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Autore: AriilUndomiel    27/11/2019    2 recensioni
Thorn scappa dalla sua prigione di Cittàcielo, ma nessuno sa come lui ci sia riuscito. In questa mia primissima fanfiction, ho voluto provare a immaginare i pensieri di Thorn e la sua fuga. Un Thorn, il mio, innamorato e col cuore infranto. Spero vi piaccia, un bacio. -Luna
Genere: Angst, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Dopo il loro incontro con Dio, la cella era in subbuglio. L’acqua scorreva dal lavandino, il lume era a terra e i pochi mobili erano stati rovesciati sul pavimento.

 

L’intendente, o meglio, l’ex intendente, ora era solo. Solo con i suoi pensieri nell’attesa che Faruk entrasse con il suo giudizio, pronto alla mutilazione dei suoi poteri familiari, certo essere mutilato dagli artigli non importava molto, ciò che Thorn temeva maggiormente era la perdita della sua memoria. Sarebbe finito come sua madre:  un guscio vuoto, un bambino innocente.

 

Ofelia era andata via, era uscita dicendo che sarebbe andata a parlare con il re, per cosa? Per implorare che lui non venisse mutilato? Non sarebbe servito, Thorn aveva cercato di fermarla, ma invano.

 

Doveva fare qualcosa, ma cosa? Era ancora appoggiato al muro della cella quando si ricordò della pistola che gli aveva portato Archibald, per una volta quel don Giovanni aveva fatto qualcosa di utile, l’uomo allungò una mano per prenderla, ma subito gli sovvennero le parole di Ofelia.

 

“promettetemi di non fare gesti sconsiderati finché non sarò tornata” aveva detto, ecco forse uccidersi era una cosa più che sconsiderata.

 

Rimase ancora per un po’ poggiato al muro della cella, mentre guardava il suo sangue sgorgare e mischiarsi all’acqua del rubinetto. Ora era il marito di Ofelia, certo il loro non doveva che essere un semplice matrimonio di convenienza, giusto per lo scambio dei poteri familiari, ma col tempo Thorn aveva iniziato a provare qualcosa per quella donnina goffa e timida che viveva perennemente avvolta dalla sua sciarpa di lana, aveva ucciso il barone Melchior per salvarla, rinunciato ai suoi privilegi di intendente e ora si trovava in quella cella, quella maledettissima cella dorata.

 

Chiuse per un momento gli occhi e si passò una mano sul viso ripensando alla cerimonia del Dono, non era diventato un lettore come sperava, ma forse aveva ereditato un po’ dell’animismo della donna o la capacità di attraversare gli specchi.

 

Scrutò la stanza in cerca di qualcosa di riflettente, uno specchio magari, ma era circondato solo da pareti dorate. Certo… poteva sfruttare le pareti e la sua immagine riflessa! Strisciò verso il muro oro più vicino, la gamba rotta gli faceva male ad ogni movimento, strinse i denti per non pensarci e poggiò una mano sulla parete. Ofelia aveva detto che per attraversare gli specchi era necessario essere sinceri con sé stessi, Thorn sperò fosse abbastanza, la sua mano sprofondò sul riflesso della parete come se fosse acqua e il suo corpo la seguì lentamente.

 

Si ritrovò in una specie di limbo, una stanza nera e pensò a dove potesse andare senza essere scoperto. Gli tornò subito in mente la capanna di Vladislava, l’Invisibile a cui aveva chiesto di proteggere Ofelia durante tutti quei mesi al Polo. Si concentrò sullo specchio che si trovava nel salotto di quella casetta, ci si era specchiato una volta, e finì per trovarsi catapultato al fuori di esso. Caddè sul pavimento, un po’ tragico come primo attraversamento. Gemette di dolore a seguito dell’impatto, la gamba sinistra non era che un peso morto ora, ma il dolore lo accecava, chiuse gli occhi e perse i sensi.

 

“Intendente, mi sentite?” lo chiamava una voce, ma era troppo intontito per riconoscerla, però si trovava steso su qualcosa di morbido e un pungente odore di disinfettante riempiva la stanza. La sua mente viaggiava in modo vago, le mimose, la statua del soldato senza testa, il libro, Dio, Faruk…

 

“Al principio eravamo uno, ma Dio non era soddisfatto di quella forma, così ha cominciato a dividerci…Dio ha fatto a pezzi il mondo. Ora ricordo, Dio è stato punito. Quel giorno aveva capito che non era onnipotente. Da allora non l’ho più rivisto”

 

Quelle parole continuavano a frullargli in testa mentre la voce lo chiamava.

 

Aprì gli occhi all’improvviso.


“Io, io… devo andare a Babel” disse alzandosi di scatto, ma una fitta di dolore alla gamba offesa lo costrinse a lasciarsi cadere di nuovo a letto cacciando un urlo di dolore.

 

“Intendente, non dovreste sforzarvi, la vostra gamba sinistra è fratturata in più punti dal ginocchio alla caviglia” disse la voce, che Thorn associò a Vladislava.

 

“Non sono più l’intendente- disse freddo- grazie per avermi recuperato dal vostro pavimento e non avermi denunciato”

 

Vladislava lo guardò quasi con dolcezza.

 

“Era un mio dovere, avete aiutato la mia famiglia a tornare nella società, vi sono grata signor Thorn” sorrise all’uomo che però non lasciò trasparire alcuna emozione dal suo volto, era tornato l’orso scorbutico di sempre.

 

Vladislava uscì dalla stanza per lasciarlo riposare. Quella notte non fece altro che pensare ad Ofelia, a quanto la amasse, a quanto si odiasse per non averglielo detto prima e a quanto non riuscisse ad odiare lei per non amarlo, la capiva, non lo amava perché era brutto, il suo atteggiamento scontroso, le sue cicatrici lo rendevano un mostro agli occhi di tutti.

 

Una lacrima gli rigò il volto, Thorn doveva andare a Babel e doveva andarci per risolvere il mistero di Dio e dell’Altro, solo risolvendo il problema avrebbe potuto riabbracciare la sua Ofelia senza metterla in pericolo.

 

Passarono circa due mesi da quel giorno, Thorn scoprì a poco a poco, che oltre ad essere un attraversaspecchi era diventato anche un animista, i suoi oggetti infatti avevano un carattere scorbutico quasi quanto il suo nei confronti degli estranei. L’uomo si trovava ancora a casa di Vladislava poiché la sua gamba, nonostante la ricalcificazione delle ossa non osava obbedirgli, non reggeva il peso del suo corpo, non riusciva a stare in piedi se non poggiandosi ad un bastone e non per molto tempo, ma doveva andare a Babel.

 

Un giorno, mentre stava rannicchiato su una poltrona evidentemente troppo piccola per il suo corpo, Vladislava entrò nella piccola capanna con un uomo, a detta della donna doveva essere il medico che lo aveva soccorso appena arrivato dallo specchio, lo stesso uomo che aveva medicato le sue ferite più e più volte quando era un bambino tormentato dai fratelli.

 

“Come sta il nostro paziente oggi?” Chiese il medico a Thorn, avvicinandosi per prendere posto su una poltrona davanti alla sua.

 

Lui non rispose, si limitò a fulminarlo con i suoi occhi argentei, come doveva stare poi? Come lo storpio che era diventato e col cuore a pezzi per la lontananza dalla donna che amava.

 

“Devo dire che non siete cambiato affatto, siete ancora quel bambino taciturno e arrabbiato col mondo che ho conosciuto anni fa -disse il medico osservando come Thorn rigirasse dei piccoli dadi in legno fra le mani, l’orologio non lo aveva più, era rimasto nell’ufficio dei carcerieri, il simbolo del suo legame con Berenilde, la donna che lo aveva allevato come un figlio senza pensare a lui come un povero bastardo, intrappolato in chissà quale cassetto.- e vedo che anche la passione per i dadi non è terminata.”

 

“I dadi… tutto torna sempre ai dadi, Dio gioca con noi come con i dadi e io devo cercare di finire questa partita. I dadi della mia vita devono tornare fra le mie mani” disse lanciando e riprendendo i cubetti di legno, parole che al signore sulla poltrona difronte non risultarono affatto chiare, ma nella mente di Thorn risuonarono limpide quasi quanto uno specchio d’acqua: avrebbe sconfitto Dio, ne era certo.

 

“Beh, signorino Thorn, ero venuto per darle una bella notizia e lei mi accoglie parlando di dadi e cose incomprensibili”- ironizzò il dottore, Thorn continuò a guardarlo in silenzio finché l’uomo non parlò di nuovo- “posso restituirvi un po’ della vostra mobilità” detto questo tirò fuori dalla sua valigia una sorta di armatura, un esoscheletro in metallo e cuoio articolato che andava dal ginocchio alla caviglia.

 

Thorn guardò l’uomo e l’armatura con una certa perplessità.

 

“E questa cosa mi permetterà di camminare?” Chiese sgranando gli occhi.

 

“Esattamente, Vladislava mi ha detto che state imparando a controllare il vostro animismo, una volta installata, l’armatura potrà formare una connessione diretta fra vostro sistema nervoso e il vostro animismo e vi permetterà di muovervi indisturbatamente. Certo, in modo limitato, ma almeno sareste in grado di camminare e di stare in piedi per molto tempo e anche senza un bastone”

 

Thorn ringraziò l’uomo mentre questo fissava l’armatura sulla sua gamba. In seguito dovettero passare ancora mesi per far si che diventasse in grado di camminare in maniera sicura e imparasse a governare l’esoscheletro.

 

Non passava giorno, tuttavia, in cui non pensasse alla sua Ofelia e ogni sacrificio, ogni impulso di dolore, ogni progresso erano nella sua testa dedicati a lei.


Quando il medico lo ritenne pronto a sufficienza gli consentì di partire per Babel, comprò per lui un biglietto del dirigibile e Vladislava gli tinse i capelli con del carbone in modo da nascondere il biondo tipico della gente del Polo, così a distanza di cinque mesi dalla sua fuga dalla cella di Cittàcielo, Thorn si trovava in un dirigibile verso l’arca cosmopolita di Babel, verso la sua risoluzione della questione di Dio.

 

Mentre il congegno si alzava nel cielo, Thorn guardava dal finestrino sperando che Berenilde e la sua bambina stessero bene, che Ofelia avesse seguito il suo consiglio di portare anche loro su Anima e versò

un’ ultima lacrima sognando il momento in cui avrebbe riabbracciato la sua piccola animista goffa.

NOTA DELL' AUTRICE: Grazie a chiunque arriverà a leggere questo angolino, spero apprezziate e che amiate Thorn come me. Per essere del tutto chiara ci tengo a precisare che le parti in corsivo all'interno del brano sono citazioni al romanzo, ma presumo lo sappiate già. Spero non abbiate trovato troppi errori grammaticali, se vi va lasciate una piccola recensione e alla prossima storia. Un bacino fatato, Luna
   
 
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