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Autore: Momo Entertainment    29/11/2019    1 recensioni
[And... we are back on air.]
Unima, un anno prima degli eventi di Pokémon Nero 2 e Bianco 2.
Cinque bellissime ragazze sono state scelte, ma solo una di loro diventerà la nuova Campionessa della regione.
Insieme combatteranno e soffriranno, rideranno, piangeranno vivendo insieme l'estate della loro vita: la loro giovinezza.
Essere il Campione non significa solo lottare.
Significa anche vivere. Amare. Credere. Sognare. Proteggere.
Genere: Avventura, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shoujo-ai, Yuri | Personaggi: Anemone, Camelia, Camilla, Catlina, Iris
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Anime, Videogioco
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ESGOTH 3



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Early Summer Girls

Capitolo 20

La vetrina delle vergogne viventi

 

Dove sta l’onore maggiore: nel godere di un grande premio o nell’incombere di una grave pena?

Gli applausi durano giusto il tempo di un grido e poco o niente rimane del momento di gloria. Chiunque può sentirsi cantare le lodi e dimenticarne il coro, assordato dal silenzio. Ma solo alle persone veramente ritenute eccezionali è riservata dedizione nella loro caduta, ci si prende cura di vederle spegnersi pian piano, seguendo una rigorosa procedura nel rovinarle interiormente ed esteriormente.

«Signorina, ci deve consegnare immediatamente le sue Poké Ball.»

Un paio di mani guantate porgevano una busta di plastica con un codice a barre ed un’etichetta che recitava “oggetto confiscato”.

«Ma neanche se vuoi!»

Gli fu risposto, mentre la giovane si reggeva nelle maniche, in realtà non del tutto determinata a farsele strappare con la forza come ultima spiaggia.

Le altre la stavano a guardare, come se quella reazione fosse immotivata. In realtà si stavano pentendo della propria docilità, almeno un’opposizione simbolica non sarebbe stata sprecata. Invece così sembrava che quattro su cinque si fossero fatte convincere ad abbandonare i loro fedeli Pokémon in mano all’ennesima recluta con i capelli ossigenati ed il piercing sul naso.

«Senti, rossa. – La apostrofò la sequestratrice, che si girava fra le mani un manganello come fosse una clava da ginnastica – Se mi lasci in mano le sei Poké Ball senza che ti faccio patire un dente, rendi tutto più facile.»

Già per le prime due parole la Capopalestra s’era infuriata come poche volte.

«E poi cosa gli fate? Gli iniettate sangue infetto delle peggio ebole e alla fine li liberate finché non muoiono?!»

«Anemone, calmati. Dagliele e basta. – E poi a voce più sommessa, Camilla aggiunse – Se non collaboriamo, potrebbe anche prendere le tue proposte in considerazione.»

Anemone pensò a quanto odiasse tale condiscendenza, ma per quella volta non poteva biasimarlo all’altra. Prese tre sfere per mano e le consegnò alla recluta sbattendogliele con tale forza contro da costringerla ad indietreggiare.

Non solo mezz’ora di impertinenti controlli, in cui le avevano tastato come minimo ogni centimetro del corpo con meno delicatezza che in qualsiasi aeroporto avesse mai messo piede, stava anche di fatto che tutte loro meritassero anche la foto segnaletica.

Dopo essere state perquisiste dagli Herdier (non che vi fossero molti posti in cui nascondere oggetti contundenti o esplosivi in un kimono in cotone corto fin sopra al ginocchio) le fecero cambiare con le classiche uniformi da carcerati, quelle arancioni.

Un piccolo particolare saltò subito all’occhio. E ne fu fatto un reclamo, perché avevano il diritto di rimanere in silenzio, ma anche il dovere di lamentarsi, se era per quello.

«No, scusate, ma uniformi in poliestere e viscosa? A luglio?» Camelia si fece sentire, leggendo l’etichetta perché lei era abituata a metterseli i vestiti, non a manifatturarli.

Una recluta a cui i pantaloncini stavano stretti ed aveva le smagliature la guardò confusa e le rispose.

«Ghecis ha voluto così.»

«Non si possono avere quelle estive?» Le chiese, in un certo senso anche a nome delle altre.

Sollevare un po’ di futilità in quel momento di incertezza stava facendo l’effetto di rendere quel trambusto meno ufficioso e meno grave di quanto non si palesasse loro: mentre si facevano gli affari loro, persone mandate dal vertice chiesero loro di alzarsi con calma, di seguirli sempre con calma e soprattutto di stare calme, mentre legavano una tozza cavigliera nera con uno schermo lampeggiante a ciascuna.

Se inizialmente ciò aveva suscitato sgradevole stupore, la faccenda si stava evolvendo in una paura del tutto informe, dato che quei riti di passaggio verso la gattabuia si svolgevano sì nell’istituto carcerario in cui erano state scortate dalla polizia in macchina, ma di ufficiali e guardie neanche l’ombra.

La recluta di prima, non quella dei controlli, quella delle uniformi, alla fine rispose alla mora.

«Hanno detto che non si può. Non ci sono le vostre taglie.»

«Se ti lascio fare una foto con me, - Camelia si indicò, provando ad usare la propria fama per associazione d’immagine – e te la autografo, così la vendi su internet?»

«Aspetta che chiedo.» E quella contattò con il walkie talkie chissà chi per l’autorizzazione.

Qualora le fosse stato concesso almeno quel piccolo privilegio, avrebbe avuto conferma di poter usare ancora qualche trucchetto intramontabile per uscire da quella posizione disagiante. 

«Mi riferiscono che tanto appena tutto questo sarà finito il tuo valore come persona cadrà al di sotto del prezzo di una Pozione.»

E se ne andò di sua spontanea volontà, tornò solo quando tutti e cinque gli yukata colorati non finirono sul pavimento: collezionati i nastri e le cinture, la simpaticona almeno mantenne la promessa di rispedirli indietro a Nardo e di non bruciarli assieme al ciarpame accumulatosi negli uffici del vecchio governo.

Però con le suppliche qualcosa Camelia e le altre riuscirono ad ottenerlo.

Di non perdere i capelli, per esempio. Probabilmente, qualcuno contava di raccogliere le folte lunghe chiome dai colori così vivaci e singolari per farci una parrucca o la stoppa per le fessure.

Ma alla fine, dicendo di averli colorati o di portare le extension, tale proposito non fu attuato.

Quando fu il momento della foto, fu chiara una cosa: quel processo così laborioso e snervante sia per chi lo subiva e chi ne reggeva i fili non era nulla di costituzionale o formalizzante. Togliersi lo smalto tanto carino, raccogliersi i capelli di modo che non cadessero oltre le spalle, via bracciali, anelli, collane, neppure le scarpe gli era stato permesso di tenere.

Senza ombra di dubbio, più che renderle ancora più innocue ed indifese di quanto già non fossero, le cinque sventurate erano state spogliate della loro essenza, della loro identità.

Era molto più semplice controllare delle bamboline spaventate dalla loro stessa ombra, aspettando che diventassero abbastanza opportuniste e sfruttarle per qualche bassezza, sarebbero dovute somigliare ai nemici controllati dall’intelligenza artificiale dei giochi di ruolo: senza faccia, senza nome e senza volontà.

Peccato che quella sera avessero proprio una gran voglia di litigare, le aspiranti Campionesse.

La ragazza delle fotografie la odiarono tutte, indistintamente.

Le fece disporre a mezzo metro di distanza l’una dall’altra, facendogli usare le braccia come misuratore. Pretese che Iris, essendo la più bassa, si posizionasse nel centro, che le due diciassettenni fossero ai lati e sugli angoli le due più anziane. Stavano di fronte alla famigerata parete con le tacche, divise dalle operatrici da un vetro spesso, tanto che per parlare la recluta si serviva dell’interfono.

Intanto ella parlava con le altre sue amichette, che non si potevano sentire dall’interno della stanza blindata, gesticolava e indicava divertita le cinque figure, in piedi, immobili, quando alla rossa per sbaglio scivolò di mano il cartello identificativo, la capa si mise a gridarle “tiralo su, mongoloide”.

Gli fu chiesto di non sorridere e non mostrare i denti. Tutte annuirono, guardando dritto avanti a loro, come topi ingabbiati. Apprezzarono che per non sprecare tempo avessero preferito una foto di gruppo, anche se non si trattava dello staff più gentile con cui collaborare.

«Bionda, spostati quel diavolo di ciuffo, ti si devono vedere entrambe gli occhi. Mora, tu alza la testa.» Rimbombò la voce, tutte si girarono verso la diretta interessata.

«Faccio servizi fotografici da cinque anni, non mi faccio dire come posare da una che mette il fondotinta liquido sopra dei pori larghi come crateri.» Le rispose l’altra, sorridendo tra l’altro.

«Dai, Camelia... mi fanno già male le ginocchia.»

La più piccola del gruppo fece per colpirla con il cartello, tanto la fece irritare quel commento, ma l’altra si scostò prima, battendola in agilità.

Odiava sembrare condiscendente verso le azioni delle reclute del Neo Team Plasma, di temporeggiare non le andava proprio. Delle vuote minacce e un brutto vocabolario non sarebbero mai bastati a domare delle scapigliate come loro, si disse Iris. E ciò le sembrò un segno, sotto sotto.

Mentre le altre tre cercarono di calmare sul nascere quella becera lite, si fece risentire la stessa.

«Vedete di muovervi, o l’intera regione di Unima saprà che non siete solo delle criminali insalvabili, ma che avete pure la faccia da cozze.»

Senza troppo spavento, più mosse dall’imbarazzo di essere riprese da una palla al piede di tale calibro, si rimisero in posizione, facendo la stessa faccia che ognuna di loro aveva usato per la carta d’identità, il passaporto e l’ID Allenatore, col viso vuoto e gli occhi dilatati.

Si spensero le luci e partì un flash fortissimo per due o tre volte, illuminando la stanza d’un folgore insopportabile.

Quando l’illuminazione tornò normale e sembrava tutto finito, la recluta sbottò, premendo il pulsante che azionava l’altoparlante con il pugno, rivolgendo lo sguardo a destra.

«Ma la deficiente che ha chiuso gli occhi!? – Respirò rumorosamente sul microfono, straziata - Ma è possibile che celebrolese del genere fossero candidate alla carica di Campione, fra tutto il resto?!»

«Soffro di epilessia. – Confessò la ragazza, piuttosto urtata da quell’appellativo sgradevole – Le luci intermittenti possono causarmi una reazione.»

«Ma ti prego, un conto è essere matte, – si riferiva anche a Camilla, per quello usò il plurale – un conto è essere bionde dentro…»

«Rifai la foto senza flash, per favore. – La interruppe quella, sapendo che dall’esterno si sentisse ciò che dicevano – Non abbiamo intenzione di ostacolarvi. Cercate di capire.»

La ragione per cui la leader volesse ragionare con quelle canaglie fu ignota a tutte. Probabilmente la donna aveva affrontato la situazione con la maggiore maturità, visto che la recluta subito comprese e riprovò, stavolta esaudendo la loro richiesta.

Dopo un attimo di attesa coi nervi a fior di pelle, la sentirono ripetere.

«Nelle foto segnaletiche vi si devono vedere gli occhi, diamine! Potete evitare di tenerli strizzati e spalancarli!? – Poi, in tono più sommesso, aggiunse – S-Sapete che non ci pagano per questo? Noi tutte volevamo uscire questa sera, e invece siamo qui… a fotografare delle imbecilli dalla faccia schiacciata.»

«Ma questa è la mia faccia normale, io non avevo gli occhi chiusi.»

E prima di fare la foto finale, dove ancora certi particolari non si ritenevano adatti ai requisiti ufficiali per una segnalazione adeguata, Anemone, mossa da curiosità si mise a tirare con gli indici le palpebre della giovane di Sinnoh per vedere, senza nessuna cattiva intenzione, quanto effettivamente fossero poco esposti i bulbi oculari degli abitanti delle quattro regioni dall’altro capo del mondo, non che volesse giustificare gli attacchi insensati di quell’antipatica mocciosa dalla pelle butterata.

Da quell’esperienza, le ragazze impararono che, potendo pure recalcitrare ed ostruire l’articolato piano dell’organizzazione degli Harmonia, alla fine, volenti o nolenti si dimostrassero, al punto di arrivo sarebbero comunque giunte, con le mani legate dietro la schiena e gli occhi coperti, per non memorizzare il percorso in cui altre reclute ancora le stavano indirizzando, verso il loro destino incerto e nefasto.

Il loro calvario, in cui il loro spirito sagace sarebbe stato smussato dai flutti insistenti di persone grette e vili, cominciava proprio una volta finiti i preparativi.

 

Strano che nelle prigioni vere non ci fossero le sbarre sulla parete o le grate alle finestre. Una volta rimosse le bende, si sentì il forte tonfo di una porta chiusa ed una sequenza di chiavistelli incastrarsi con un clangore inquietante, come se si stessero mettendo d’accordo in un codice segreto di non lasciare alcuna via di fuga.

Ironicamente, come se davvero questa storia avesse preso in considerazione protagoniste così riflessive e assennate, le nuove arrivate si misero a sedere: avevano a disposizione due letti a castello soltanto, spesso le istituzioni nutrono una certa scaramanzia verso i numeri dispari.

Si trattava di una cella abbastanza angusta da non permettere a più di una persona alla volta di stare in piedi e attraversarla, non che si potessero fare più di tre passi prima di imbattersi in uno dei muri in cemento armato, il cui intonaco si sbriciolava e trasformava in una polvere fitta; ricordava loro il locale dismesso che in teoria sarebbe dovuto diventare la loro sauna personale e invece non avrebbero mai più rivisto, con tutta probabilità.

Di sicuro gli altri carcerati, gli assassini, gli stupratori, gli spacciatori e i truffatori della regione di Unima se la stavano passando meglio di loro al momento. Neppure le resistenze della lampada a tungsteno erano salve da un fastidioso contatto, breve quanto un battito di ciglia, almeno due-tre volte al minuto.

«Iris.» La punse nell’orecchio una voce melliflua, che la fece tornare in sé.

La ragazzina si appoggiò alla testiera del letto, sentendo un deflusso di sangue dalle mani e dai piedi. L’ansia s’era impadronita di lei e ora avrebbe dovuto convivere con quel demone in meno di dieci metri quadrati di spazio.

«Cosa?» Al suo voltarsi si udì la suola delle ciabatte in plastica sulla ghiaia residua del pavimento non piastrellato.

«Anche se cammini avanti e indietro per oltre quindici minuti, non cambia niente. Mi faceva solo piacere ricordartelo, sai, che non ti facciano male le ginocchia.»

Già la battuta di prima le aveva dato su i nervi, se Camelia non avesse avuto ragione in quel momento le avrebbe intimato di levarsi quel sorriso dalla faccia e smetterla di essere sarcastica, anche se dubitava un qualsiasi esito positivo.

Al celebre monito di “conosci te stesso”, Iris era sempre stata preparata sull’argomento. Conosceva le proprie paure e sapeva quali situazioni o persone le innescassero, tantoché a volte le pareva di conoscere solo se stessa, incapace di processare altro che andasse oltre i confini del suo solipsismo.

E di sicuro, ad una giovane abituata agli ampi spazi verdi della sua città, le strade larghe ed il cielo infinito sopra la testa, il semplice concetto di quei muri spessi, che le sembravano avvicinarsi e restringere la stanza ad ogni occhiata gli lanciasse, non la aggradava affatto.

Infatti si stava trattenendo il lamentare la propria claustrofobia in rispetto delle compagne: era ovvio che se quattro pareti la spaventavano così tanto, la sua paura non sarebbe stata altro che una zavorra all’avvento di ciò che stava ad aspettarle.

Invece di mettersi comoda in uno dei letti inferiori, si accovacciò scivolando verso il basso, parallela alla testiera.

«Non capisco, noi non stavamo vincendo? Avevamo anche festeggiato in anticipo…» Disse, sconfortata.

«Io non sono chissà che mente malvagia, – Anemone muoveva il polso da dietro la spalla della sua compagna per provare il proprio punto – ma se dopo aver chiesto alle future Campionesse di ritirarsi dal TRUF quelle mi tirassero bidone, io mi arrabbierei non poco.»

Non voleva dare torto alla rossa, fra tutti quanti, ma l’idea che il cervello del Team se la fosse legata al dito in quella maniera, pianificando una tale vendetta come una fidanzata gelosa, ad Iris suonava assurda.

«Cosa dovevamo fare, arrenderci?! – E sottovoce, visto che non sopportava una tale colpa su di sé – C-Comunque era Camilla che parlava, io sono stata zitta… u-un terzo del tempo, circa.»

La sua tirata patriottica, se ne ricordava alcuni spezzoni, era altro tasto dolente su cui voleva sorvolare.

«Vuoi dirmi che siamo finite in prigione, - la mora alzò un sopracciglio – perché le due reclute hanno fatto la spia? Ma se non sapevano neanche i nostri nomi, a parte il fatto che loro si chiamano come gli Unown…»

Prima che la più piccola del gruppo si permettesse ancora di accusarle ingiustamente, si intromise la sub-leader, che si era già appropriata del letto in basso a destra, giocandosi la sua carta della mobilità ridotta.

«Non potevamo mica massacrarle, ci hanno incastrate. Non volevano i soldi, quindi…»

«Se lo avessimo fatto, dite che ci avrebbero iniettato il cocktail il veleno degli Scolipede o saremmo finite sulla sedia elettrica, con i Tynamo attaccati alle caviglie… Ah, no, hanno capito che costringerci a stare in cinque, insieme ventiquattro ore su ventiquattro in un buco avrebbe funzionato di più.»

Per quanto potesse suonare barbarico, a differenza delle altre regioni, ad Unima si usava ancora la pena di morte. Era usanza di anni e anni orsono, in cui crimini compiuti venivano puniti e quelli potenziali scoraggiati con l’esempio pubblico più efficace.

Tale verdetto risaliva alla stessa era in cui dall’estero erano giunte ad Unima anche le armi da fuoco. Ma mentre quelle si abolirono sotto pressione dei protestatori pacifisti, la pena capitale era entrata nella coscienza collettiva come misura unica contro i peggiori misfatti.

All’alba dell’ultimo secolo tuttavia, almeno per alleggerire il supposito peso morale dai cuori di chi non poteva davvero prescindere dalle conseguenze, non si coinvolgevano più i Pokémon nelle torture e nelle esecuzioni.

Se i film cult non ne avessero ricavato un mito, Camelia non avrebbe nemmeno citato tale riferimento.

«Anche no, gli costa di meno tenerci segregate qui finché non scade il mandato di Nardo. Fine della storia. – La biondina di Sinnoh provò a distendersi sul brullo materasso che era stato lasciato loro e si rialzò subito con un riflesso atipico per lei, prima tastando, poi battendovi il pugno sopra – Che letti scomodi… Ho sonno, voglio andare a casa, uff…»

Per quanto Catlina fosse cresciuta nella bambagia e le sue aspettative in fatto di comfort risultassero eccessivamente alte, nessuna le diede contro: erano state viziate così tanto nell’ultimo mese che per “casa” il loro pensiero non volò mica alle loro, nelle loro città natale.

«Cosa succederebbe – la mora si alzò in piedi, di scatto, con un impeto del tutto estraneo alla sua personalità – se decidessi di ammazzarmi qui ed ora, in un gesto di estremo vittism… intendevo, patriottismo?»

«Dirò a tutti che eri la mia modella preferita.» Anemone si toccò il cuore, sincera nelle sue condoglianze proprio come la sua fidanzata quando, come al solito, non lo era mai.  

«Non ditele neanche per scherzo cose del genere, abbiamo sfiorato l’altro mondo circa… - Catlina fece i suoi calcoli nella lingua della sua regione, perché le risultava più conveniente – quattro o cinque volte in tutto giugno e metà luglio. Forse per me arrivano anche oltre il dieci…»

A quel punto, l’aria già soffocante della cella si era riempita di quelle voci disincantate, di quell’ironia così realistica e tagliente, che la più giovane del gruppo desiderò liquefarsi e scivolare via da sotto gli anfratti sulla porta, visto che i piedi non potevano condurla da nessuna parte.

«Non è giusto, non è assolutamente giusto…» Sussurrò, non volendosi far sentire.

La ruota del karma, il principio del bene ripagato e del male castigato, quell’ideale di giustizia di cui le avevano farcito la mente sin dalla tenera età, era rimasta incastrata ormai da un pezzo: nemmeno la polizia le aveva ringraziate per aver cacciato le reclute dal Centro Pokémon.

Si strinse le ginocchia al petto e vi appoggiò la testa, sentendo il flusso della massa di capelli ricadere in avanti. Le pareva come se la testa le stesse per esplodere.

Le sue compagne avevano ragione, non era la prima volta che finivano con l’acqua alla gola.

Ma cosa potevano fare in quel momento, senza i loro Pokémon, senza potersi consultare con qualcuno di più saggio, senza neppure lo spazio vitale per organizzare il contrattacco?

Calò un po’ di silenzio, quasi quasi ad alcune venne voglia di andare a dormire, era tardissimo e chissà cosa riservava loro il domani (e dire che in precedenza il coprifuoco delle dieci e mezza gli era stato così tanto in odio!).

«Ohi, spegnete la luce. – esortò la Capopalestra, indicando pigramente l’interruttore sulla sinistra in basso esattamente alla portata di quella che fra loro era rimasta più silenziosa finora – Camilla, dai, per favore, spegni ‘sta luce.»

Nonostante l’udibile nota di irritazione, la leader rimase un secondo titubante, concentrata su qualcosa.

Eseguì comunque la richiesta, perché le era venuta un’idea e non l’aveva condivisa pur di non sforzare psicologicamente le sue care apprendiste ancora in stato di shock.

Nel buio, alzando gli occhi che la recluta delle foto tanto le aveva criticato, aveva notato un particolare che purtroppo sembrava esser sfuggito alle restanti.

«Ragazze, – aveva un tono calmo, sapeva il significato di quello che stava per chiedere – al mio tre mettetevi tutte a gridare più forte che potete, okay?»

«Eh… no?»

Iris si sarebbe pentita di essersi rivolta ad una più grande di lei in maniera tanto irrispettosa un giorno, ne era sicura, ma quel giorno non era altrettanto sicuramente quel dì o quella notte stessa.

Sebbene non fosse molto sensato mandarle troppe occhiatacce al momento e vista la voglia di scherzare che là dentro veniva e se ne andava nel giro di pochi minuti, le quattro non si sprecarono troppo nel controbattere.

“Per favore, non c’è tempo…”, “Tu sei pazza” detto con tono derogatorio, “Ma anche no” e altro ancora inondavano di uno sgradevole brusio l’aria, con aggiunta di qualche sbadiglio e imprecazione mormorata fra i denti.

Come se a Camilla importasse, partendo dall’indice iniziò a contare e le altre prestarono ascolto, un riflesso automatico ricavato dai loro allenamenti.

«Uno…»

«Spero che adesso ci trasferiscano in un ospedale psichiatrico, perché io ne avrei bisogno.»

«Non c’è proprio nulla da fare, huh?»

«E anche oggi si dorme domani…»

Alzò anche l’anulare, sempre con lo sguardo fisso in alto.

«Due… - e la Campionessa di Sinnoh non esitò oltre, visto che necessitava della conferma per le sue supposizioni al più presto possibile – tre!»

All’unisono, suoni acuti come il graffio con le unghie sulla superficie di una lavagna si levarono e ogni atomo presente nello spazio gassoso fu riempito di quell’energia fonica, vibrando con le voci femminili, simili al pianto di spiriti irrequieti, perfino i legittimi fantasmi dei morti che infestavano quella prigione si sarebbero spaventati, qualora non si trattasse solo di leggende metropolitane.

Dopo aver trattenuto la lettera “a” sull’orlo della gola per circa mezzo minuto, una dopo l’altra smisero e subito si pentirono di aver sperperato fiato per una cosa così futile.

Immaginarono che la più anziana si fosse inventata quella specie di terapia per tranquillizzarle, pensando al loro bene psico-fisiologico. Non solo tristezza, soprattutto rabbia si era annidata nei cuori delle Allenatrici e senza intervenire subito le avrebbe rose dall’interno, come roccia pregna d’acqua.

In effetti, almeno Iris, ammise che per lei aveva funzionato. Certo, le facevano un po’ male i polmoni, ma nulla che le peggiori litigate con le sue amiche o il tifo durante una lotta molto accesa non avessero già messo alla prova. Si considerò fortunata che esistessero persone come Camilla durante tempi del genere.

Tuttavia, il genio della giovane donna non si era limitato solo ad un’utilità di tipo astratto.

Quella sorrise soddisfatta delle sue deduzioni. Anzi, ne trasse un vero e proprio sollievo.

«Per fortuna. Le telecamere non sono solo senza l’audio, ma non hanno neanche implementata la visione notturna.»

Dopo quella rivelazione, le quattro si pentirono della loro impulsività ed imprudenza: perlomeno adesso avevano la sicurezza di potersi parlare e confidarsi senza che quelle vipere andassero a ficcanasare come avevano fatto fino ad ora.

La loro teoria era comprensibile: avevano accumulato una quantità sufficiente di informazioni su di loro da considerarle dei libri aperti e dopo averle imprigionate non avevano più il bisogno di snocciolare ulteriormente ognuna delle loro singole conversazioni per completare tabelle di dati personali da consegnare al loro capo. O forse…

«Dobbiamo avergli fatto venire un esaurimento nervoso a quelle povere anime, immaginate ascoltare noi che parliamo dei nostri patemi d’animo, di battutacce, tette e sesso per un mese e mezzo.»

Dopo questa constatazione indubbiamente della mora ed un’ansia in meno, le cinque pensarono fosse alla fine giunta l’ora di mettersi a letto, se proprio non riuscivano ad addormentarsi dovevano accontentarsi di parlare sottovoce.

Ma fu con la luce spenta e l’oscurità che si manifestò il vero e proprio inizio del test alla loro capacità di sopravvivenza.

La famigerata telecamera si spostò verso il centro del soffitto, azionata da qualche meccanismo automatico collegato al circuito della corrente: infatti solo con lo scuro si poteva vedere il fascio di luce quadrato puntato contro il muro brullo al termine della cella; faceva anche da proiettore, in sostanza.

Aprirono d’improvviso gli occhi, sorprese. Scendendo dal letto, si piantarono tutte quante davanti allo schermo, impaurite più che curiose di sapere cosa sarebbe successo.

Non vi erano pulsanti d’accensione o spegnimento. Qualsiasi immagine o video sarebbe apparso se li sarebbero dovuti sopire tutti, sacrificando ulteriori ore di sonno preziose. Sedute tutte a gambe incrociate sul pavimento lercio, come da bambine a scuola, con i nervi a fior di pelle. E dalle casse, all’improvviso partì.

«Buonasera, care ragazze. Ci avete fatto aspettare un po’, ma alla fine siete arrivate.»

In qualità decisamente sgranata, il volto purtroppo familiare di una delle loro più recenti conoscenze all’interno del Team Plasma parlava perso nello sguardo ad una webcam interna, la fronte appariva più alta e l’ombra degli occhiali si rifletteva sul volto pallido, su quel sorriso maligno.

«Non ci credo, è il tizio che abbiamo quasi preso sotto, voleva costringere me e Camilla a ritirarci e continuava a chiamarmi “tesoro” … - Iris si protese in avanti a carponi, riconoscendolo, mentre le altre avevano sussultato nello stesso istante, per poco Catlina non era svenuta – come si chiamava? Acromio?»

«M dispiace di non essere potuti giungere ad un accordo che accomodasse entrambe le parti. Ci sono state delle interferenze, qualche fraintendimento che non poteva essere affatto ignorato…»

Continuò, scandendo quelle parole in modo tanto accondiscendente, sembrava sottovalutare di molto l’intelligenza delle sue interlocutrici. Non che avessero comunque la possibilità di ribattere qualcosa, da parte loro.

«Siamo. In. Prigione. Per. Nulla. – Iris batté le mani ad ogni parola, come se desse una maggiore validità al suo discorso – Sicuri che non siate voi a star violando qualche diritto umano?»

«Tanto non ci sente… non ha neanche senso provare.» La riprese la compagna più grande, tornata più o meno in sé.

«Ma non preoccupatevi! – Esclamò, facendo un giro completo dalla sua poltrona girevole, quella su cui per qualche ragione possiedono tutti i cattivi dei fumetti – La procedura penale di Unima prevede che prima di imputare a qualcuno una condanna è necessario un processo giusto ed equo.

E per non incappare ancora in quella prassi macchinosa delle volte precedenti, già da domani mattina cominceremo le sedute giudiziarie, una ad una, una dopo l’altra. Il tempo è denaro, ed il denaro in questo caso è la vostra assoluzione.»

Il programma del giorno dopo non suonava per nulla allettante. A quel punto marcire nella cella afosa per altre tre o quattro settimane, per tornare poi alle loro vite normali andava anche bene.

«Non me ne frega niente se non ci può vedere o sentire, quando gli metto le mani addosso e glielo stacco dalla testa, quel ciuffo, allora sì che possono processarmi!» Anemone glielo gridò e si sentì il rimbombo.

Senza preavviso, la rossa ebbe uno scatto d’ira (per quanto ormai le altre quattro si fossero abituate a tali comportamenti, rappresentavano comunque un pericolo in uno spazio così stretto), si alzò in piedi, si tolse una delle scarpe dalla suola scollata e la lanciò contro il muro con la potenza e la precisione di una catapulta medievale; Acromio se la beccò proprio sul naso, mentre andava avanti a parlare indisturbato.

«Scusatemi, suppongo.»

«…No, tranquilla, no scuse.» La rassicurò la leader.

Ma da quel raptus violento nacque altro. Altre calzature seguirono, vari oggetti per l’igiene volavano sulla fronte, contro il mento e la bocca del rappresentante del partito, il peggio comunque furono alcuni bicchieri che si frantumarono in cocci destinati a rimanere a terra come una trappola di Fielepunte, sul muro i calchi dei proiettili occasionali.

Tante cose avrebbero voluto dire, i suoni rimasero appesi alle labbra: quella detenzione già le stava imbarbarendo; il Professore non aveva ancora finito. 

«Vi consiglio vivamente di pensare già adesso al vostro alibi. – L’uomo emise una risatina effemminata, a dir poco irritante – Non fate le facce da cuccioli indifesi, suvvia! Se siete abbastanza grandi per concorrere al titolo di Campione, potete benissimo affrontare la vostra causa senza che vi venga fornito alcun avvocato.

Sono tutti soldi risparmiati per la campagna autunnale del Team Plasma, dopotutto.»

Fu un duro smacco da recepire. Era dai tempi dei Greci che l’organizzazione della difesa non veniva affidata al cittadino stesso, ed in molti casi perfino gli stessi accusati all’agorà finivano per sobbarcare il lavoro dell’orazione ad un logografo. Invece né Lisia, né Cicerone né Demostene potevano venire a salvarle con le loro formulette retoriche e i loro “oh, giudici!”.

«Detto questo, ci vediamo domani in tribunale. – Congiunse le mani, ancora non capivano se si trattasse di un messaggio dal vivo o pre-registrato - Dormite bene, domani sarà una giornata leggermente impegnativa.»

Prima di scollegarsi dalla linea tuttavia, il professor Acromio ricomparve sulla parete a lasciar loro un ultimo messaggio.

«A proposito, una comunicazione di servizio: questi giorni si prospettano come i più caldi di tutta la stagione estiva di quest’anno. Queste carceri tuttavia sono piuttosto antiquate e mi duole avvisarvi del fatto che l’aria condizionata non funzioni. Bevete molta acqua e fate delle belle docce fredde ogni quando ne avrete l’occasione.»

In seguito a tale consiglio paternalistico, Acromio si dileguò e la schermata tornò blu, apparve la scritta “no segnale”.

L’ora dello spettacolo era terminata. Da quel momento in poi erano al centro per cento sole, ma non avevano neanche le forze di sollevare dal pavimento le proprie ossa.

Dopo un silenzio che parve interminabile, la sub-leader si morse il labbro, ponendo a tutte la fatidica domanda.

«Allora, domani chi va?»

Tutte contorsero la faccia in un’espressione addolorata, la più giovane emise un debole mugolio di insofferenza.

«Io non ce la faccio, mi dispiace. – la pilota, al massimo sincera, scusandosi con tutto il cuore – Ho bisogno di prepararmi a memoria quello che devo dire, non so improvvisare un discorso e ho paura di parlare in pubblico. Se cominciamo male, possono farci di tutto…»

«E come facciamo a sapere che non sia tutto già deciso e il risultato non sarà truccato? Io non so neanche perché ci abbiamo arrestato al principio.»

Iris non riusciva a guardare in faccia nessuna. Dopo quel sensato ragionamento e rivelate le sue fallimentari abilità persuasive alla riunione di Austropoli, non era di certo lei la migliore candidata per dimostrare che le cinque sospettate di non si sa che reati in realtà erano obbedienti, rispettose ragazzine educate.

Forse Camilla era la scelta giusta, ma proporre sempre lei come cavia da laboratorio e giocarsi subito il loro jolly non sembrava comunque una buona strategia.

«Beh… - commentò quella – credo ci toccherà andare a sorteggio. Mi sembra l’unica soluzione…»

Ci fu un altro colpo di scena che nessuna si aspettò, ad eccezione di colei che si era fatta stuzzicare sin da subito dall’idea, ma aveva aspettato di sorprendere tutte spingendole agli sgoccioli. La ragazza appariva abbastanza rilassata, mossa a far cessare quelle paranoie idiote sul loro destino, abbastanza determinata da volersi impegnare a far chiudere il caso e mostrare alle compagne spaesate l’arte di vincere un dibattito con la propria intelligenza.

Quasi la stessa ragione che aveva spinto Camelia a prendere parte alla competizione a inizio estate.

«Ah, bisogna spiegarvi sempre tutto, arrivarci da sole? Mai, eh… com’è che si diceva? “Mi offro volontaria come tributo”? O qualcosa del genere.»

La modella provò a ricordarsi la posizione delle mani associata a quella frase, ma le venne in mente solo qualcosa relativo all’alzare il dito medio, quindi s’arrese. Ci stava godendo nell’appropriarsi delle bocche spalancate delle compagne, ovviamente.

«Dai, cosa volete che sia? Ci sono molestatori, evasori fiscali e produttori che fanno stipulare ad alcune mie colleghe contratti da schiavisti e tutta questa gente è in circolazione senza problemi. Che volete ci facciano?»

«Camelia, sei sicura? – Camilla le venne incontro poggiandole le mani sulle spalle, mossa da genuina preoccupazione – Sappi che nessuna di noi potrà sostituirti all’ultimo. E che qualsiasi cosa tu dica o faccia potrebbe esserti ritorta contro.»

La diciassettenne le afferrò i polsi e scostò da sé quella presa troppo intima. Le sorrise come faceva sempre, provando perlomeno a rasserenarla almeno sul fatto di meritarsi per una volta la fiducia delle sue compagne.

«Lasciate fare a me stavolta. Dobbiamo soltanto negare tutto ciò di cui ci accuseranno, è fin troppo facile. Mi stanno letteralmente chiedendo di venire umiliati davanti a mezza regione!»

Con quell’affermazione, riuscì ad attenuare un po’ dell’avvilimento di prima, mentre le quattro si guardavano reciprocamente, dicendosi “beh, in effetti…”. Esattamente quello che voleva.

La modella si alzò in piedi, rivolgendosi al suo uditorio, che ancora la ammirava dal pavimento.

«Visto? Io so come funzionano queste cose. - Indicando Iris, Anemone e Catlina, gli sorrise impietosita, ricambiando con una freddura il loro supporto – Con questo vostro atteggiamento da perdenti non andrete da nessuna parte nella vita, mi dispiace.»

Senza replicare nulla visto il grande favore che il cuore frigido della Capopalestra stava facendo per salvarle dalle fauci del leone, una nuova atmosfera speranzosa si sostituì all’ansia e riempì il loro angusto spazio vitale per tutta la durata del loro riposo, con una certa anticipazione per il mattino seguente.

In particolare, la mora si addormentò accanto alla sua fidanzata, eccitata come se si trattasse del giorno prima di un grande evento, in cui tutti i riflettori erano puntati su di lei.

«Cioè, dovrei essere io la leader di questo gruppo. Sono troppo brava in queste cose… Camilla, ti voglio bene, ma io sono meglio di te, scusa cara Campionessa.»

 

Per distrarsi dal torpore ai deltoidi che le infliggeva il camminare con le braccia ritte ammanettata dietro la schiena, non potendo guardarsi intorno, Iris si mise ancora a ragionare sulla scelta del proprio partito, come se una lotta importante fosse imminente ed ancora non sapesse chi mandare in campo per primo.

Camelia era davvero la persona giusta a cui far aprire quelle danze infernali?

Quella stessa esitazione le fece venire in mente una cosa non trascurabile: per quanto la modella di tre anni più vecchia di lei la maltrattasse, prendesse in giro, trattandola come uno zerbino e a questo punto nessuno potrebbe negarlo, era la piccola aspirante Allenatrice ad avere sempre pregiudizi e basse aspettative nei suoi confronti.

Ripensò al loro incontro alla Lega, a come le avesse dato della poco di buono soltanto perché si stava risistemando il mascara (o altro, la sua memoria ormai si stava offuscando) ed aveva un top che le scopriva la pancia.

E dopo quella le aveva strillato contro, l’aveva sminuita davanti a tutte, ma l’orgoglio urtato di Iris non faceva fronte alla perversa confermazione delle sue infantili congetture.

Ora che si avvicinavano passo per passo al tribunale invece, avrebbe preferito non partire così prevenuta nei suoi confronti. Era come se il suo inconscio ispirasse energia negativa che poi si tramutava in brutte reazioni.

Era come se il bullismo di cui Iris si dichiarava vittima dal secondo in cui aveva incontrato quegli occhi azzurri e appassionati in realtà fosse partito da lei stessa, non da Camelia. Non essendo troppo cieca sui propri vizi da ignorarlo, alla ragazzina dispiacque tantissimo.

«Fate entrare le imputate.»

Udì da fuori, già impietrita dal fatto che non si stessero scomodando neppure di imparare i loro nomi od il codice a sei numeri cucito sulle loro uniformi sgualcite.

Sentì che la calura umana emessa dalle reclute tanto vicine a lei si era dispersa, un profumo di legno vecchio la indusse a sollevare le palpebre ancor prima che la benda nera le venisse tolta. Si scoprì aggruppata con le quattro sue compagne, mentre la Capopalestra di Sciroccopoli era a qualche metro più in là, era da quando avevano messo piede fuori dalla cella che non gli era più stata data la possibilità di scambiarsi una parola.

D’improvviso, una spinta di forza non modulata in maniera proporzionale ad una corporatura così esile la fece sobbalzare, fu di nuovo intrappolata nella stretta delle sorveglianti, le quali con foga condussero a sedere lei, Anemone, Camilla e Catlina, pestandogli i piedi ogni qualvolta rallentavano verso i loro posti in prima fila, sull’ala destra della sala.

«Sono giovanissime. Andranno per i sedici, i diciotto? O forse…» Uscì una voce dalla folla, loro non lo sentirono.

Tutto quel venire sballottata a zonzo sortì l’effetto di ammansire ogni impulso di rifuggire quel contatto forzato, nessuna delle quattro rifiutò di mettersi comoda pur di venire lasciata in pace.

Quando per sbaglio alla biondina aristocratica fu letteralmente staccato un capello impigliato su un anello troppo fastoso con un lamento a fatica contenuto, le venne l’orripilazione.

«Chissà perché, ho la sensazione di averle già viste… ah, giusto. Mio figlio ha un poster della ragazza coi capelli neri in camera! Mi dovrei preoccupare?» Fece un signore dalla giacca con i gemelli.

Sembrava di stare in chiesa. Tutti i presenti lì vestivano eleganti, mentre a loro era stato dato a malapena un quarto d’ora per rassettarsi le loro zazzere nodose e lavarsi i denti.

Inoltre avevano bevuto solo un po’ d’acqua, ma aveva un retrogusto strano; si potrebbe litigare fino alla fine dei tempi se l’acqua abbia un sapore o no, ma non sapeva di quella bottiglia e nemmeno come quella del lavandino, era poco dissetante…

«Ho sentito dire che sono delle tipe che... Ci vuole un bravo psichiatra per raddrizzarle, magari.» Una signorina si sistemò sulla sedia in legno, dondolando.

«Sì, la rossa mi dà abbastanza l’idea di una che da piccola picchiava i più piccoli per divertimento. – Concordò il coniuge, lieto di essere stato invitato a far presenza all’evento cult dell’anno in fatto di politica interna – Ma la più alta, con il ciuffo lungo, a me fa più paura lei fra tutte.»

Tutti i magistrati le guardavano. Ma soltanto nel momento in cui erano sicuri di poter immediatamente rifuggire gli sguardi delle ragazze. Al circo, nessuno guarda negli occhi il fachiro sul punto di ingoiare la spada affilata o il contorsionista a testa in giù.

Qualcuno doveva aspettarsi che le ragazze facessero qualcosa di clamoroso, dato che i più temuti fuorilegge alla fine si erano sempre dimostrati grandi intrattenitori una volta giunti in aula, aumentando la soddisfazione per averli catturati ed averli portati sotto l’imponente bilancia dorata.

Tuttavia, l’attenzione che la probabile condannata attirava su di sé era ineguagliabile: come poteva la pelle rimanere pulita e uniforme anche dopo aver dormito su cuscini luridi ed avere le labbra ancora rosse, gli occhi spalancati pieni della luce naturale che ricadeva su di lei dalle finestre, riuscendo a sembrare un poco preoccupata e contenta insieme.

Era come la volta degli assistenti sociali che volevano portarsi via Anemone, pensò la ragazzina. Non riusciva nemmeno se ci provava a fare il tifo per la sua compagna, non aveva l’aria della paladina della giustizia o della salvatrice di loro che erano innocenti.

«Ti prego Camelia, non rovinare tutto.»

Incrociò le dita, prima che le afferrassero il polso e finalmente qualcuna delle sfortunate Allenatrici tornò a far parlare l’intero gruppo.

«Davvero è necessità vitale ammanettarci alle sedie?»

Camilla era quasi impietosita dalla briga che le reclute si prendevano dal giorno prima per far sì di privarle ogni singola volta di ogni singola libertà, per esempio il grande privilegio di potersi grattare un attimo il naso.

«Certo. – Le rispose l’altra, con sicurezza – Potreste scappare o fare qualsiasi altra idiozia se non vi teniamo legate.»

«Tenerci legate non ci dovrebbe far venire ancora più voglia di fuggire, in teoria?»

Nonostante la leader fosse stata piuttosto gentile nel suo tono, la recluta si riempì d’antipatia e tagliò corto.

«Risparmiati la filosofia spiccia per il tuo processo, neh.» E si allontanò.

Tamburellando sulla gamba del seggio laccato, la mora manifestava la paradossale voglia di salire su quel carosello diabolico, aspettare ancora di iniziare il processo stava mettendo tutti di cattivo umore.

E quel dì servivano giurati benevoli, dei veri e propri maestri d’empatia, perché perfino il cigolio di una porta o un banco strascinato sul parquet causavano numerosi e sonori mugugni spazientiti, le formalità ammattivano lo spirito già poco combattivo delle parti in difesa.

Le cinque reagirono in modo curioso quando una serie di colpetti ovattati fece soffiare gli altoparlanti, si guardarono attorno stordite, come se perturbazioni invisibili le stessero schiaffeggiando.

Il pubblico si rilassò. Il microfono da cravatta intavolò una vibrante entrata in scena. 

«Signore e signori della corte, grazie per aver aspettato fino a questo momento! Dichiaro la seduta aperta!»

Il Professor Acromio si introdusse reggendo il proprio tablet con la copertura a tendina, incurante del dress-code nel suo camice immacolato, incantando tutti quale il presentatore di uno show televisivo. Assolutamente conscio di non pertenere affatto alla cerchia di nemici canonici contro cui il vecchio establishment si era accanito, non ci provava neanche a ghignare in modo losco o a far la voce grossa.

In quel momento indossava gli abiti del segretario di partito, dell’uomo eclettico e raffinato, dal background misterioso che affascina sempre gli studiosi di storia politica. I lineamenti efebei ed il fisico gracile si guadagnarono subito la simpatia di quasi tutti.

«Mi chiamo Acromio, sono un professore Pokémon. – Fece la sua solita tiritera, aveva caro di imprimere il proprio nome nella memoria di chiunque incontrasse - Per oggi ed i giorni a venire sarò io il giudice di questa singolare causa. Confido nella vostra collaborazione.»

Si piazzò davanti alla platea, squadrando la sala dall’alto al basso, confidenza nell’avere in mano sua l’intera situazione. Non poteva negarlo, tutto quel potere lo aveva insuperbito un pochettino.

E per quanto ciò gonfiasse quell’intellettuale schizzato come un palloncino pieno di elio e la testa gli fluttuasse nell’iperuranio dei fanfaroni, le sue poche disistimatrici si dovettero cucire di malavoglia le labbra. 

Soprattutto quella fra loro la cui lingua poteva decidere la differenza fra salvazione e condanna.

A sorpresa di chi ben la conosceva (o anche di chi a malapena sapeva di lei, visto che ormai non si stupiva più che tale ignoranza sopravvivesse alla sua fama), quando costui stette di fronte al primo banco per vederla per la prima volta, l’imputata fece un profondo inchino con il capo.

«Eccola qui, dunque, l’imputata di oggi. – Acromio aprì sullo schermo quella pagina di dati sensibili su di lei, ricavati dalle sue scrutinanti – Lei è Camelia Taylor? Piacere di conoscerla, anche se in circostanze un po’…»

La ragazza ricambiò lo sguardo, dimostrandosi pacata e disposta. Aveva ammorbidito i muscoli facciali per riuscire a trasudare un’innocenza forzata che spesso fantasticava di sfoggiare anche davanti agli estranei e di cui finora l’unica testimone era stata la sua fidanzata.

«Piacere è mio. Può anche darmi del “tu”, se vuole, io ho diciassette anni, tanto.»

«L’importante è cominciare con il piede giusto, vero, Camelia? – Acromio le saltellò accanto, energico come un venditore di dolciumi – Che peccato non averti incontrato prima, mi sembri molto più cortese delle tue due amiche della volta scorsa.»

«Oh, davvero? Grazie.» Civettò, sbattendo un paio di volte le lunghe ciglia dorate.

«No, davvero? Scherziamo?»

Era già stato stabilito che fermare i monologhi interiori della Capopalestra era impossibile: persistevano alle discussioni, alle sgridate, ai pianti e perfino ai momenti di estrema tensione.

Quasi la divertiva, la frecciatina del professore lanciata alla leader e all’Allenatrice non qualificata.

Ci credeva che le due disadattate non fossero riuscite a contrattare con gli alti capi della società come lei, ma solo perché quelli avevano preso sotto tiro una bambinona ed una selvaggia, non ci voleva un genio.

A darle veramente di che sospettare fu che lui l’avesse seriamente scambiata per una persona che non era lei ed in teoria, se il fato si fosse rivolto a suo favore, l’uomo avrebbe continuato ad interrogare una Camelia feticcia; era come se avesse usato la mossa Sostituto, nessun colpo le avrebbe lasciato un graffio finché si atteggiava così.

In teoria. Il costo della sua finzione era comunque una bella fetta della sua dignità.

Si sentì in imbarazzo immaginando cosa stessero pensando di lei le sue compagne vedendola da lì.

Per ogni favore che faceva loro, in qualche modo incappava presto o tardi nella loro antipatia.

Ma non le importava più di tanto.

«Prima di cominciare, dobbiamo fare il giuramento dei testimoni. – Cambiando interfaccia sul tablet, il giudice lesse – “consapevole della responsabilità che con il giuramento assumete davanti ad Arceus, se credente, e agli uomini, giurate di dire…”»

«…dire la verità e null'altro che la verità? – Lo completò, con la mano destra appoggiata sul petto e la sinistra alta, rivolta verso l’esterno – Sì, sì, lo giuro.»

La formalità appena recitata, oltre ad impilarsi alle altre scartoffie tratte dal repertorio di un’artificiosa banalità, s’accattivò un briciolo dell’ottimismo dell’insolitamente disincantata Anemone. Fece cenni d’approvazione con la testa che sembravano fuori luogo. Ma lei si sentiva rassicurata da quelle parole.

Come la mora aveva predicato loro il giorno prima, “glielo stavano chiedendo”. Che cosa? Ma di fare ciò che quella linguacciuta ape regina in grado di causare controversie solo respirando sapeva fare meglio: dire la verità.

Pareva una sciocchezza, ma se fosse capitato a lei di venire interrogata su due piedi, la tentazione di fare falsa testimonianza ed avvalersi del suo bel faccino come alibi l’avrebbe sopraffatta di certo. Bisognava possedere un fegato di ferro per non avvalersi della scelta più facile pur di farla franca.

Sperava davvero che tale sfrontatezza non stesse a compensare una vacuità di buon senso.

Anemone si sfregò un sopracciglio, provando a comprendere dove Acromio volesse trascinare la coscienza della sua ragazza: voleva manipolarla, quella era la sua ipotesi. Ma non capiva neppure lei se ci sarebbe riuscito. Le intenzioni di Camelia erano così indefinibili, solo seguendo il dibattito uno ci sarebbe potuto arrivare.

«Ci piace una ragazza che va dritta al punto! – Esultò il giudice, poi si ricompose – Va bene, signorina, una domandina veloce, tanto per scaldarci e darci due o tre coordinate ideologiche…

Mi diresti che cosa ne pensi della filosofia del vecchio Team Plasma? Quella di liberare i Pokémon dal giogo umano.»

La modella si appoggiò sui gomiti, apparendo pensierosa per una quantità strategica di secondi, per poi sciacquarsi dal volto con una velocità innaturale l’espressione basita, curvando l’asta del microfono verso la sua bocca.

«Uhm…» Abbozzò un sorrisetto modesto.

Prima che potesse spalancare i padiglioni auricolari e prevedere le sorti da quell’esordio a dir poco spinoso, Anemone si sentì tirare la manica dell’uniforme ed abbassò il profilo, come quando in classe le toccava suggerire alle sue compagne durante i test.

«Ti prego, dimmi che tua morosa ha un diploma come minimo per rispondere a questa domanda.»

Bisbigliò la più piccola, l’ultima a poter parlare di quell’argomento in realtà.

«Non credo proprio, non ha detto che ha iniziato con il modeling a dodici anni?»

Le rispose, non trovando ragione per cui valesse la pena mentirle.

«Se per colpa sua finiamo in prigione, io…»  

Per quanto il volume basso le permettesse di suonare minacciosa, la rossa si lasciò trasportare dall’istinto protettivo e la bloccò prima che potesse esprimere intenti lesivi, finì per esagerare e la sentirono tutti.

Era la tossina dell’amore che faceva effetto sulla mente già poco stabile della povera ragazza cotta di una calamita per antipatie.

«Stai zitta un attimo! – Non appena una centinaia di occhiate confuse la mitragliarono all’unisono, Anemone, imbarazzata come non mai, si scusò – Tutto okay, continuate pure.»

Non poteva negare che Camelia avesse anche dei difetti. Ma nel caso si fosse fermata a vedere l’apparenza, le patetiche scenate che metteva su solo per guadagnarsi l’apprezzamento altrui e avesse preso alla lettera tutto quello che la udiva dire, non avrebbe mai potuto provare la gioia estatica di venire salvata dal tentato rapimento organizzato dal Team Plasma o di venire baciata per la prima volta.

Si sentiva un po’ sciocca a ripetere come una macchinetta che la sua ragazza era diversa da come gli altri la vedevano ma nessuno sembrava capirlo mai al primo colpo.

Mentre anche le due biondine la sgridavano in labiale ed Iris probabilmente non le avrebbe rivolto il saluto per almeno un decennio dopo quell’uscita, la giovane di Ponentopoli alzò lo sguardo, dritto alle prime file.

«Andrà tutto bene. So io più di ogni altro che Cami è una tosta, sveglia ed intelligente.

E anche che non è una da tradire una promessa, è troppo onesta per permetterselo.»

Fece un bel respiro profondo, anche se l’odore di chiuso le impolverava la trachea, si preparò a venir impressionata. Non poteva vederla in faccia, ma una piccola risata di gusto proveniva dal suo microfono prima che la mora iniziasse la sua difesa: soppresse il desiderio di correre ad abbracciarla, percependo il freddo ferro sul polso.

«Una figura influente come te avrà di sicuro sentito parlare del Team Plasma, vero? – la riprese il professor-giudice, indisturbato - Dicono che bisognerebbe riconoscere le potenzialità dei Pokemon e liberarli dal giogo degli umani. Io, comunque…»

«…non sono d’accordo.»

Frusciò un coro di sgomento. Magari qualcuno si aspettava che piegasse di nuovo la testa e dicesse di sì?

Chiunque poteva capire che si trattava di una prospettiva illogica.

«Eh?»

Era il momento di argomentare. Siccome il bagaglio etico-culturale di un’adolescente che pone come priorità nella sua crescita trovare un lavoro senza alta qualificazione che le permetta di comprarsi un numero non esiguo di scarpe firmate non somigliava affatto all’arma giusta con cui combattere le antitesi, decise di fare uso di qualcosa di meno accademico, ma oggettivamente più vero di tutti gli artifici sofistici da manuale: la sua personale esperienza come Allenatrice.

Avrebbe potuto scegliere di esporsi in maniera neutrale, esponendo i fatti con disinteresse e metodicità.

Ma si trattava pur sempre di Camelia, la stessa persona che si era messa a piangere fiotti di lacrime perché una bambinetta aveva preso per mano la sua fidanzata attuale e aveva alzato un po’ il tono con lei.

Ovviamente scelse di essere il più drammatica possibile.

«Praticamente, - quell’avverbio fuori posto la avvicinava proprio al popolo comune, chiunque diciassettenne con il seno grande almeno due o tre taglie più del normale poteva immedesimarsi – per diventare famosa, ricca e tutto quello che volete, sono dovuta partire da zero.

Ha presente la periferia a sud di Sciroccopoli?»

«Certo. – Asserì Acromio, catturato da quella storia a lui sconosciuta – Una zona depressa con un tasso elevato di criminalità e disoccupazione.»

La ragazza sfruttò quella rivelazione in maniera trasversale: non serviva che quello annunciasse quanto vivere lì facesse schifo a lei, ma alle persone del pubblico che non conoscevano nel dettaglio gli affari privati delle cinque come quello spione maniaco.

«Sì, non è che sia stata molto fortunata in questo senso…»

Lo disse con una falsa spensieratezza, per poi colpire con il finale a sorpresa; un mese fa la sola vaga menzione dell’argomento le avrebbe irrigidito la spina dorsale e legato la bocca, da quanto la feriva nell’orgoglio ricordare ancora quel triste passato che non l’avrebbe mai abbandonata.

«Forse, con una situazione familiare meno… ehm… complicata? Boh, non saprei come dirlo, avrei… solo…

Preferito non avere un padre violento, che mi insultava, mi picchiava, m’ha trascurato per la gran parte e non mi ha mai voluto bene, uhm.»

Ma, se proprio il fantasma della bambina con la frangetta sporca e le bruciature di sigaretta sulle natiche doveva rimanere legata alla sua ombra, meglio che sfruttasse quella rompiscatole per qualche scopo vantaggioso, a parer suo.

Fece una pausa, lasciando gli ascoltatori sbigottiti da tale sincerità.

«Capisco. – Annuì interessato Acromio, addolcendo la sua voce già poco mascolina. Si rivolse poi verso le quattro giovani sedute ai loro posti – Voi eravate a conoscenza di questo fatto sulla vostra amica?»

Anemone, Camilla, Catlina ed Iris si guardarono fra di loro.

«Fin troppo.»

Ammisero tutte assieme, totale apatia nelle loro espressioni di marmo.

Giacché la solfa del “il mio papà andava a letto con le prostitute e per qualche ragione questo mi autorizza a farmi spezzare il cuore da qualsiasi essere maschile subentri nella mia esistenza, meglio proteggere il mio fragile ego con battute di pessimo gusto” non era chissà che miglioria rispetto al “sono stata adottata a tarda età da un anziano sotto la soglia di povertà, però innamorarmi di ogni essere femminile che subentri nella mia vita è una scelta personale, come l’incolparmi da sola” e l’unica che davvero poteva giustificarsi era “a cinque anni ero un poco viziata, mi è caduto un lampadario sulla testa ed adesso ho l’assicurazione sulla vita e a malapena riesco a stare in piedi da sola”, non si può mica biasimare il decrescere dell’empatia all’interno del gruppo.

Una sola entità sa infatti cosa Camilla ed Iris tenevano nascosto per non sfigurare davanti a tanta eleganza nel far pesare le loro sventure sugli altri. Essa comunque disapprova questo vittimismo, sia chiaro.

Camelia si portò le mani davanti al viso, coprendo la pesante inspirazione che avrebbe preceduto il suo enunciato. Doveva rimanere sullo stomaco a tutti, i presenti doveva tornarsene a casa con il peso dei suoi problemi sulla coscienza: non li avrebbe neppure lasciati cenare in santa pace, la pena che cinquanta sconosciuti sarebbero stati obbligati a provare per lei come minimo gli avrebbe tolto il sonno.

«Senza i miei Pokémon… - fantasticava, con un amaro sorriso a dividerla fra sollievo e frigido realismo - …se non avessi potuto allenare la mia squadra per le lotte non sarei mai diventata Capopalestra… O modella, o una star…

Probabilmente non avrei fatto niente di costruttivo della mia vita, sarei nella stessa situazione di dieci anni fa.»

Cadde il silenzio. Come se fosse esplosa una bomba e avesse raso al suolo ogni preconcetto.

Perfino le quattro, così scettiche sul successo della sua strategia di difesa, le riconobbero di aver indubbiamente ribaltato le carte, passando da fortunata imprenditrice della propria figura a vittima del darwinismo sociale.

Contava che la compassione suscitata andasse a confluire negli incassi del suo prossimo servizio fotografico.

Infatti Acromio si sedette su un banco, accavallando le gambe e schioccando la lingua sui denti, perplesso: avrebbe avuto senso attaccare una persona tanto amata dal pubblico? Non per forza i fan, ma anche i comuni spettatori ignari si erano fatti rubare il cuore. Dargliela vinta, comunque, non era in ogni caso considerabile un’opzione.

«Bene, bene, Camelia.» Senza mai uscire dal personaggio, il professore-giudice non indugiò per molto ancora.

Sapeva benissimo infatti che catturare i cuori delle persone facendo leva sulla loro morale, sull’etica, sulla coscienza umana e sui sentimenti era stato ed ancora rimaneva il principale meccanismo di garanzia nell’irrefrenabile scalata di popolarità del Neo Team Plasma.

Andare nelle piazze dei paesi a predicare, prima. Organizzare un’inquisizione ai capisaldi del futuro della regione, trasmettere l’evento in televisione, commentandolo coi più autorevoli critici, riempire i social media di commenti, post, like, click, era l’ora di mettere la quinta e dimostrare il valore in battaglia del Team Plasma del presente.

Le sinuose dita rosee di lui si inerpicarono inspiegabilmente su per lo zigomo ben disegnato della diciassettenne, che si sentì subito di essere scesa di un piano sociale: con un vecchio gesto di condizionamento psicologico, la costrinse a fissargli le scarpe e ad abbassare la testa, incastrando le pupille indagatrici negli specchi azzurri, connessi al subconscio dell’accusata.

La stavano tirando troppo per le lunghe. Era passata quasi mezz’ora e neppure l’ombra di qualcosa che suonasse come un termine tecnico o una sentenza giuridica era stato pronunciato.

«Mi rende molto lieto il fatto che tu abbia voluto esporci il tuo lato più sensibile, così, su due piedi, con serenità. Ci vuole un bel coraggio a parlare di certi tabù senza paura di venire giudicati.»

«Lo so.» Fu secca.

Il professore doveva aver finalmente trovato il cavillo con cui incastrare la mora, perché si stava calcolando con tutta calma il tempismo con cui consegnarlo all’opinione pubblica.

«Però – arricciò le labbra, tutto deluso – è davvero sconfortante come una persona di umanità grande come la tua non si trovi d’accordo con il programma del Neo Team Plasma…

Non è bello andare tutti d’accordo? Non vuoi che nella nostra regione regnino la pace e la fratellanza?»

Ad Acromio si accesero negli occhi bagliori d’ambizione così autentici da mandare su di giri i presenti. Chissà se ciò gli succedesse sempre, quando parlava dei suoi propositi, chissà se davvero essi coincidessero al cento per cento con quelli del partito di cui era stato fatto segretario.

Tuttavia, la maschera del fanciullo sognatore non doveva increspargli troppo la mandibola, o la sostanza delle sue aspettative per quel processo sarebbe stata rivelata: il linguaggio del corpo si basa molto sulla contenutezza del motore nell’abitacolo.

«Per favore, lo dica… Dica quello che tutti vogliono sentire…» Pregò in silenzio, così il caso si sarebbe chiuso.

«…oh?» Esclamò la giovane modella, come se non sapesse la risposta.

«Dunque?» La incalzò l’uomo.

«No.»

E Camelia si mise di sano gusto, di una naturalezza affascinante, che riusciva solo a lei fra tutte le apprendiste Campionesse, come se si trattasse di uno scherzo detto da una di loro nelle loro conversazioni quotidiane, a ridere.

Da quei concetti tanto distorti, si era sovvenuta di un qualcosa successole appena l’anno addietro.

Nessuno la interruppe, quando si mise a raccontarlo, rigirandosi i ciuffi corvini sulla punta dell’indice.

 

«Nei momenti in cui non ho in agenda una decina di interviste, altrettante registrazioni, servizi fotografici o eventi dei fanclub, mi piacerebbe trovarmi un qualcosa di divertente da fare.

Qualcosa da fare, non qualcosa di cui preoccuparmi.

Quindi, rieccomi ancora un’altra estate a girovagare per i marciapiedi affollati del centro di Sciroccopoli in una delle pause che mi prendo spesso; metto le cuffie, gli occhiali da sole e di solito riesco ad ascoltare almeno un intero album prima che il mio manager o il mio fidanzato di turno non mi messaggiasse per sapere dove diamine fossi.

Stavo passando davanti al Teatro Musical, in pieno giorno, e dall’altro lato della strada, una frase si infila nella confusione regnante nella mia testa per via della musica alta.

«Papà! Cosa ci fai qui?»

Afferrando i cavi, mi strappo gli auricolari di dosso. Li ascolto ancora un po’.

«Sono venuto per riportarti a casa, non è ovvio? Non sei andata anche troppo lontano? Lascia che gli altri facciano le cose a modo loro, noi le facciamo a modo nostro!»

«Okay, allora perché tu non fai le cose a modo tuo e non lasci me fare le cose a modo mio?»

Il mio primissimo impulso fu di accelerare il passo, di scappare via in pratica.

Questa giovane Allenatrice non la conoscevo. Ma mi azzardai lo stesso ad intromettermi nella discussione.

«Tesoro, - le appoggiai la mano sulla spalla, come si fa con una vecchia amica – tu continua pure il tuo viaggio.»

Suo padre mi fulminò con lo sguardo, sgridandomi ed intimandomi di andarmene. Non mi fece nessun effetto, stranamente. Gli adulti non mi hanno mai messo paura, come la fobia del buio, pensavo che se l’avessi superata al più presto sarebbe stato solo un vantaggio per me.

E neanche mai temuto il disaccordo, i litigi e le opinioni contrastanti.

Non volevo che il genitore di qualcun altro cambiasse idea. Volevo spiegargli come mi sentissi.

So che spesso la reazione a un confronto di idee non à sempre positiva o pacifica, ma la ragazza che voleva viaggiare mi aveva fatta immedesimare, le avevo involontariamente rubato la scena ma per il suo bene.

Alla fine di tutta questa lunga parentesi, io e l’Allenatrice ci siamo sfidate ed io ho perso di brutto, quindi direi che la morale è abbastanza intuibile in questo caso.»

 

«Okay, ho qualcosa di serio da dire. Sembra strano, ma se lei, Acromio, ha un attimo di pazienza…»

Richiese la giovane, congiungendo le mani, causando un battito che riecheggiò nella stanza dall’acustica impeccabile.

Non doveva improvvisare granché, un messaggio limpido e ormai noto a lei voleva trasmettere, prima di ascoltare il verdetto.

«Certo, ti è lecito.» Il giudice incrociò le braccia e si leccò le labbra.

Camelia fu sollevata ed imboccò il percorso mentale che si era schematizzata in maniera del tutto naturale.

«Allora, intanto: il mondo è pieno di persone come me. Persone orribili, che non si trattengono le critiche e sono così oneste nel dire la loro, che finiscono sempre e comunque per venire feriti o per ferire i sentimenti degli altri.

Ma va bene così.» 

Nessuno osò controbatterla. Allora la mora proseguì, avendo stabilito che non c’era nulla di strano nella reazione del padre dell’esempio o del segretario del Team Plasma, quando gli era stato rifilato un secco “no” alle loro verità personali.

«Se non ci si scontra, se non si imparano a conoscere le differenze… non si può vedere il mondo sempre da un solo punto di vista. Per questo è importante provare a capire chi è diverso.»

A quel punto, la voce ormai ridotta a un soffio si fece ancora più dolce, tingendosi di una compassione unica, che solo la più vanesia, acida e meno affabile di loro poteva far risaltare a tal punto.

«Per capire che non c’è niente di male nell’essere diversi. No?»

Prima di quell’estate, Camelia si sarebbe definita senza problemi come una ragazza come tutte le altre. Non pretendeva di distaccarsi dalla massa per poi ricadere nei peggiori stereotipi a capofitto: adorava i vestiti firmati, truccarsi con cosmetici dai profumi dal nome esotico, i pettegolezzi perfidi sulle sue rivali.

Tuttavia, aveva scoperto talmente tante cose che non avrebbe attribuito alla sua persona nemmeno in un universo alternativo; ed ora adorava quei lati di se stessa.

Quando la sua fidanzata l’aveva rimproverata, la sera del loro primo bacio, perché era da ipocrita odiare i difetti degli altri ma assimilare gli stessi ai propri pregi. Per fortuna che era cambiata.

O meglio, si era lasciata cambiare da quel vento fresco e nuovo con il quale la sua vecchia pelle, troppo stretta oramai, era stata spazzata via.

La modella che insultava Nardo per averla iscritta a sua insaputa alla competizione, che si gongolava del calore di una relazione vana e transitoria come fosse l’amore della vita, che avrebbe volentieri mandato tutto all’aria per una singola sconfitta era relegata in un fotogramma della sua memoria, un’ispirazione continua a migliorarsi, confrontandosi con tutto quello che odiava, snobbava o ignorava.

Paragonò la sua precedente chiusura mentale dell’abbandono di cui aveva paura da sempre: prima le sarebbe passata, prima avrebbe potuto riderci sopra ed etichettarla come la fase oscura della sua vita.

«E poi, ci sono i Pokémon! – Suonò molto ingenua, ma tutti concordarono con lei - I Pokémon sono fantastici, no? Sono carini e tutto, ma si può veramente dipendere da loro, in un certo senso…»

Scostò il microfono da sé e si sedette in posizione meno tesa, una volta finito di parlare.

Subito però le toccò alzare gli occhi, perché dopo due battiti solitari ed intensi, un applauso, degno delle più buffe imprese strappalacrime di silenziosi eroi senza volto si levò per Camelia, che sorrise timida.

Per quanto urtasse la sua dignità, anche Iris si unì, colpendo con i polpastrelli, leggera, sul palmo.

«Almeno ha ammesso di essere una persona orribile…» Si consolò; con fatica aveva accettato il fatto che quella Capopalestra fosse agli occhi degli altri molto più bella e sviluppata di lei, ma che perfino in intelligenza dimostrasse di essere più donna, le si seccò la bocca per l’invidia.

Preferiva l’approccio di Anemone, che appariva persa in quel discorso toccante, le pupille turchesi si erano dilatate abbastanza che se non l’avesse vista già varie volte in stati emotivi alterati anche all’estremo, avrebbe giurato si sarebbe messa a versare lacrime di commozione.

«Beh… abbiamo finito qui, giusto?»

Camilla, per via del suo stato di anzianità, si sentiva di conversare molto liberamente con le reclute che le sorvegliavano.

Peccato che questo sermone, tanto carico di pathos ed umiltà, lo avessero sentito solo la quarantina di persone lì presenti in sala: una volta spiaccicato su tutti i media, come l’apologia del secolo, nessuno si sarebbe potuto scagliare contro di loro in qualità di terroriste ideologiche.

Terminato all’incirca il clamore susseguitosi ad esso, Acromio si sistemò il ciuffo e pulì gli occhiali sul camice.

Una recluta con uno sbiadito tatuaggio tribale sulla tempia fece cenno alla Campionessa di guardare avanti.

«Tutto molto interessante. - Si riposizionò opposto all’imputata, si era acceso un fuoco nell’animo del professore. - Ma prima di confrontarsi con noi…»

L’uomo andò ad arraffare un plico di fogli strabordanti dai lati, uno si sarebbe potuto tagliare un dito non maneggiandoli con attenzione. Lo fece scivolare sul tavolo, come un disco da hockey. Il timbro rosso, sbavato sugli angoli, aveva i sigilli dell’intelligence della regione, cosa che la giovane non si sarebbe mai immaginata di osservare neanche nei sogni.

Aprì la copertina: in testa, lesse di quella volta che rise in pubblico di un suo fan sovrappeso.

«…non ti dispiacerebbe confrontarti un po’ con noi? Con le evidenze?»

Come assorta in una morbosa trance, voleva divorare quel fascicolo in minor tempo possibile, il contenuto era troppo riservato, troppo reale per portarla a distogliervi lo sguardo: la vipera che era, il mostro senza ritegno, che non si ferma davanti a nulla per mostrare il vero, non importa quanto doloroso sia, era comunque una parte di lei.

Due pagine avanti: per far decollare più velocemente la sua carriera, si dice fosse stata a letto con un suo amico fotografo senza avvisare la sua manager di allora, la quale si trovava ad essere la moglie di egli.

Peccato non si fossero documentati sul dettaglio più importante: al momento dell’accaduto lei era già una celebrità, si era semplicemente tolta uno sfizio, niente di così profondo.

“…ed è per questo che io penso che ad Unima le Allenatrici donne non sono oppresse.” Si ricordava bene quell’intervista: per un mese intero sul web non si fece che discutere sull’impedire alle modelle ignoranti e qualunquiste di esprimere la loro opinione su fatti di cronaca.

Nessuno prese mai in considerazione tale proposta, ma essere sempre nei pensieri dei progressisti le scaldava il cuore.

Richiuse il dossier, battendone il bordo sul tavolo per far rientrare nella copertina le carte uscite dal bordo rilegato.

«Ebbene?» La incalzò Acromio, diventato più severo, esigeva maggiore serietà.

«Niente. Queste cose si sapevano da un po’, non sono chissà che notizie.» Fece, indifferente.

Nonostante tali rivelazioni non le facessero né caldo né freddo, era palese che avesse aspettato che lei stessa di esporre i propri punti deboli, senza che dovesse lui sporcarsi le mani a dissotterrare i suoi scandali sordidi e gli insradicabili dilemmi fissi, impiantati delle sabbie mobili del subconscio di un individuo così travagliato.

Poteva darsi che ad Acromio, alle reclute, al Neo Team Plasma in generale non piacessero granché le cosiddette “bambine problematiche”. Ed avere a che fare con un numero tanto alto di esse richiedeva mezzi specifici.

Serviva un lettino da psichiatra, ma anche le lame, il bisturi e l’uncino acuminato di un cercatore di ossa, per dissezionare i rancidi scheletri che ognuna di loro nascondeva dietro all’aspetto di una normale cittadina di Unima.

E talvolta non solo ossa, Camelia aveva alle spalle cadaveri freschi, ripuliti dei segni di colluttazione, esposti in una collezione alla maniera dei killer seriali dei romanzi gialli di metà novecento.

Giaceva la sua brutta fama nello stesso scrigno della coscienza in cui le sue buone azioni, come quando aveva perdonato la più piccola del gruppo nonostante l’avesse presa in giro e quando aveva accettato di venire a cena dal suo futuro suocero: anche quella era parte di lei, non poteva cancellare nulla delle sue serate più selvagge o delle sue affermazioni più controverse e ciò non la infastidiva mai.

«Camelia, ti chiedo io adesso una cosa, una volta per tutte.

Ti sei mai chiesta come si sentissero tutte le persone che hai in qualche modo offeso?»

Dalle labbra della ragazza scivolò solo aria intorpidita dall’ansia. Si sentì come quando a scuola la riprendevano perché indossava gli auricolari dentro il cappuccio della felpa e punizioni quali i compiti extra la attendevano ogni doposcuola.

Quella piccolezza, la odiava. Odiava anche Acromio, ma almeno se si trattava di una sensazione non poteva avventarsi in avanti e strangolarla, essendo qualcosa di astratto.

«Hai mai pensato un attimo a tutto il dolore e la sofferenza agli altri che hai causato con la tua “onestà”?»

«No. Perché, dovrei?»

«Questa tua idea di dire quello che ti pare e piace, di giocare con i sentimenti degli altri solo per proclamarti “migliore”, sai quanto è nociva alla felicità, al benessere di tutti?

Mentre tu ti vanti e fai di questo orrendo tratto della tua personalità un vanto, c’è chi invece, come il Nostro partito, punta a creare uno stato coeso, armonioso, in cui persone diverse possano essere accomunate dall’unico desiderio: dare a tutti le stesse possibilità di successo, eliminando le disuguaglianze sociali e economiche…

Ma tu non hai il cuore per tutto questo; - poi si rivolse al pubblico – queste insolenze, questi affronti alla nostra bellissima diversità, non saranno più tollerati, a partire da ora in poi!»

Acromio scattò verso lo scranno, saltando quasi i due gradini su cui era elevato.

«Ha ragione, il professore. - Una donna nelle ultime file confessò a marito, intendendo però di ottenere il consenso di tutti i suoi vicini – Non si può lasciare che i giovani si facciano influenzare da queste derive autoritarie. Bisogna riportare l’ordine.»

«Bisognerebbe, - commentò un tirocinante della facoltà di legge, a cui stava stretta la camicia in seta – fare un purga di tutti quegli Allenatori buoni solo a seminare discordia, togliergli dalle posizioni di rilievo: via tutti i Capipalestra e i Superquattro che speculano contro la democrazia!»

«Giusto, giusto, - gli fece eco una studentessa di una qualche facoltà umanistica, dagli occhiali spessi come vetri antiproiettile ed il golf di cachemire in pieno luglio – non pensiate tutti che noi giovani siamo tutti così, per favore! Queste sono solo delle oche ignoranti, che parlano per sentito dire, che non hanno studiato né storia né filosofia.

Bisogna sempre rispettare i diritti umani e non discriminare chi è diverso è un diritto!»

«I diritti umani sono fon-da-men-ta-li! Siamo nell’anno corrente, non è possibile che gente come questa Allenatrice abbia la libertà di esprimere pensieri così estremi e privi di tatto.»

Si unì alla lirica un altro signore, fra i tanti fortunati scelti per assistere al processo, che si trovò contento che la propria ideologia venisse confermata dalla nuova corrente di governo.

La mano ossuta dell’uomo afferrò il martello in legno: un secondo era proprio un secondo.

«Con la presente…» Il tono andò in scala, come se stesse cantando un ritornello.

Se fosse andato tutto come sperato, lo avrebbero tutti ascoltato per altre quattro volte, prima che la canzone del nuovo ordine terminasse, fra gli squilli delle trombe e i rulli di tamburi e le risa dei bambini che lanciano petali.

«No, aspettate, non potete incarcerarmi per delle sciocchezze dette chissà quanti anni fa…»

La mora era ancora lì ma nessuno sembrava volerla più neanche guardare. Era davvero finita? Lei aveva ancora altro da dire, da offrire a quella turba affamata di brama di disputa. Non importava più a nessuno se fosse innocente o no?

Non lo sopportava.

Una bugia era diventata più interessante, più rilevante di lei nel giro di pochi istanti.

Si arrabbiò. Provò ad alzarsi in piedi e torcendo il braccio verso l’esterno si girò verso la platea, verso le sue compagne. Non aveva altre persone su cui contare oltre a loro.

«Voi altre, ditegli qualcosa! – Gli gridò, perdendo tutto la compostezza, al prospetto di non avere più nulla con cui difendersi – Io non sono una criminale, potete provarglielo, dovete provarglielo!»

Camelia fece un respiro che però finì per gonfiarle il volto di disperazione, mentre gli iridi delle sue compagne si ingrossavano di paura, di legittima preoccupazione di venire chiamate a loro volta a testimoniare e di sapere benissimo di non avere alcun coraggio per farlo e salvare la loro amica.

«Smettila, per favore, di implorare attenzioni. - Il professore la riprese, sterno, come una madre che secca il proprio lato femmineo apposta, parendo talora più terrificante degli uomini – Le prove parlano chiaro, e vista la coerenza che ci hai dimostrato finora, farebbe solo ancora più male alla tua reputazione, di negare il tutto.»

«Non mi merito niente di tutto questo…» Soffocò un singhiozzo, per nulla sceneggiato.

«Le conseguenze si pagano, prima o poi. Legge del contrappasso.»

«Mi volete mandare in carcere minorile per aver detto delle cose che…?»

«Ma quale carcere minorile! – Agitò il braccio, con severità allarmante – Esattamente il 31 luglio, a diciotto anni, sarai al cento per cento responsabile per legge. Non manca mica tanto: sei già un’adulta da un bel po’.»

Schiarendosi la voce dalla platea, le reclute appostate agli angoli della sala e incaricate da far da scorta si riavvicinarono a lei come i demoni muniti di forca atti a spingerla dentro la pece bollente. Era finito.

Con brutalità, le pressarono sulle spalle fino a costringerla a rimettersi seduta, per ascoltare la sua sentenza di condanna ed imprimersela in mente.

Nessuno osò abbandonare il proprio posto finché il giudice-professore non terminò.  Tanto si sarebbero tutti rivisti il giorno dopo, stesso luogo, stessa ora, alla vetrina delle vergogne viventi.

«In base a quanto stabilito dall’Altissimo consiglio del Grande Partito, erede del regno dei Gropius-Harmonia e in base alla deliberazione della Suprema Corte della Regione di Unima, la qui presente imputata Camelia Taylor è accusata con tutta validità di terrorismo ideologico, incitamento all’odio e alla violenza psicologica e, da quel che leggo qui… - Acromio strizzò le pupille, aveva dimenticato un dettaglio non poco importante – di consumo di sostanze stupefacenti illegalmente ottenute?!»

«N-non sono una tossica, lo giuro.»

La modella non ebbe nulla da ridire, aveva ricevuto esattamente l’effetto boomerang che si aspettava. Solo che accorgersene tanto tardi era leggermente… Non era stato il Team stesso a produrre la sostanza proibita? Era il dilemma di chi fosse nato prima fra l’uovo e la gallina.

«Comunque, la giuria condanna l’imputata a scontare due anni di carcere con eventuale riduzione della pena in caso di buona condotta.

Si conclude la seduta di oggi. Ringrazio tutti i presenti della Vostra partecipazione…»

Come poteva farsi un’idea, un programma per rassicurarsi sul suo futuro con una predizione ufficializzata e infausta? Per quanto ne sapeva, in quel lasso di tempo avrebbe potuto fare in tempo a morire. Non si sarebbe vista mai ventenne.

Il suo stesso profilo riflesso sul marmo lucido le ricordava quello delle specie canine che una volta bastonati diventano incapaci di abbaiare, ogni quando l’aguzzino torna per battergli la canna sul muso quelli senza stancarsi continuano invece a muovere la coda domandando del cibo.

Era quello il senso di essere una ragazza addomesticata? Non era nata da uno swing di un alcolizzato e di una prostituta per lamentarsi delle sue scelte di vita in gattabuia.

Si trattava solo di un brutto scherzo. Uno scherzo che si era fatta da sola, però.

E visto il suo carattere, non poteva assolutamente dare ragione a chi, come Acromio avrebbe sostenuto che il suo agire era dato da odio, perché lei in quel momento non si odiava.

Neanche se qualcuno avesse consegnato in mano a quell’uomo abietto la pergamena lunga chissà quanti chilometri che al momento del giudizio universale si sarebbe srotolata come un tappeto infinto indicando ogni sua singola cattiveria, meschinità, errore e peccato, lei non avrebbe mai potuto odiare quella persona.

Una parte, pure questa, di lei.

 

A mezzogiorno, dopo il processo, non gli venne neppure dato da mangiare. Per altre due ore circa, l’amministrazione carceraria aveva preferito lasciare che alle cinque sventurate si corrodesse l’apparato digerente con l’acidità della pesantissima sconfitta appena subita.

Rimesso piede in cella, la ragazza dai capelli sudati e unti di sebo, che poco prima avrebbe grattato la faccia sul pavimento pur di non dover alzare gli occhi ed incrociare tutte quelle domande, tutti quei dubbi e il biasimo che la attendeva, si distaccò dal suo gruppo appoggiandosi sullo spigolo del muro con la fronte.

Stavano tutte a guardarla, ognuna aveva qualcosa di diverso per la testa. Nulla di troppo prevedibile o di troppo insospettabile.

Camelia si tappò naso e bocca come se una bombola di ossigeno fosse collegata alle articolazioni delle braccia, tirò un respiro rumoroso: non ce la faceva nemmeno a piangere a comando per sembrare più dispiaciuta.

Si girò per formulare qualcosa e la rapidità le fece quasi perdere l’orientamento, non riusciva quasi più a distinguere chi avesse davanti a calpestare la sua ombra.

«Scusatemi… Io…»

«No, non ti scusiamo proprio, stupida figlia di…!»

Un colpo secco la fece indietreggiare, spalle al muro, portò subito gli avambracci alti per proteggersi ancora da quel pugno contro l’osso parietale, il cervello le riverberava come il gong dei match di arti marziali.

Qualsiasi insulto fosse stato inserito, la mora non vi fece attenzione.

Le arrivò un altro pugno in faccia, stavolta sulla tempia, che non la prese di sorpresa quanto il precedente, solo che la vicinanza con l’occhio la fece preoccupare, il bulbo aveva fatto uno strano schiocco, causato dal muscolo, il nervo o chissà cosa.

«Perché devi essere così? Potevi mentire, potevi negare tutto, perché non ci hai pensato?!» Le strillò alle orecchie.

Da destra, poi da sinistra, altri due manrovesci dall’ampia circonferenza, lei non riusciva a stopparli con le mani accattate alle spalle.

Avrebbe voluto moltissimo difendersi, quando fu presa per il collo dell’uniforme, sentendo la cucitura strillare mentre le segava la pelle; avrebbe potuto afferrare i polsi di colei che l’aveva agguantata, ma perse l’occasione: il primo tentativo di presa andò a vuoto, ma con il secondo le unghie dell’altra erano affondate nella carne e con una stretta eccessiva, assolutamente non ragionata, Camelia ruppe il suo tacito subire con ripetuti “basta!” e “smettila!”.

«Se ci succede qualcosa… è tutta colpa tua, è sempre e solo colpa tua, sei un’idiota!»

Aggiunse anche “ti prego”. Dalla foga con cui tirava e visto l’odio accumulatosi, avrebbe potuto giurare che Iris le avrebbe strappato il seno a suon di strattoni e graffi.

Più provava a spingerla via, più anticipava la mossa successiva: con uno schiaffo abbastanza potente, una ragazzina così magra… Non ce la faceva. Picchiare una più piccola di lei era un’impasse che purtroppo non avrebbe superato in quel momento.

«Si vede quanto te ne frega degli altri, di noi, di tua morosa, per colpa del tuo stupido, stupido orgoglio, e se proprio vuoi saperlo non frega a nessuno che tu vada in carcere o no a questo punto!»

Iris la prese per la frangia, tirando verso il basso per esporla ancora più alla sua voglia di batterla freneticamente, senza trattenersi: gridare così forte l’aveva esaurita abbastanza, ma non demorse nel voler come minimo scaricare la propria delusione sulla disgraziata, sfruttando quella calzante occasione.

«Ohi, ohi, ohi, calme, calme, abbassate quelle mani!»

«Non l’ho neanche toccata!»

La mora adesso aveva il fiato mozzo, le veniva da tossire un grumo di frustrazione bloccato nella gola.

Non si sarebbe mai aspettata una reazione tanto lenta dalla leader, la antagonizzò per non aver fermato quell’aggressione sin da subito, che perfino Camilla avesse voluto vederla soffrire, in fondo?

In realtà, si trattava solo dell’agilità di Iris, era sfuggita ai tentativi di immobilizzarla delle altre. Se solo ci avessero la grinta e l’assertività giuste per confrontarsi con la sete di vendetta di quel piccolo mostriciattolo dai capelli viola, era sicura che metà dei pugni presi non l’avrebbero neanche scalfita.

«Quanto ti odio, - quella usò un turpiloquio, mentre Camilla riprovava ad allontanarla di almeno cinque passi tenendola per le spalle – quanto sono contenta di non doverti rivedere mai più!»

«Okay, direI che basta, ora.» La voce della bionda si era alzata ed era discesa, non voleva altre discussioni.

Sorprendentemente, invece di andarsi a nascondere dietro la folta chioma di capelli e la sagoma protettrice della leader, Iris si scrollò le dita di dosso, fece spallucce con il mento all’insù.

Camelia si domandò da quando la bambina tanto terrorizzata dai rimproveri dei superiori avesse smesso di essere intimidita da lei; non se la ingraziava nemmeno con l’adulazione, invece quel giorno alla Lega, in cui aveva detto “tu sei… una persona famosa! Scusa, ma devi essere bravissima”.

«Ah, io non ho niente da aggiungere. – Iris incrociò anche le braccia, con un sorrisetto appena abbozzato, che cercava di ricreare basandosi su quelli che la modella le aveva troppo di sovente rifilato – Se vuoi tirarmi un calcio o cosa, fai pure, cambia nulla.»

La provocò, come se un’aura repulsiva la isolasse da tutti gli sguardi torvi guadagnati col suo comportamento irrazionale.

Terminata l’ingiuria, udirono tutte per la seconda volta il cigolare della porta che s’apriva.

«Ma vi stavate menando? Che in basso che sono cadute…»

«Ricordiamo che siamo ancora al primo giorno, entro sabato qualcuna secondo me ce la troviamo appesa al soffitto.»

Due reclute si misero a ridere nonostante nessuna di elle trovasse quegli scadenti sforzi di umorismo davvero divertenti. Quella più bassa aveva in mano un secchio coperto di vernice stinta, in quanto ad apparenza, non la distinsero dalle altre, se fosse stata in sala d’udienze assieme a loro o no. L’altra se la ricordarono dai controlli.

«Che volete?» Camelia non gli riservò troppa gentilezza. Aveva un brutto presagio.

«Ci dispiace un po’ per come te la sei presa sui denti, hehe.» Fece recluta uno.

«No, non è vero. Non ci dispiace neanche un po’.» La riprese subito recluta due.

Dimenticandosi di lasciare un intervallo comico per far sortire l’effetto velenoso, le cinque si riempirono di disagio, fissandole sulla soglia.

«Siete irritanti, andatevene.» Le intimarono.

«No, non possiamo. Vi abbiamo visto che ve le stavate dando di brutto, – indicò la telecamera, quale fosse un oggetto senziente che di propria volontà aveva spifferato tutto – che bestie senza autocontrollo siete, voi altre.»

«Ghecis – Aveva davvero tutto questo tempo libero, il capo del Team? Era solo una minaccia probabilmente, ma si allarmarono comunque – ha detto che dobbiamo punirvi per questo.»

«No, no, non dobbiamo punirvi tutte, basta una, secondo me.»

Quella parlava in contemporanea alla collega e a loro, mescolando i punti di vista, faticavano a capire se fosse certa delle loro intenzioni o stesse interpellando l’altra per conferma di continuo.

«Hey, ho un’idea! – le venne vicina tutta entusiasta e si accostò al suo bicipite, l’altra inclinò la testa per porgerle l’orecchio – Se facessimo fare la doccia alla nanetta, non ci sarebbe gusto. Ma, se prendiamo una delle altre quattro…»

«No, che genio che sei! - Saltò, battendo le mani. Sembrava parecchio elettrizzata all’idea – Aspetta, ma se non puniamo lei, poi dopo queste altre potrebbero pestarla per vendetta, e quindi dovremmo punirle ancora… un circolo vizioso, insomma.»

Colei che aveva escogitato quella trovata si indicò la fronte con l’indice, come se ci avesse pensato per prima alla concatenazione di causa-effetto che si sarebbe scatenata. In realtà non era andata oltre lo step iniziale, solo che la competitività stimolava il rendimento delle reclute, secondo i capi al livello di Acromio.

«Allora, fra voi quattro: vi diamo… dieci secondi!» Esultò.

Poi cominciò a contare alla rovescia in maniera piuttosto inconsistente, decideva lei quanto un secondo dovesse durare e ogni volta che abbassava un dito, i rimanenti apparivano stortignaccoli quali artigli di un rapace.

Già all’otto, Iris con due falcate era giunta fin dalle due carceriere per implorare perdono; aveva appena rimproverato la sua compagna per aver anteposto il proprio orgoglio personale alla salvezza della squadra, non voleva fare il suo stesso errore. Poi voleva interrompere sul nascere il piano diabolico secondo cui lei faceva da capro espiatorio.

«Tre, due, uno, uno e mezzo, uno e tre quarti, uno e sei dodicesimi…»

Camelia invece aveva trovato troppo conveniente che la sua assalitrice fosse tornata alla sua posizione di sottomissione proprio ora. Lasciandola andare però, quella avrebbe potuto considerare la situazione un mal comune-mezzo gaudio ed azzerare il conteggio delle offese fatte.

Come minimo, per far sì che la mora le concedesse un uno-ad-uno, le due simpaticone dovevano stritolarle il seno con a stessa potenza, e dubitava che una come la sua adorabile piccola compagna avrebbe sentito metà del dolore patito da lei.

«Non pensateci neanche. Vado io.»

«Woah, la poveraccia ci fa da cavia! – La recluta dalle mani libere scosse i palmi aperti, per poi lasciarle cadere, delusa - Che peccato, io volevo la sociopatica, però.»

«Anemone, non…» La modella provò a fermarla, in tono un po’ rude, con cui inconsciamente rafforzò la supposizione di Iris, ossia che non le fosse rimasto neanche un briciolo di tatto per la sua fidanzata.

«”Non” cosa? - La rossa si fece largo con movimenti fiacchi, aveva gli occhi lucidi svuotati di ogni colore, pareva stessero per sgusciarle fuori e lei li trattenesse con le palpebre – Gestitevele voi queste cose. A me non piace litigare.»

Ebbe una convinzione tale da prevenire l’intervento delle due Allenatrici più anziane.

La luce al neon le batteva sulla fronte, trasformando il grasso cutaneo in un illuminante naturale e Camelia non riusciva a guardarla. Era ancora vulnerabile allo stoicismo di quella ragazza come lo era al momento in cui le aveva inondato le maniche dello yukata di lacrime frivole.

Anemone le ispirava qualcosa in mezzo al timore e al profondo rispetto quando la sua personale presunta dominanza non riusciva ad immergersi nelle crepe di quello spirito integerrimo e compatto come cemento armato. E perciò a crollare era sempre lei per prima.

Lo trovava umiliante, ma giusto.

Si morse la lingua e non sviolinò tardi ringraziamenti al suo sacrificio, usò quell’energia mentale per pregare che nulla di peggio di quanto era successo a lei succedesse alla sua cara fidanzata.

«Okay, ve la riportiamo fra… due-tre orette? C-Cosa credevate, che ce la saremmo tenuta?!»

La Capopalestra di Ponentopoli le squadrava senza metterci troppo risentimento.

«Questa è per voi! – La recluta posò il secchio a terra con così poca cura da far strabordare il liquido contenuto in esso, ingrigendo ancora di più il pavimento con la macchia umida – Sapete che se non si bevono almeno quatto litri al giorno in estate la pelle si secca e vi viene fuori l’acne cistica?»

«Ma è acqua? Cosa ci avete messo dentro?»

Sparirono con la stessa grazia con cui si erano presentate, Anemone aveva ancora la benda e quindi supposero fosse quella la prassi per tenerle all’oscuro di dove si trovassero e dove le stessero portando.

La richiusura della cella sembrò durare troppo, la porta scorse l’angolo retto con una lentezza amplificata dall’assenza di ogni qualsivoglia commento riguardo la situazione corrente: le quattro giovani ex-aspiranti Campionesse non condividevano nulla se non l’aria pregna di terrore della clausura.

A quel punto, con i palmi ancora brulicanti dalla voglia di colpire qualcuno di vivente, ragion di quella scelta il bisogno di ferire intenzionale e di un feedback in ritorno ad esso, Iris pensò che ritrovarsi con degli estranei ad esaurire gli ultimi istanti di libertà formale che le rimanevano, se non preferibile, le sarebbe stato indifferente.

Mentre la furia del temporale ruggiva fuori nei campi di colza, tutte la ignoravano e lei aveva osato crucciarsi; ora sentiva la mancanza di quell’invisibilità, rivoleva le lacrime spese per persone ormai troppo lontane dal suo cuore perché la speranza di sistemare le cose e di lasciarsi curare dal tempo potesse ricondurle nel suo stesso spazio.

Rimasero tutte immobili, come modellini di cera, non sapevano se fosse dì o notte.

L’unica cosa che impressionò la piccola di Boreduopoli fino al momento in cui si addormentò, fu Camilla, andata ad analizzare il contenuto trasparente del secchio, si augurò almeno che non si tagliasse con la ruggine.

Guardava dentro quello specchio deformato, i ciuffi biondi le scivolavano da dietro le orecchie e si tuffavano le punte: dall’odore e dalla consistenza, pareva acqua. Veleno, forse? Non lasciava alcun pigmento violaceo o giallastro.

Dopo mezza giornata, potersi reidratare un po’ non sarebbe stata una cattiva cosa, pensò.

Ma senza preavviso, il tossire prolungato e strenuo della Campionessa, chinata a terra con la mano sotto il mento a raccogliere la saliva che faceva capolino, dall’esofago la materia ingurgitata era stata violentemente rigettata, intanto respirava a fondo per asciugarsi la bocca dal tremendo sapore e parlare con Catlina e Camelia, già pronte a soccorrerla. 

«È acqua e sale.» Disse, tossendo ancora più forte.

Finì che la convinsero a sputare per terra, fino a che del retrogusto tossico non ne fosse rimasta traccia.

 

Niente luna, niente cielo. Il soffitto sembrava pesare con lo spessore dell’intera atmosfera terrestre.

Da fuori tuttavia i rombi dei tuoni s’infiltravano nelle pareti e le reti dei materassi vibravano come telefonini in modalità silenziosa. 

I sogni di mezza estate non dovrebbero conoscere così presto l’alba
Dappertutto, gli uccelli avrebbero comunque cantato. Anche non le avessero rinchiuse, se c’era perfino la pioggia e il vento a sibilare nel buio, quanta possibilità avrebbero avuto di poter vedere le stelle? Un desiderio del genere era strano. I fiori caduti dagli alberi, chissà quanti.

Acromio aveva ragione: il caldo umido impestava l’aria. Le città più inquinate, in particolare Austropoli e Sciroccopoli, in cui le nuvole grigio antracite ammassate attorno alle punte dei grattacieli coprivano le teste di circa sei milioni di abitanti di Unima non erano tanto soffocanti.

«Direi che basta per oggi. Ho finito il materiale, non posso farci molto.»

Iris si passò una mano sull’osso cervicale, sentendolo più pronunciato del solito vista la sua posizione ricurva da seduta, mantenuta per un tempo prolungato. Alzò la testa e uno scricchiolio sospetto la indolenzì.

Voleva proprio fare un bel respiro aperto, ma le compagne dormivano tutte e ormai le rimanevano poche coordinate sul come intrattenere una conversazione con loro. Aveva segnalato chiaramente un addio poco rincresciuto mediante le sue azioni.

«Se mi chiedi “scusa” adesso e non dopo che ti sei fatta sgridare da Camilla, potrei anche accettarlo.»

Lo aveva detto la mora, prima di dormire. Lei non le aveva risposto.

«Avrei dovuto metterle le dita negli occhi. O darle un morso. Non mi sono impegnata davvero.»

Pensò in quel momento. Perfino il silenzio della sua testa le pareva un luogo insicuro e vulnerabile, sentiva allo scoperto tutti i suoi ragionamenti non esternabili. Era tremendo per la ragazzina ancora scossa emotivamente rimanere abbandonata al proprio rancore.

«Anemone non me la perdonerà mai… - fissò la compagna addormentata, racchiusa fra le braccia della sua fidanzata, invidiò tutta la sua bontà – Ma come si fa a chiudere un occhio su una cosa del genere… Giuro, non mi innamorerò mai.»

La rossa era effettivamente tornata da loro, un po’ più tardi di quanto la recluta bassa aveva annunciato: se ne erano accorte solo lei, che fingeva di essere assopita, distesa con mezzo occhio aperto, e Camelia, la quale le aveva posto tantissime domande. Ma siccome non aveva programmato il dopo, specie se avesse intenzione di vendicarsi prima o poi, ora i loro rapporti si erano malamente troncati e Iris si stufò di ascoltarla.

Riguardo a cosa le avessero fatto, Anemone aveva ridacchiato e aveva rassicurato la compagna che non era nulla di cui preoccuparsi. Non poteva riferire in cosa consistesse la tortura, spiegò solo che era intuibile (lei provò a riflettere ma non ci arrivava da sola comunque) e la definì “sopportabile”.

«Certo, avrebbero potuto anche frustarla, strapparle le unghie una ad una e sfregiarla con l’acido. Tanto Anemone non direbbe niente comunque, chi glielo fa fare… boh. Perché le dà sempre corda? Lei e Camelia sono una peggio dell’altra.

Come fanno a non odiarsi una cifra? Se non stessero insieme magari capirebbero di essere sulla strada del suicidio…

Forse è vero. Sono io che sono gelosa perché non ho nessuno a darmi ragione a prescindere. O forse voglio qualcuno che mi abbracci mentre dormo? No, fa troppo caldo, che schifo.»

«Iris, soffri di insonnia per caso? Sei sempre sveglia nel bel mezzo della notte.»

La voce profonda di colei che stava sul letto al di sotto del suo si intromise nel suo flusso di coscienza, un braccio bianco spuntò dal bordo delle sue lenzuola, le dita danzavano come ad invogliarla ad afferrare la mano.

«Sì. Sì, in un certo senso. Adesso dormo, però.»

«Non è che rinunciando al sonno tu stia espiando le tue colpe nei confronti di Anemone e Camelia, sai?»

Ogni presunzione della giovane Allenatrice di Pokémon Drago si sgretolò, un vero e proprio malore fisico la costrinse a non ribattere. Non si sentiva più se stessa, era convinta che un’altra persona avesse agito al posto suo: la tipica scusa a cui non avrebbe mai creduto neanche lei.

Camilla, poi. Sempre a sviscerare i suoi intenti più veri anche quando era sincera. Doveva solo arrendersi e lasciarsi sondare la coscienza e non sarebbe stata una cosa breve come quando aveva osato mancare di rispetto a Catlina.

Si avvinghiò al braccio della Campionessa, a testa in giù si mostrò in viso mentre la matassa di capelli scompigliati le scivolò sul naso e la compagna si sorprese piacevolmente. Stava seduta sull’angolo come una principessa in attesa del suo salvatore, nella poca luce la sua attenzione ricadde sulle sue ginocchia piegate, il muscolo del polpaccio riempiva tutta la carne e la pelle diafana era piena, di un gonfiore sano e rassicurante.

Se Camilla avesse avuto il fantomatico fidanzato di cui lei e le altre insinuavano l’esistenza più che plausibile dal giorno del loro incontro, ora lui sarebbe venuto a salvarla, magari su un Rapidash cromatico bianco o su un Drago che usava Lanciafiamme con poca mira.

Però non c’era. E dopo tutte le batoste subite, Iris non si sarebbe mai permessa di proporsi come tale, la sua alterigia si era spenta e guai se la cenere di essa le avesse offuscato l’animo.

«Ti faccio vedere una cosa, vieni su.»

Come se dovesse lasciar spazio al passaggio di un regale, si dispose subito sul lato del letto, affinché la leader potesse salire senza intralci: aveva scelto lei quello in alto, per risparmiare alle altre la fatica di arrampicarsi, azione che invece alla ragazzina cresciuta in mezzo ad alberi dai rami robusti e dai frutti deliziosi in apparenza irraggiungibili, causava poco disturbo, magari un po’ di nostalgia dell’infanzia.

Sperò che Camilla non si aspettasse nulla di spettacolare quali passaggi segreti, tunnel sotterranei o un fortuito condotto di aerazione (quell’ipotesi, quanto fu doloroso scartarla sentendo il monito del professore via video!) per far condicio dei suoi misfatti precedenti, altrimenti lei avrebbe già porto scuse ufficiali e se ne sarebbe lavata le mani.

Non appena ella si accomodò nella posizione appoggiata sui talloni inconcepibile per il mondo occidentale, le diede le spalle per estrarre qualcosa dal fianco del materasso adagiato al muro, una specie di tasca artificiale, da cui venne fuori un rigurgito di ovatta che si sforzò di contenere.

«Questo. Mi dispiace, non ho saputo fare di meglio.»

«Dove hai trovato questa corda?»

La reazione istintiva che Camilla ebbe una volta l’utensile finì fra le sue mani fu quella di tirarne varie sezioni per testarne la resistenza: provò più volte e non si ruppe. In seguitò tentò di analizzare la composizione delle singole fibre, arrangiate in una treccia abbastanza stretta, poco flessibile.

«L’ho fatta.»

«Con cosa?»

Lo sguardo della ragazzina cadde verso il basso, a destra e a sinistra, senza puntare a qualcosa di specifico però. Per quanto le dispiacesse vedere la sua metodica ed arguta leader in difficoltà per via del proprio essere restia ad aprirsi, non le offrì alcun indizio. Voleva che Camilla capisse nella sua maniera solita, come per magia, come se non fosse cambiata di una virgola la Iris che tanto la adorava e l’ammirava e non poteva fare niente se non era per il suo intervento miracoloso.

«Oh. Ho capito. – lanciò uno sguardo verso il suo di letto – Puoi avere le mie per stanotte.»

«No, sto bene così. Tanto fa troppo caldo per dormire con le coperte.»

In effetti, la superficie del materasso spoglio e del cuscino senza federa le ricordarono un deserto ghiacciato, in mezzo al quale stava la sua compagna, chissà quante volte si era persa fra tutta quella solitudine, oppure un mare bianco, piatto e senza onde, senza appigli o punti di riparo.

Si ricordò di una confessione, Iris odiava il freddo. L’aveva messa giù sul ridere, aveva fatto passi da gigante con l’autoironia dall’inizio di giugno, ma dopo aver scoperto che la sua nemica era specializzata nel Tipo in grado di spazzare via i suoi amati Draghi, il tutto aveva preso una nota cupa.

Aveva scelto lei di fare tutto ciò, ma le faceva comunque pena, anche effetti collaterali tanto minuscoli la impressionavano. Sì rimproverò di essere troppo empatica.

Rimase a corto di commenti per un bel pezzo. Anche si fosse complimentata per le sue doti manuali, era certa che la compagna avrebbe voltato il capo e le sarebbe scivolato tutto addosso, senza farle alcuna differenza.

Onestamente, lei non ci sarebbe mai riuscita a fabbricare una corda lunga quanto il doppio dell’arcata delle proprie membra in circa due-tre ore, al buio, in un silenzio autoimposto, come l’eroina della fiaba che tessé la veste di ortiche. Rimpianse di non aver domandato nel dettaglio a Nardo in riguardo ai fatti accaduti previ alla competizione che riguardassero Iris; questo perché lei aveva sviato ogni suo interesse nell’onsen, non sapeva se per vergogna o per schiettezza.

Ecco come s’era ingegnata, tornando un po’ indietro con i fatti: legato l’angolo della coperta maleodorante alla testiera in acciaio, aveva affettato in lunghe striscioline, simili alle shide per purificarsi nei santuari, usando uno dei cocci taglienti rinvenuti dopo il loro sfogo piuttosto immaturo.

Piccoli segmenti rossi infatti affioravano fra quelle dita sottilissime, ma di infilarle nell’acqua salata per farli cicatrizzare non ci pensava nemmeno.

Aveva seguito una serpentina, in modo da non sprecare un solo centimetro della stoffa: un taglio orizzontale da destra e uno da sinistra, senza mai strapparla in due. Non aveva disponibile neanche un gesso o una matita per segnarsi dove era arrivata, aveva riservato fin troppa concentrazione ad un lavoro tanto manuale ed in apparenza da sempliciotta.

Solo alla fine la ragazzina realizzò che perfino il suo leggiadro peso non avrebbe retto con uno strato soltanto, allora ne aveva aggiunti tirando le tre estremità per serrare i nodi, ottenendo la larghezza del suo braccio.

Improvvisamente ricordò la battuta della recluta sul fatto che con quella corda robusta una si sarebbe potuta impiccare senza problemi; le vennero i brividi, si pentì di aver sprecato ore di sonno in cambio di sguardi confusi e in parvenza rammaricati da parte della Campionessa di Sinnoh, la quale finalmente smise di giocherellare con il suo manufatto.

«Queste fibre rosa, a fiori verdi e gialli, dove le hai trovate?» Chiese, sollevando gli angoli della bocca in un sorriso.

«Eh… - mormorò, grattandosi l’attaccatura dei capelli, la donna colpiva sempre la testa del chiodo con le sue domande impertinenti – dovevo aggiungere altro spessore e avendo finito i teli…»

Un bollore le intiepidì le guance, si strinse forte ai propri palmi. Gli occhi nocciola della ragazzina fissavano la mano della Campionessa con lo stesso shock di un ragno che si arrampicava sul suo collo, eppure quel tocco delicato lungo le spalle accaldate le diede l’impressione che la propria pelle si stesse sciogliendo, risucchiando i polpastrelli della Campionessa all’interno di essa.

Non aveva mai detto a Camilla di smetterla con tutte quelle dimostrazioni corporali di affetto, perché cominciare ora, si chiese.

Quando la sentì scendere un po’ verso il basso, prendendosi più libertà di tastare la zona sotto alla clavicola ed adiacente allo sterno, il corpo che tanto biasimava poiché fermo ancora ad una fase bambina, puerile ed incompleto, si stupì di quanto risultasse sensibile: con movimenti più veloci aveva già esplorato metà superiore del seno sinistro, Camilla ritrasse la mano e finalmente i loro occhi si rincontrarono.

Alla leader, come aveva previsto, veniva da ridere. La assecondò, quindi.

«Solo il reggiseno, o anche… sotto?»

«Uh… Tutti e due.»

«Se ti dessi una mano anch’io?»

«C-Camilla, no, tranquilla, non devi! - Il senso di disagio riecheggiava intensamente, finì per rompere il sussurro – N-Nel senso… io posso, tu… no?»

«Perché “no”?»

«Te lo devo spiegare io?! Peggio della volta dell’onsen… Allora, in teoria se tu hai…»

«Io ho…? Vai avanti.»

«…No, vabbè, niente. Girati, te lo sgancio io.»

Mentre scostava la chioma bionda dalla cerniera dell’uniforme arancione, Iris capì finalmente che forse passare un decennio e un lustro a confrontare le proprie misure con quelle delle altre ragazze l’aveva leggermente distaccata dalla realtà: magari le sue coetanee le avevano mentito, non avevano voglia di correre e saltare e distendersi a pancia in giù ed usavano la mole del seno come giustificazione. Così doveva essere.

Però prima di allora non aveva incontrato una femmina con un rapporto busto-vita grande come quello di Camilla, non poteva parlare di qualcosa che non poteva immaginare neppure lontanamente. Ancora una volta la Campionessa aveva l’ultima parola su faccende anche fin troppo mondane.

Trovò inoltre un miracolo della tecnica il fatto che gli indumenti per adulti aggirassero i problemi dovuti alla crescita del corpo che la propria, a detto suo, inconcepibile coppa B non si poneva nemmeno: le spalline si potevano staccare.

Si convinse che le donne adulte fossero in realtà soltanto pigre e non fisicamente impedite.

«Adesso sono stanca però… Se te lo tieni un altro giorno e me lo dai domani, che mi rimetto a lavorare?»

Non agguantò i ganci se non appena Camilla le diede riscontro. Allora non esitò a staccarli dall’ultima asola.

«Se domani non ci vediamo…» La voce di lei appariva disconnessa.

Iris moriva dal bisogno di accarezzare la nuca bianca, di sfiorarle le vertebre come i tasti di un pianoforte in avorio. Ma aveva paura di avere le mani gelate e che a causa del caldo detestasse le sue manie sciocche, non le avrebbe trasmesso nulla, non avrebbe saputo motivarla o confortarla.

Come fosse un’estensione del suo corpo, si mise a fissare il reggiseno nero (possibile avessero una selezione tanto misera nei colori, le sue compagne più grandi? Poteva giurare a se stessa che a parte quello bianco di Anemone e i pezzi da duecento Pokédollari di Catlina non aveva visto altri colori indosso a loro).

Attenta a non venire guardata, si passò la coppa fra il pollice e l’indice: gli diede addirittura un colpo con le nocche, neanche fosse una corazza d’acciaio; Camilla aveva sottovalutato il supporto che offriva. Si appuntò in mente di rimuovere l’imbottitura prima di procedere con il taglio, per poi infilarla nelle intercapedini della corda.

Fu però un altro dato sensoriale a rapire la sua immaginazione dalla cella buia e dalla disperazione dei momenti precedenti.

«Oh, ma… profuma stranissimo. Sa da un misto di deodorante, pelle e… boh, ha un odore forte. Non fa schifo, ma non è né dolce, né chimico… Come dire, “essenza di donna”? Essenza di Camilla?»

«Ti può essere utile, allora?»

Iris alzò di scatto il capo, per non farsi catturare con il naso infilato nell’intimo della compagna, nonostante avesse solo il mento basso, Camilla continuò a scendere verso il proprio letto con molta attenzione ad appoggiare i piedi solo sul ferro e non sul materasso scricchiolante.

«Sì… è meglio di come pensavo.»

Farfugliò, cercando di osservare l’oggetto al di fuori del contesto, pesando a tutti i modi per sfruttarlo al meglio, neanche fosse uno Strumento per la lotta.

«Per fortuna. Adesso ti lascio dormire, okay? Buonanotte, Iris.»

«Buonanotte, Camilla.»

Il sonno non le avrebbe portato via le sue compagne e, se non dopo ore dal risveglio, l’odio, le cattiverie e le frustrazioni di quel dì non sarebbero stati loro abbastanza chiari. Prima la separazione, dopo la riunione, aveva deciso il Team Plasma per arrecargli danno: e mentre lei vagava nel caos, il suo legame con Camilla si era rafforzato.

Come poteva avere senso, tutto ciò? Volle darsi da fare con la corda ancora un po’.

Ma quel reggiseno non era affatto flessibile come i suoi, non si riusciva a tagliare subito: brandendo il suo machete improvvisato, scorticò l’orlo inferiore per tutta la lunghezza, come se stesse aprendo il ventre di un grosso pesce per rimuoverne le interiora.

Dentro il pesce, ci trovò metaforicamente un anello d’oro.

«Woah, che grossi… con questi ferretti ci puoi strozzare una persona.»

 

 «Quindi domani vuoi andare tu al processo?»

«Non c’è altra scelta. Dopotutto, la leader dovrebbe sempre essere la prima a sacrificarsi per il bene delle sue apprendiste.»

«Com’è che farti un massaggio dovrebbe contribuire al mio bene?»

«Hai quasi staccato un seno a Camelia. Direi che te lo sei guadagnato, questo privilegio.»

«Ah, giusto! Domani, prima che si svegli le rovescio l’acqua salata sugli occhi, poi le taglio le tette con il mio nuovo bellissimo taglierino!»

«Iris!»

«Va bene, non lo faccio... Che schiena rigida che hai, hai tutti i muscoli delle spalle duri…»

«Vero? Credo sia una condizione genetica ereditaria, o la postura quando leggo, ce l’ho fin dalle elementari: dici siano delle cervicali? Me lo chiedo da un po’…»

«…no?»

«No? Pensi sia il clima? O una questione d’umore? Sai, magari è una di quelle cose che si risolve con gli impacchi caldi e la meditazione zen…»

«Camilla, posso riavere il mio bel taglierino affilato?
Sento il fortissi-missi-missimo bisogno di tagliarmici la pancia e pugnalarmi nello stomaco.»

«…tutto okay?»

«Tranquilla, è normale, faccio questi pensieri da un mese e mezzo!
Comunque non sono una psicopatica.»

 

Behind the Summery Scenery #20

1. Sono poco fiera di questo mio traguardo... l'intervallo di tempo fra il capitolo prima e la pubblicazione di questo capitolo è il più lungo di tutta la storia: sono passati ben un anno e circa 6 mesi, il TRIPLO di quanto normalmente mi ci vuole per scrivere + editare + pubblicarne uno. Chiedo scusa in stile booty guru apology, anche se la mia 
cancellazione è imminente e perderò lettori  comunque.

2. Il titolo di questo capitolo: una ripresa di una delle mie serie preferite "Una serie di sfortunati eventi". Ho usato nel titolo la tecnica dell'alliterazione, anche il tono generale del captolo è paradossale, cinico e no-sense, mi sono proprio calata nei panni di Lemony Snicket, LEMOMO SNICKET.

3. Domanda che sono sicura esiste: ma le reclute di basso rango del Neo Team Plasma sono tutte uguali? Certo! Massima fedeltà ai giochi. Se ricordate inoltre, nello scorso capitolo, le reclute si chiamano R e Z: questo perché, come la N del principe Harmonia rappresenterebbe l'insieme dei numeri naturali, Z è quello degli interi relativi ed R quello dei numeri reali. Le altre reclute come si chiamano? Esattamente coe le 26 lettere dell'alfabeto o come i simboli unicode. Sì questo vuol dire che esiste una recluta L, che però noi non vedremo mai .

4. Ebbene, cosa mi qualifica per scrivere di processi, accuse, codice penale e cose varie? Ho un papà avvocato (con cui denuncerò per diffamazione tutti i miei haters) a cui non farei leggere starobba neanche per sbaglio. Inoltre ho già procurato un bella delusione alla famiglia non andando a studiare giurisprudenza, eheh. Quindi mi sono informta usando un misto della legislazione americana e italiana perché tanto Unima non esiste. Al solito, segnalate errori kudasai.

5. Acromio ha finalmente detto la battuta memosa! In realtà non l'ha detta come la volevamo tutti, ma sono già in ritardo di sei anni con questa meme, che altro potrebbe umiliarmi di più?

6.  Esiste un punto del testo in cui mi sono letteralmente quasi arresa, ho avuto un crollo ed un burnout temporaneo ma doloroso, in cui ho letteralmente dumpato nel testo seria frustrazione e che non ho cancellato tuttavia. Nella stub originale il punto era marcato da un "I HAVE GIVEN UP, Alexa play God knows I tried by Lana del Rey", quindi ero proprio sul fondo del barile di liquami in cui mi immergo a capofitto ogni volta che scrivo. Trovatelo e ridete di me, come fate sempre. 

7. Questo non è un vero punto da BTSS, ma un esperimento che volevo fare per pura curiosità: siamo nel mese del pride month, in cui voi altri, disgustosi froci che non siete altro, andate in piazza a gridare quanto vi piaccia scopare (non siete mica come gli altri/e ragazzi/e, eh!) e che volete i diritty tm. Quindi, mi sono detta di fare qualcosa a tema identity politics. 

Giochiamo alle oppression olympics! Whooo! Magari nessuna delle nostre ragazze diventerà Campionessa, ma si consolerà con il premio "sfiga 2019"! Ovviamente terrò conto del canon di ESG e di quello che io come autrice so (e voi no, eheh). Ecco qui il nostro test.

Iris: 59/100

Camelia: 56/100

Anemone: 58/100 

Catlina: 63/100 (???)

Camilla: 57

Acciderboli! Ma come è possibile che una ragazza bianca eterosessuale fino a i/3 della storia e pure troia sia la meno privilegiata del gruppo??? N-Non ditemi che questa fantastica fanfiction non è poi così intersezionale, queer e femminista! Ora mi metto a piangere.

8. La fantastica Kuro-san ha fatto questo artwork per celebrare il 4° anniversario di ESG, di cui nemmeno io mi sarei ricordata! Lei è proprio brava, simpatica e paziente. Thanks Kuro, really cool!

A tutti gli amici artisti: se mi mandate le vostre creazoni su @esg_offical_ig per messaggio privato, le metto anche qua, vvb 1000

  
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