esplorando in ricordi inesistenti, annebbiati da una spessa foschia.
Un suono lacerò l’aria.

Mi voltai verso la vetrata; una tromba stava suonando al di fuori di queste quattro mura. Riposai lo sguardo su di lei, che si era voltata a sua volta verso lo spettacolo di luci.

Che cazzo stava succedendo?

-Eccoli- il suo tono era limpido, come se si beasse di quel suono. La luce risplendeva su di lei, illuminando i suoi boccoli ramati e i suoi occhi color smeraldo, donandole una regalità senza precedenti.

Sembravamo due opposti: lei, così bella, elegante e risplendente di luce. Io invece nascosta nell’ombra, invisibile come un reietto che non aveva il diritto di toccare quel suolo superiore.

-Chi?- Fu l’unica cosa che riuscii a dire, terrorizzata da quella situazione così irreale che appariva ai miei occhi. Si rivoltò, incastonando le sue gemme verdi con i miei occhi. Aspettai una risposta che mai arrivò. La luce iniziò a farsi più flebile, i canti ripartirono, ma diversi: più cupi, come a sottolineare una colpa. Non riuscii a muovermi, non riuscii a urlare il suo nome, come nella speranza che al solo richiamo sarebbe riapparsa, le luci piano piano svanirono, facendo dominare le ombre.



 
Mi svegliai con un sussulto. Gli occhi, investiti dalla luce del sole, sembravano quasi bruciare. Mi rimisi seduta, massaggiandomeli spazientita. Era stato tutto un sogno, solo un fottutissimo sogno.

Riaprii gli occhi. L’auto ritornò vivida alla vista: i sedili color caffè, la radio con la musica che risuonava allegramente. Presi un respiro profondo, certa ormai che ero entrata nel mondo reale: un mondo senza chiese, canti corali, strombettatori abusivi e lei.

Lei.

-Buongiorno-.

Sobbalzai. Ero talmente concentrata sui miei pensieri che avevo dimenticato la presenza della guidatrice. Anche perché sennò l’auto non si sarebbe potuta muovere, a meno che non fosse stregata, ovvio.

-Buongiorno- risposi fiacca, osservando dallo specchietto l’espressione divertita della mia interlocutrice. –Quanto ho dormito?-

-Un bel po’-. La donna svoltò a sinistra. –Mentre dormivi abbiamo fatto tutta l’autostrada-.

Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva. Col traffico che c’era facevamo un metro ogni venti minuti. Avrò dormito tantissimo!

-Eri veramente presa-. Svoltò di nuovo, facendo dondolare il piccolo pino di legno che pendeva dallo specchietto. -Vuoi un fazzoletto?-

-Per cosa?- Alzai un sopracciglio dubbiosa. Ero sicurissima di non essere malata. La donna sorrise ancora, gli occhi bruni colorati di così tanta vitalità da fare contrasto con la sua età.

-Per la bava che ti sta colando dalla bocca- rispose, trattenendo una risata.

Presa alla sprovvista mi toccai la parte inferiore delle labbra: un liquido appiccicoso ne rivestiva la superficie, colando fino al mento.

-Maledizione!- Mi sfregai via il liquido maledetto con un braccio, mentre con l’altro cercai inutilmente un fazzoletto. –Perché non mi hai svegliato? Si è levato? Si è levato?- Presi al volo il fazzoletto che l’anziana mi porse, passandomelo agitatamente sulla bocca. –Allora?-

-Tutto apposto- rispose, ampliando ancora di più il suo sorriso. –Vuoi che spenga la radio? Dato che non russi più non ce n'è più bisogno-.

-Aspetta, russavo?- La donna esplose in una risata rauca, senza staccare gli occhi dalla strada. –Ovviamente mia cara. Russavi talmente tanto che ho dovuto alzare il volume della radio a tredici. Eri uno spettacolo, con la bocca aperta e la testa all’indietro. Da farti una foto-.

Mi nascosi il viso fra le mani, cercando di celarne il rossore. Perché dovevo sempre fare queste figure di merda?

-Mi dica che non l’ha fatta veramente- mugugnai, spostando un dito per vederla ancora una volta sorridere.

-No tesoro, anche se avrei voluto. Eri un personaggio.

“Come se non lo fossi sempre stato” pensai. Allontanando le mani e ringraziando mentalmente qualsiasi entità abbia avuto la misericordia di metterla alla guida.
La signora Brunetti era la perfetta raffigurazione dello stereotipo sulla buona donna di chiesa: bassa, grassoccia, la pelle segnata dall’età in netto contrasto coi capelli tinti di rosso, i numerosi gioielli che portava e le scarse capacità di guida che la rendevano un pericolo pubblico in quelle sterrate strade di campagna.

Mi scostai dal finestrino, ringraziando anche per la cintura che mi stava salvando da morte certa, e spostai lo sguardo verso il tetto della macchina, continuando a pensare a quello strano incubo. Non avevo mai sognato niente del genere: di solito i miei sogni, per quel poco che ricordavo, erano totalmente irrazionali, niente a che vedere con quello. Era così logico da essere quasi inquietante, non capii nemmeno come facessi a sapere che fossi in una chiesa, o di cosa parlassero i canti corali. Presupposi che era in classico “sapere senza sapere”, tipico dei sogni. Come conosciamo i nomi delle cose più basilari nella realtà lo stesso criterio si può applicare al mondo onirico, guidato comunque dal nostro inconscio.

-Siamo arrivate-.

La macchina si fermò di colpo, sbalzandomi in avanti. Stavolta neanche la cintura mi salvò, ritrovandomi faccia a faccia col sedile che sapeva di libro vecchio.

A furia di continuare così finirò con un trauma cranico, sicuro.

La signora Brunetti scese goffamente dall’auto, tirando fuori il cofanetto della cipria, sistemandosi alla meglio. Ancora scombussolata provai a scendere a mia volta, inciampando e cadendo malauguratamente al suolo.

-Aurore!- La donna mi aiutò a rialzarmi, spolverandomi la maglietta per levare più terra possibile. –Sei proprio un disastro- aggiunse, ridendo sotto i baffi. Non poté fare a meno di strapparmi un sorriso, quella donna riuscirebbe a far tornare di buon umore pure un vecchio pensionato.

-Dove siamo?- Chiesi, osservando il paesaggio attorno a me. Eravamo su un piccolo marciapiede, dove davanti ad esso varie case, tutte diverse, parevano seguire la sua direzione. Ogni abitazione aveva davanti un giardino, alcuni ben curati, altri assolutamente distrutti. I muretti di pietra che le dividevano completavano il tocco rustico. Mi voltai dall’altra parte, ritrovandomi solo altre case che seguivano la strada come soldatini.

-Siamo a Lime, più precisamente in periferia- rispose la donna, tirando fuori un foglietto. –Su, prendi la valigia e andiamo. Non vorrai tardare, vero?-

Annuii, e dopo che lei me lo aprì, presi dal bagagliaio una grossa valigia bianca. Quando fu tutto in ordine ci avviammo sul piccolo marciapiede, accompagnate dal sole d’inizio aprile. La signora Brunetti camminava china sul foglio, borbottando parole incomprensibili. Man mano che avanzavamo davo un occhiata alle varie casette: erano quasi tutte in legno, ad eccezione di qualcuna costruita in mattoni. Posai lo sguardo su un giardino di una bella casetta bianca: un bambino stava giocando allegramente con una bambina, evidentemente la sorellina, sorvegliati dalla madre che li guardava con occhi pieni di tenerezza. Non vidi il padre, ma dai movimenti delle tende capii che era dentro casa, magari a sbrigare qualche faccenda.

-Sessantaquattro! Eccola!-

La voce gracchiante della donna mi bloccò di colpo, facendomi quasi collidere con quella specie di palla con le gambe. La signora Brunetti suonò il campanello e una voce maschile, alterata dal macchinario, ci aprii il piccolo cancello. Alzai lo sguardo verso l’abitazione: una casa a due piani, evidentemente una casa famiglia, era color panna con le tegole color cemento. Non sembrava differenziarsi molto dalle altre case per le dimensioni, ma il giardino ben curato faceva la sua figura.

-Piccola. Che hai?-

Riabbassai gli occhi verso la donna, che mi guardava con un espressione decisa, le braccia poggiate ai fianchi e gli occhi ridotti a fessure, trattenendo a stento un sorriso.

-Nulla, perché?- Risposi, cercando di liquidare ogni pensiero che mi era passato per la mente, che però non sfuggirono alla rossa; la quale sospirò stizzita. –Ti conosco. Hai la faccia da chi gli è morto il canarino-.

-Non mi ricordi quell’avvenimento, la prego- risposi con un certo disagio. Non avevo mai compreso la sua passione per i canarini, ma li amava talmente tanto che ne aveva ben sette, tutti col nome delle note musicali. Almeno finché non gliene uccisi uno mentre giocavo a palla nel cortile.

La signora Brunetti posò le sue mani grassocce sulle mie braccia, il suo sorriso amorevole sembrava carico di parole che solo una madre, per quanto slegata dal sangue, poteva pronunciare. –Sei tesa per il colloquio vero? Tranquilla, andrà tutto bene, non è neanche la prima volta che lo vedi. All’orfanotrofio sembrava gli avessi fatto una buona impressione, non preoccuparti-.

Quel sembrava risuonò prepotentemente nella mia testa, caricandomi di dubbi. E se fosse finita come al solito? E se fosse solo l’ennesima famiglia che mi avrebbe cacciato dopo qualche mese? Non volevo fare casini. Non volevo richiudere la valigia e andarmene, sotto li ennesimi sguardi di ghiaccio. Immaginai per un istante la scena: la discussione, la sua lenta degenerazione e poi gli scoppi, gli strilli e i pezzi di vetro di quelle che prima erano solo semplici lampade. La chiamata, l’auto e l’ultimo sguardo.

-Aurore!-

Mi risvegliai dai miei pensieri. La donna davanti a me pareva quasi comprendermi, la sua espressione bonaria parlava per lei, il suo amore parlava per lei.
-Hai detto che è solo un uomo, vero?- Chiesi, cambiando totalmente argomento, per sfuggire da quel macigno d’imbarazzo e negatività che si era formato.

-Sì. Ha un altro ragazzo, pure lui adottato-.

Solo a me questa cosa sapeva d’illegale?

Osservai il piccolo giardino, il lastricato di pietra sembrava quasi chiamarci. Posai lo sguardo sul numero scolpito nella roccia e infine sulla signora Brunetti, l’unica donna all’orfanotrofio che non mi aveva considerato un caso perso, che mi aveva sempre fatta ridere e accompagnata in quei viaggi fallimentari.

Annuii.

La donna sorrise, avendo capito il messaggio. Mollò le mie braccia e si diresse verso la porta, facendomi cenno di seguirla.
Guardai la casa in tutta la sua semplicità. Stavo per iniziare una nuova vita, in un nuovo posto completamente sconosciuto.

Beh, le ansie erano poche.

Ispirai una boccata d’aria campagnola; sentendo quasi il profumo della legna e dei fiori invadermi le narici, assieme ai cento chili di profumo che la signora Brunetti si ostinava a mettere.

Mi avviai tossendo, sperando che quella divinità di prima mi graziasse con un terzo miracolo.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Loscrittoremediobis