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Autore: Old Fashioned    29/11/2019    17 recensioni
Un agente immobiliare sogna di cambiare vita, di vivere la "vita vera", ossia quella dei ricchi. Per concludere un affare, un eccentrico cliente lo invita al casinò e il nostro assapora per una sera la vita che ha sempre sognato. Il gioco d'azzardo, altra cosa di cui in quell'occasione ha un assaggio, gli sembra il modo più semplice per guadagnare più soldi e quindi fare finalmente il famoso salto di qualità che da tanto tempo sogna.
Peccato che il gioco d'azzardo possa trasformarsi in una malattia incontrollabile e distruttiva...
(per scrivere questa storia mi sono addirittura infilato in un aggiornamento per operatori Ser.T. sul gioco d'azzardo patologico, quindi ciò che scrivo è assolutamente realistico).
La storia è stata ispirata dal contest indetto da Soul Shine "Sitting in my room, with a needle in my hand". Ringrazio moltissimo Soul per l'idea.
Genere: Angst, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Gente mia,
l’ennesimo mappazzone giunge a compimento, con un capitolo che già di per sé è a rischio di essere un po’ mappazzone…
Grazie a tutti coloro che mi hanno seguito, mi hanno messo in qualche lista o addirittura mi hanno lasciato un commento, e grazie a Soul per l’ispirazione!






Capitolo 3

Rizzelli bussò alla porta dell’ingegner Losi.
Avanti!” provenne dall’interno.
Egli aprì ed entrò nello studio del titolare della Diamond House. “Buona sena, ingegnere,” esordì, “avrei bisogno di un paio d’ore di permesso stasera.”
L’altro, un uomo basso, brizzolato, con gli occhiali cerchiati d’oro, lo fissò critico da dietro l’ampia scrivania e rispose: “Ultimamente ne ha presi parecchi di permessi, dottor Rizzelli.”
Lo so,” rispose il primo, “mi rendo conto. Ma vede, mia moglie non sta tanto bene ultimamente, ci tengo ad accompagnarla alle visite.”
Losi sollevò colpito le sopracciglia. “Non sta bene? Che cos’ha, se posso chiedere?”
Rizzelli si strinse nelle spalle e abbassando appena la voce rispose: “Laura non lo sa ancora, ingegnere, ma i medici temono una brutta malattia del sangue.”
L’altro lo fissò serio. “Mi dispiace molto,” gli rispose. “In tal caso vada, vada pure. E mi tenga informato.”
Certo, ingegnere, non mancherò. Grazie per la sua comprensione.”
Rizzelli uscì dall’ufficio del titolare, ben attento a mantenere l’espressione di circostanza. Indossò il soprabito e raggiunse velocemente la macchina.
Mentre guidava rapido nel traffico si congratulò con se stesso per la naturalezza con cui aveva raccontato al suo capo la balla della malattia di Laura, ma soprattutto per l’idea che aveva escogitato: non c’era bisogno di aspettare le vincite al gioco per ricostruire il capitale delle ragazze, sarebbe stato sufficiente chiedere un prestito dando la casa come garanzia.
Di finanziarie del resto ne conosceva parecchie, visto il mestiere che faceva. Scelse la Easy Fin, che come da nome era di solito rapida nell’elargire i soldi e faceva poche domande.

La faccenda fu più rapida del previsto ed egli uscì dai locali della Easy Fin mezz’ora dopo esserci entrato, più ricco di centocinquantamila euro. Giusto il tempo di fare le pratiche bancarie – un paio di giorni al massimo – poi il conto per Chiara e Serena si sarebbe presentato intonso, come se nessuno l’avesse mai toccato.
Era ancora in quello spensierato stato d’animo quando giunse a casa.
La prima cosa che lo colpì fu che non si sentiva alcun odore di mangiare, nemmeno quella pizzaiola disgustosa che sembrava piacere tanto a sua moglie. Ovunque c’era un silenzio cupo, reso più greve dal fatto che l’unica luce accesa era quella sul tavolo della cucina.
Fu assalito dalla paura che fosse successo qualcosa di brutto, magari a Chiara o Serena.
Amore?” disse in tono esitante. “Amore, sono a casa.”
Non gli giunse risposta.
Amore, dove sei? Va tutto bene?”
Arrivò alla cucina, guardò dentro. Sua moglie era seduta al tavolo e teneva lo sguardo fisso davanti a sé. La luce che proveniva dall’alto induriva i suoi lineamenti dolci rendendoli simili a una maschera tragica.
Rizzelli si immobilizzò sulla porta. “Gesù, Laura, ma cos’è successo?” le chiese, aspettandosi di sentirsi dire che una delle loro figlie era morta o gravissima in ospedale.
La donna si voltò lentamente verso di lui, ed egli vide che aveva gli occhi rossi di pianto. “Dimmelo tu, cosa sta succedendo,” gli disse in un sibilo roco.
Egli fece addirittura un passo indietro, turbato da quella strana messinscena. “Che intendi dire?” le chiese.
Per tutta risposta, Laura buttò sul tavolo una manciata di cenere, che si sparse sul piano lucido del mobile. “Cos’è questa roba?” chiese la donna.
Rizzelli si avvicinò. Aveva riconosciuto da lontano i gratta e vinci bruciati, tuttavia fissò i frustuli anneriti, poi fissò lei con l’aria di non capire e propose: “Della carta bruciata?”
Da dove viene?”
In che senso, scusa?”
Cos'hai bruciato?”
Rizzelli alzò le spalle con aria noncurante. “Mi sono liberato di alcune vecchie fatture.”
E di qualche gratta e vinci, dico bene?”
Egli sorrise. “Sì, un paio.” Poi, dopo una pausa, in tono vagamente complice: “Uno ci prova sempre, no?”
A quel punto, Laura si alzò in piedi. Con una manata sparse ovunque la cenere “Non dire stronzate!” lo gelò.
Cosa?”
Non dire stronzate,” ripeté la donna in tono minacciosamente basso. “Ho visto quello che hai fatto, nel conto delle ragazze non c’è più niente!”
Rizzelli dovette farsi forza per non sobbalzare. Una sferzata di adrenalina gli attraversò tutto il corpo, sentì le guance andargli a fuoco. “Ma cosa stai dicendo?” sbottò.
Il conto di Chiara e Serena, mi capisci quando parlo? È vuoto, ci saranno al massimo duecento euro, e ce n’erano centoventimila!”
Com’è possibile?” tentò l'uomo, indietreggiando come per sfuggire allo sguardo di fuoco della moglie.
Dimmelo tu, com’è possibile. I prelievi li hai fatti tu!”
L’altro si erse piccato. “Pensi sul serio che potrei fare una cosa del genere?”
Laura strinse le labbra, poi in tono duro replicò: “Non lo penso, lo so! Sei tu che hai spostato tutti quei soldi sul tuo conto, sei tu che giochi on line tutta la notte e che ti compri dei quintali di gratta e vinci!”
Non è vero!”
Oh, sì che è vero!” A ogni replica Laura si avvicinava di un passo, tanto che a un certo punto Rizzelli si chiese cos’avrebbe dovuto fare se lei avesse cercato di colpirlo. Immaginò Carabinieri, avvocati, soldi da pagare, e a lui i soldi servivano.
Si fece indietro per mantenere la distanza di sicurezza e disse: “Chi ti ha raccontato queste cazzate? Quelli della banca?”
In un moto di stizza, Laura afferrò una ciotola di vetro con dentro un pot pourri e la lanciò contro la parete, dove esplose in una miriade di frammenti. “Pensi che sia scema?” urlò. “In quel conto ci possiamo entrare solo io e te, e io non sono stata!”
Beh, nemmeno io!”
E allora chi è stato, il gatto?”
Saranno stati dei pirati informatici, se ne sentono un sacco al giorno d'oggi,” disse Rizzelli, congratulandosi con se stesso per la trovata.
L'espressione di Laura rimase impenetrabile. “Con il tuo account?”
Certo! Come pensi che facciano a vuotare i conti? Mi avranno rubato in qualche modo le credenziali informatiche.”
A quelle parole seguì un lungo silenzio. Il cane dei vicini abbaiava fioco in lontananza, lungo la strada passò una macchina. Nella luce cruda dell'unica lampada accesa, Laura era immobile come una statua.
Tu devi farti curare,” disse infine. “Tu sei malato.”
Io sto benissimo,” protestò Rizzelli.
Sei un ludopatico! Domani andiamo al Ser.T., devi andare da qualche parte, in una comunità o dove ti pare, ma devi guarire da questa cosa.”
Sto benissimo,” ripeté Rizzelli, “non sono mai stato meglio in vita mia. A differenza tua, io voglio la vita vera, voglio i soldi, voglio le macchine! Perché devo accontentarmi di questo?” Fece un gesto circolare con la mano, indicando sprezzante ciò che lo circondava.
Accontentarti? Hai una moglie che ti vuole bene, due figlie bellissime, un lavoro, una casa… ripigliati, Alessandro: è questa la vita vera!”
Questo lo chiamo esistere. È quello che fanno gli animali: figliare, procacciarsi il cibo e un rifugio, crepare, fine. Non fa per me.”
E cosa sarebbe quello che fa per te, sentiamo? Le Ferrari? Gli yacht?”
Certo, se posso averli! E comunque, ti stai facendo mille paranoie per un problema che non esiste, perché al massimo dopodomani il tuo conticino avrà di nuovo tutti i suoi soldini, va bene?”
Allora ammetti di averli presi tu?”
Rizzelli aprì la bocca per ribattere, ma l'unica cosa che riuscì a dire fu: “Ora esco, mi hai rotto i coglioni.”
Le girò bruscamente le spalle, raccolse le chiavi della macchina e uscì.

Sapeva di una sala che stava aperta fino a tardi. Fino a quel momento l’aveva evitata perché si diceva che non fosse proprio del tutto legale, ma a quel punto della legalità gliene fregava meno di zero.
Quella specie di stronza moralista, pensava irritato. Si fosse fatta i cazzi suoi.
E invece no! Invadente, impicciona come tutte le donne. Affetta dalla perversa mania di voler controllare qualsiasi cosa.
Se a lei andava bene vivacchiare in quel modo, con una casettina, una macchinina e un lavorino per tirare avanti, lui di sicuro aveva altre aspirazioni, e non si sarebbe fatto mettere i bastoni fra le ruote da una che passava le giornate a leggere riviste di moda in un negozio che in pratica costava più di quello che rendeva.
Parcheggiò con gran stridore di freni davanti al primo bancomat che incontrò, scese, infilò la tessera nell’apparecchio e prelevò un migliaio di euro, quindi raggiunse la sala giochi.
Individuò subito una VLT, il fluido gli percorse le membra come una sferzata calda.
Si sedette, alla terza giocata aveva già vinto trecento euro.
Alla faccia tua, stronza,” ringhiò.
Continuò a giocare. Le banconote entravano nella macchina una dopo l’altra, ma di pari passo il montepremi lievitava. Toccò la cifra di diecimila euro.
Squillò il telefono, Rizzelli diede uno sguardo al display, riconobbe il numero della moglie e lo ignorò.
Continuò a giocare, il montepremi lievitò fino a dodicimila euro. Intanto si era radunata intorno a lui una piccola folla, che lo incitava con grida e acclamazioni ogni volta che lui premeva il pulsante ‘Play’.
Perse mille euro, tra i mormorii sconcertati degli astanti, ne riguadagnò altri duecento, ne perse settecento.
Tutte le volte che toccava il pulsante, era come se una scossa elettrica gli percorresse tutto il corpo. Si sentiva potente, si sentiva vivo. A ogni vincita era come se qualcosa lo sparasse in cielo, a ogni perdita precipitava verso il basso, poi si riprendeva, tornava su, poi ancora giù, poi su…
Era ebbrezza, era adrenalina pura. Era meglio di qualsiasi altra cosa.
A un certo punto realizzò che tutt’intorno a lui c’era silenzio. Sbatté gli occhi, scosse la testa come per schiarirsela. Il montepremi era duecento e qualcosa euro.
Si portò una mano al nodo della cravatta, solo per trovarlo allentato e floscio. Aveva la camicia mezza aperta e sgualcita, non aveva più la giacca. Nel portafoglio non c’era più un soldo.
Raccolse il cellulare e vide innanzitutto che erano le otto di mattina, e poi che c’erano almeno dieci telefonate di sua moglie, più altre cinque di suo fratello Fabio e qualcuna di qualche numero che non riconosceva.
Un altro po’ e chiamava anche l’Esercito, ‘sta stronza,” borbottò.

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Quando rientrò a casa, verso le dieci di sera, si accorse che Laura lo stava di nuovo aspettando seduta al tavolo della cucina.
Soffocò un'imprecazione: dopo la sala giochi era andato direttamente a lavorare per non trovarsela addosso, poi era uscito ed era andato di nuovo nella sala giochi della sera prima, che gli pareva fortunata, ma a un certo punto aveva dovuto far ritorno a casa, anche solo per farsi una doccia.
E lei era lì, immobile come una cazzo di sfinge, pronta a fargli la sua morale da zia acida.
Hai giocato anche oggi?” gli chiese non appena mise piede in cucina.
Rizzelli aggrottò le sopracciglia. “Non sono affari tuoi.”
Laura scosse la testa e replicò: “Lo sono eccome. Hai usato tutti i soldi di Chiara e Serena, non te ne frega proprio niente di loro?”
Ma che discorsi,” sbottò lui, “certo che me ne frega.”
Non si direbbe.”
Non cominciare con le tue frasi rivendicative del cazzo, Laura!”
A quell'esplosione, la donna rimase impassibile. “Dammi il bancomat,” disse.
Cosa?”
Il bancomat e le carte di credito, hai già fatto abbastanza danni. E domani andiamo al Ser.T. a parlare.”
Ma figurarsi se vado in quel posto pieno di drogati e ubriaconi. Io sto benissimo, non ho nessun problema, e se tu ieri mi avessi lasciato parlare, invece di fare le tue scenate isteriche, ti avrei spiegato che è tutto sotto controllo, che ti sei fatta prendere dalla paranoia per niente.”
Di nuovo, Laura rimase gelida. “Che intendi dire?”
Che entro breve sul conto ci saranno di nuovo tutti i tuoi cari soldini, tesoro. Che non dovrai più preoccuparti che questo cattivone brutto rubi i risparmi per Chiara e Serena.”
La donna emise un sospiro infastidito e replicò: “Smetti di fare il bambino, sono cose serie. Tu devi darmi il bancomat e le carte.”
Rizzelli fece addirittura una breve risata. “Ma non esiste proprio. Non hai nessun diritto di portarmeli via, se ci provi vado dai Carabinieri.”
E io ci vado e dico che hai vuotato il conto delle ragazze.”
Cioè, fammi capire,” replicò lui in tono sarcastico. “Mi denunci perché ho speso i miei soldi, che si trovavano su un conto intestato a me?”
Ma io non lo sapevo!”
Dimostralo.”

I soldi della Easy Fin arrivarono due giorni dopo. Rizzelli prese le carte che li accompagnavano e con noncuranza le firmò, quindi le portò a casa e le ficcò in un cassetto.
Laura non c’era. O, se c’era, non si faceva vedere.
Sarai contenta, adesso,” ringhiò. Guardò in su, dal momento che verosimilmente sua moglie era in mansarda a fare qualche cazzata da donne, e alzò in quella direzione il dito medio.
Andò in taverna, estrasse un pacchetto di sigarette dalla sua riserva segreta, si stravaccò sul divano e per un po’ rimase a fumare in silenzio.
Quando la sigaretta finì, schiacciò il mozzicone in un portacenere già straripante e se ne accese un’altra.
Alla terza sigaretta, si voltò verso il computer.
Sul suo conto adesso c’erano un sacco di soldi, molti più di quelli che aveva prelevato dal conto per gli studi delle figlie. Che male ci sarebbe stato a giocarsene un po’? Si sarebbe solo rifatto delle recenti perdite, tutto lì.
Fece le cose per bene: rimise sul conto delle figlie tutto quello che aveva prelevato, e stabilì che quella cifra era sacra e inviolabile. Le ragazze dovevano andare in America, quelli erano soldi loro, non si potevano toccare.
Il resto, però, era suo, quindi poteva farne quello che voleva.

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Rizzelli realizzò che doveva tornare alla Easy Fin, o rivolgersi a un’altra finanziaria. Era successo quello che si era ripromesso di evitare in ogni modo: mille euro qua per una giocatina, mille euro là per coprire un debituccio… Fatto sta che le tasse universitarie delle ragazze stavano per arrivare e sul conto c’era la metà di quello che avrebbe dovuto esserci.
Il che per le tasse sarebbe bastato, ovviamente, ma poi, una volta negli Stati Uniti, Chiara e Serena avrebbero dovuto mantenersi facendo le cameriere nei fast food.
Ma non era un gran problema, in fin dei conti: avrebbe discusso un altro prestito, magari anche a un tasso maggiore di interesse, tanto la casa bastava ampiamente come garanzia per coprire entrambi.
Raccolse il soprabito. Laura ormai lo evitava, discuteva di separazione, minacciava di andare a vivere da sua madre – come se poi quella potesse essere una minaccia – ma ovviamente si guardava bene dal farlo.
Era sempre lì, l’arpia, figurarsi. Aveva mandato via solo le ragazze. Per il loro bene, diceva.
E intanto continuava a volersi appropriare del suo bancomat, continuava a cianciare di cure e di dottori, quando l’unica ammalata lì dentro era lei, che voleva vivere e crepare in una vita miserabile, uguale ogni giorno, scialba e triste.
Uscì, andò alla macchina.
Una giocata e poi alla Easy Fin, si disse.
Salì a bordo e partì.

Al ritorno riconobbe parcheggiata lungo la strada di casa sua la macchina di suo fratello Fabio. Alzò gli occhi al cielo: già aveva perso, quindi era scazzato, in più ci si metteva anche suo fratello.
Che palle,” sospirò.
Per un attimo fu tentato di ingranare nuovamente la marcia e tornare alla sala giochi. Lo trattenne unicamente il fatto che aveva finito il soldi e per quel giorno aveva raggiunto il tetto massimo del bancomat.
Lasciò l’auto nel garage, entrò in casa e subito arricciò il naso: non era l’odore di cucina a infastidirlo – di cucina ormai non se ne faceva più in casa sua – ma il dopobarba di suo fratello, che mai come in quell’occasione lo disgustava.
Gli bastò seguire la scia e trovò lui e sua moglie seduti in cucina, con l’aria da tragedia greca. Al suo arrivo, Fabio alzò la testa a fissarlo e disse: “Laura mi ha detto tutto. Tu devi farti curare, Sandro.”
Non ti ci mettere anche tu,” replicò brusco Rizzelli.
Quanti soldi ti sei giocato?” chiese l’altro. “Scommetto che non lo sai neanche tu.”
Lo so benissimo, invece. Io ci passo la vita a gestire soldi, quindi so contarli molto bene.”
Fabio scosse la testa. “A me pare di no, Sandro.”
Ma piantala col melodramma,” brontolò Rizzelli. “So badare a me stesso. Ho deciso di fare un investimento, e come in tutti gli investimenti, bisogna avere pazienza prima di raccogliere gli utili.”
Quanti utili pensi di poterne ricavare?”
L’altro alzò le spalle. “Quanti ne voglio, basta solo imparare la tecnica di gioco. C’è gente che guadagna venti o trentamila euro al mese.”
Fabio scosse la testa. “Tu non ragioni più, Sandro. Non sai quello che dici.” Fece una pausa, forse in attesa di una risposta che non giunse, poi proseguì: “Domani andiamo tutti insieme al Ser.T., ti accompagno anch’io, e parliamo con un dottore.”
Ci andate voi dal dottore,” replicò per l'ennesima volta Rizzelli. “Io sto benissimo. E poi lo so cosa fanno quelli là: ti ficcano negli ospedali e ti fanno uscire solo quando sei uno zombi. È questo che volete ottenere?”
Intervenne a quel punto Laura: “Non dire idiozie. Noi vogliamo che tu stia bene.”
E non sto bene, adesso? Sentiamo: cos’avrei che non va?”
Dai, Sandro,” s’intromise Fabio. “Non fare il bastian contrario per partito preso. Tu non stai bene, soffri di disturbo da gioco d’azzardo patologico. Devi farti curare, prima di finire rovinato.”
Sai che ti dico? Fatti curare tu. Vacci tu dai medici nazisti, a farti iniettare dei farmaci sperimentali.”
A quel punto Laura disse: “Farmaci sperimentali? Ma ti senti quando parli, Alessandro?”
Ho visto i filmati in internet.”
Che filmati?”
Un mio amico me li ha fatti vedere, mi ha detto tutto. Un mio amico medico.”
Gesù Bambino,” sbottò Fabio. “Ma di chi parli? Tu non hai amici medici.”
E invece sì, su Facebook.”
Laura e Fabio si scambiarono uno sguardo a metà fra l’impotenza e la rabbia. Rizzelli fissò entrambi e in tono provocatorio disse: “Non potete obbligarmi a fare niente, conosco la legge.”
Hai anche un amico avvocato, adesso?” lo provocò il fratello.
Ne ho molti,” replicò Rizzelli in tono di sfida, “quindi se fossi in te starei bene attento a quello che faccio.”
Detto questo, prese la porta e uscì.

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Un’infermiera si affacciò in sala d’aspetto. “La signora Vignali?” chiese.
Laura si alzò in piedi.
Venga, signora,” la invitò la donna. “Il dottor Poli la vede subito.”
La condusse in uno studio dall’arredamento spartano, dove qua e là era stato appeso qualche poster di mostre d’arte per dare una nota di colore.
Il dottor Poli, che si alzò per andarle incontro, non portava il camice, ma solo un tesserino identificativo appuntato al taschino. Era un uomo sulla cinquantina, di altezza media, robusto, dai capelli ancora castano scuro.
Le strinse la mano e la invitò a sedersi.
Per la mezz’ora successiva Laura, a tratti piangendo, a tratti spargendo sulla scrivania fatture ed estratti conto, descrisse la situazione.
Il medico la ascoltò attento, prendendo appunti di quando in quando, spedendo l’infermiera a fare le fotocopie dei documenti più importanti. Infine chiese: “Lei è regolarmente sposata, signora?”
Laura annuì.
Allora deve divorziare.”
La donna, che aveva chinato la testa, la rialzò e fissò stupefatta il suo interlocutore. “Cosa?”
Deve divorziare. E subito, anche. Deve tutelare la sua famiglia, prima che suo marito la distrugga.”
Che intende dire?”
Mi ha detto che suo marito ha acceso due prestiti, giusto? Cos’ha usato come garanzia, secondo lei?”
Laura tacque.
È verosimile che abbia usato la vostra casa, signora?”
Sì, penso di sì,” sospirò lei. “È intestata a lui.”
E le sta pagando le rate? O si gioca anche quelle?”
Di nuovo silenzio.
Lei finisce in mezzo a una strada, signora,” disse in tono duro il dottor Poli. “Lei e le sue figlie.”
Le ragazze stanno da mia madre,” obiettò la donna.
Il medico si limitò a un sospiro di esasperazione. “Il divorzio le garantisce la separazione dei beni, l’assegnazione della casa – non impugnabile dai creditori – e l’assegno di mantenimento.”
Laura scosse la testa e rispose: “Lo so, ma Alessandro è mio marito, non posso abbandonarlo.” Fece una pausa e in tono quasi speranzoso soggiunse: “E poi, sono sicura che con un po’ di forza di volontà e con il suo aiuto, dottore, smetterà di giocare.”
Poli crollà il capo con l’aria di aver già sentito lo stesso discorso decine di volte, poi spiegò: “Il denaro crea meccanismi di dipendenza simili a quelli delle droghe, signora. Attiva i centri del piacere, induce la produzione di dopamina. Suo marito non riuscirà mai a rinunciarvi da solo.”
Ma qui non vuole venire.”
È proprio per questo che le suggerisco di agire per tutelare se stessa e le sue figlie, signora Vignali. Se divorzia, passate da coniugi a conviventi, cambiano tutti gli obblighi legali.”
Lo so, ma non me la sento, dottore.”
Come se non l'avesse nemmeno sentita, imperterrito il medico proseguì: “Contatti un avvocato, faccia partire anche la pratica per l'inabilitazione temporanea.”
Laura lo fissò annichilita. “Inabilitazione? Ma io non posso fargli una cosa del genere.”
Preferisce vederlo diventare un barbone? Preferisce trovarsi lei stessa a vivere con i pacchi della Caritas?”
Io ho un negozio,” protestò Laura, “posso mantenermi.” Non che avesse mai usato la sua boutique in quel senso, ma nella necessità era certa che avrebbe saputo farla fruttare.
Il medico interruppe il filo di quei pensieri rassicuranti “È sicura che suo marito non l'abbia già usato come garanzia per qualche prestito?”
La donna emise un sospiro: no, non ne era affatto sicura. Non era più sicura di niente, per la verità.
Solo pochi mesi prima Alessandro era il marito perfetto, affettuoso e dedito alla famiglia... e ora?
La voce del dottor Poli la richiamò alla realtà: Mi prometta che ci penserà, signora. È l’unico modo che ha per salvare la sua famiglia. E poi tenga conto che tutelare il nucleo significa anche tutelare la persona ammalata.”

Laura arrivò a casa ancora immersa nei suoi pensieri. Durante il viaggio di rientro aveva rimuginato sulle parole del dottor Poli ed era giunta alla conclusione che separarsi o inabilitare Alessandro erano misure troppo drastiche. In pratica l'avrebbe ucciso, l'avrebbe spinto al suicidio. Non poteva fargli una cosa del genere.
Forse quel medico era abituato a gente meno sensibile, oppure a persone con lavori modesti, abituate ad avere pochi soldi.
Cos'avrebbe fatto invece suo marito solo e inabilitato, con un curatore che magari gli dava a malapena di che vivere?
Entrò nell'ingresso, lasciò cadere il soprabito su una sedia e si guardò intorno: ovviamente, l'unica luce accesa – di un colore azzurrato da monitor – proveniva dalle scale della tavernetta.
Andò giù.
Suo marito, impegnato in una partita di videopoker, non alzò nemmeno la testa.
Lei si avvicinò. “Alessandro.”
L'uomo fece come se non avesse neppure sentito.
Alessandro, per favore, dobbiamo parlare.”
Lasciami in pace. Sto guadagnando soldi anche per te.”
Laura strinse i pugni, ma per il resto si obbligò a rimanere immobile. “Dobbiamo parlare,” ripeté.
Oh, che palle!” sbottò a quel punto Rizzelli. “Ecco, sei contenta? Stavo vincendo, ma per colpa tua ho perso la mano.” Spense con fare teatrale il computer, quindi disse: “Avanti, sentiamo: cos'hai da dirmi di così importante?”
Dammi il bancomat e le carte.”
L'uomo scosse la testa. “Te l'ho già detto: scordatelo.”
Alessandro, se non me li dai, io chiedo il divorzio e mi rivolgo a un avvocato per farti inabilitare.” Era decisa a non farlo, naturalmente, ma forse la minaccia l'avrebbe convinto.
L'altro però fece una risata. “Nientemeno! Mi fai inabilitare! E mi vuoi anche chiudere in manicomio, già che ci sei?”
Per favore, dammi il bancomat. È meglio che lo tenga io, per il tuo bene.”
Per il mio bene,” pigolò Rizzelli facendole il verso. “No, cara. Il bancomat è mio e tu non ci metti le grinfie.”
Laura fece un passo avanti. Si protese a prendergli le mani e disse: “Per favore, fallo per Chiara e Serena.”
Le ragazze hanno già i loro soldi.”
Ma stai continuando a giocare, ti mangerai tutto un'altra volta.”
Stavo vincendo, prima che arrivassi tu a rompermi le palle.”
Senza abbandonare le mani del marito, la donna replicò: “E quante volte hai perso, invece? Alessandro, stai distruggendo tutto, le ragazze non avranno più una casa, non potranno andare a studiare in America. È questo che vuoi?”
Rizzelli emise un sospiro. Distolse lo sguardo da quello della moglie, lo fissò sullo schermo nero del computer e rispose: “Io voglio la vita vera.”
Amore, la vita vera è qui, con me e le nostre figlie, nella nostra casa.”
L’uomo sciolse le mani da quelle della moglie, si frugò in tasca, prese il portafoglio e ne trasse il bancomat. Lo buttò sul tavolo. “Tieni. Sarai contenta, adesso.”
Le carte di credito.”
Altre due tessere seguirono la prima.
Grazie, amore. Grazie,” mormorò Laura fra le lacrime, ma Rizzelli non l’ascoltava neanche più, assorto nel calcolare quanto potesse valere la sua macchina al mercato dell’usato.

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L’ingegner Losi fissò l’uomo seduto di fronte alla sua scrivania. Barba di due giorni, camicia spiegazzata. Addirittura una macchia, forse di caffè, sulla cravatta.
Nessuno avrebbe affidato la vendita della propria casa a un tipo del genere.
Eppure ricordava Rizzelli come un uomo elegante, curato, che teneva maniacalmente al proprio aspetto.
Lo ricordava puntuale, soprattutto. Preciso. Uno che a fare bene il suo lavoro ci teneva.
Ultimamente arriva spesso in ritardo, dottor Rizzelli,” gli disse.
L’uomo annuì consapevole e rispose: “Lo so, ingegnere. Ma vede, non ho più la macchina.”
L’altro alzò stupito le sopracciglia. “Come mai?”
Me l’hanno rubata.”
La sua berlina? Quella a cui teneva tanto?”
Rizzelli annuì di nuovo.
Quando gliel’hanno rubata?”
Due settimane fa, direi.”
E i Carabinieri non le hanno ancora fatto sapere niente?”
Con una curiosa apatia, Rizzelli alzò le spalle e rispose: “Dicono che potrebbero averla mandata in qualche paese dell’est.” Tacque e rimase con lo sguardo fisso sul piano della scrivania.
Losi lo fissò perplesso. “Come sta sua moglie?” gli chiese.
Per un attimo l’uomo parve tentennare. “Mia moglie…? Ah, certo, ingegnere. Mi scusi. Sono molto stanco ultimamente.”
Come sta? I medici sono riusciti ad arrivare a una diagnosi?”
Rizzelli si strinse nelle spalle e non rispose.
L’ingegnere ritenne opportuno non insistere. “Prenda un po’ di ferie,” gli suggerì.
Non ce n’è bisogno, ingegnere.”
Rizzelli, non amo i giri di parole,” rispose allora Losi, indurendo appena la voce. “Arriva in ritardo, è trasandato, si dimentica gli appuntamenti. Io sono un uomo comprensivo, capisco quando un mio collaboratore è in difficoltà, ma non tiri troppo la corda. Prenda le ferie e si rimetta a posto, oppure cerchi un altro lavoro.”

Rizzelli si ritrovò nel suo studio. Si passò una mano sul mento ispido, si ravviò i capelli spettinati, poi infilò una mano in taca e ne trasse un mucchietto scintillante. Lo fissò critico, chiedendosi quanto ne avrebbe potuto ricavare in uno di quei posti dove si andava a vendere l’oro per ricavare contanti.
Aveva ripulito la cassaforte. Non c’era molto, Laura aveva la mania di girare agghindata come un albero di Natale anche di prima mattina, ma qualcosa aveva recuperato. Sorrise fra sé e sé al pensiero della faccia che avrebbe fatto sua moglie alla vista del portagioie vuoto.
Goditi il tuo bancomat, stronza, si disse, e poi uscì.

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Scese dall’autobus e per prima cosa buttò in un cestino la multa che gli avevano fatto perché viaggiava senza biglietto.
Lo fece con noncuranza, come si sarebbe disfatto della carta di una caramella, quindi proseguì verso casa con passo svelto.
Ogni tanto si batteva sulla tasca, dove si trovavano numerose banconote arrotolate, come per essere sicuro che ci fossero davvero.
Il colpo grosso.
Era arrivato, finalmente.
Solo poche migliaia di euro, non certo quello che aspettava lui, ma perlomeno era un inizio. Significava che le cose stavano cominciando a girare nel modo giusto. Che aveva capito il sistema.
Palpò di nuovo la tasca, trovandola piena del suo adorabile contenuto. Sorrise fra sé e sé.
Percorse il vialetto, entrò in casa e sentì il rumore di qualcuno che stava piangendo.
Corse in cucina, ma non c’era nessuno. “Laura?” chiamò.
Non ci fu risposta.
Seguendo il suono arrivò in salotto. Lì c’era sua moglie che piangeva contro il petto di suo fratello Fabio. Sul tavolino c’era una lettera aperta, riconobbe il logo della Easy Fin.
Laura, che succede?” chiese, ma aveva già visto parecchie missive di quel genere nella sua carriera e sapeva bene cosa gli avrebbe risposto sua moglie.
Fu Fabio a parlare: “Vi portano via la casa.”
Egli fece per replicare, ma l’altro in tono duro sibilò: “Pezzo di stronzo. Io te l’avevo detto: andiamo dal dottore, devi curarti, devi farti passare il vizio del gioco. Ma tu niente: sto benissimo, siete voi quelli ammalati, guadagnerò un sacco di soldi. Hai visto cos’è successo?”
Rizzelli si batté sulla tasca con rabbia. “Eccoli qui, i vostri soldi!” ribatté. “Ho vinto cinquemila euro, va bene? E questo è solo l’inizio.”
L’inizio, Sandro? Questa è la fine. È la fine, capisci?”
Macché fine, fate il solito melodramma! Riscatterò questa casa del cazzo, se ci tenete tanto, e poi me ne andrò dove si vive veramente!”
Fabio scosse la testa. “Tu non vai da nessuna parte, abbiamo già telefonato all’avvocato per le pratiche dell’inabilitazione. Se non sei capace di fermarti da solo, dovrà provvedere qualcun altro.”
A quelle parole, Rizzelli arretrò di un passo e rimase a fissare alternativamente l’uno e l’altra. “Ah, molto bene,” disse poi in tono sarcastico, “ma pensa un po’ cosa decidono di fare mio fratello e mia moglie, cioè le persone che teoricamente mi dovrebbero amare di più al mondo.”
È per il tuo bene, Alessandro,” balbettò Laura. “Non sei in te, devi fermarti.”
Ma certo, non sono in me. Muori dalla voglia di ficcarmi in qualche ospedale psichiatrico, vero? E intanto ti prendi anche i miei soldi. En plein, come si dice alla roulette.”
Di quali soldi stai parlando?” replicò la donna. Afferrò la lettera, gliela sventolò davanti. “Di quali stramaledetti soldi stai parlando? Non vedi che questi avvoltoi si prendono la nostra casa?”
Sto vincendo forte, la riscatto quando voglio.”
A quel punto intervenne Fabio: “Ma di cosa stiamo parlando? L’avvocato ha preso informazioni: hai acceso due prestiti, il secondo dei quali con un tasso di interesse da usura, e non hai pagato una rata! Ti sei giocato tutto! È ora che qualcuno ti fermi, Sandro, per il tuo bene.”
Rizzelli arretrò ancora. Di nuovo fissò alternativamente l’uno e l’altra. Facce afflitte, di circostanza. Lacrime e buoni propositi.
Corse in corridoio, staccò le chiavi della macchina di Laura dal gancio a cui stavano attaccate e corse in garage.
Fabio tentò di inseguirlo, ma l’unica cosa che poté fare fu saltare bruscamente di lato per non farsi investire.

Rizzelli guidava a tutta velocità, la destinazione era Portorose.
La Fortuna era dalla sua, lo sentiva. Il fluido non era mai stato così intenso. Si vide al tavolo da gioco, la bionda da una parte e la mora dall’altra, a far saltare il banco.
Pensò ai suoi familiari e subito fu assalito dalla rabbia. Stabilì che da quel momento Fabio non sarebbe più stato suo fratello. Di Laura si sarebbero occupati i suoi avvocati, dal momento che presto sarebbe stato in grado di pagarsi i migliori sulla piazza.
E poi finalmente avrebbe vissuto alla grande, come si meritava.
Una selva di luci rosse, qualche lampeggiante blu: cento metri più avanti il traffico era fermo, i veicoli tutti incolonnati. Piantò il piede sul freno.

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Seduta nello studio del medico del reparto di traumatologia, Laura non riusciva a smettere di piangere. Teneva un fazzoletto ormai fradicio stretto fra le dita e continuava incessantemente a tormentarlo.
Mi dispiace, signora,” disse l’uomo. Si tolse gli occhiali dalla sottile montatura d’oro, li appoggiò da una parte.
Non ci sono speranze?” chiese lei.
Il medico sospirò. “Forse col tempo recupererà qualcosa, ma è presto per dirlo. La lesione del midollo è troppo estesa.” Fece una pausa, poi soggiunse: “Farò attivare l’assistenza domiciliare, verrà tutti i giorni un’infermiera.”
La donna alzò su di lui uno sguardo che sembrava chiedere aiuto. “Per… fare cosa?”
L’altro sfogliò la cartella, scorse la lettera di dimissione che a breve le avrebbe consegnato. Tossicchiò. Infine si risolse a dire: “Per l’igiene, il catetere… insomma, tutto ciò di cui un tetraplegico può avere bisogno. L’indirizzo è quello che c’è sui documenti?”
Laura scosse la testa, un altro accesso di pianto la assalì. Singhiozzò per un po’, e alla fine con voce flebile rispose: “No, adesso stiamo in un appartamento che ci ha trovato l’ex collega di mio marito.”
Il paziente dovrà avere una stanza dedicata. Sarà necessario collocarvi il letto ospedaliero, il sollevatore e tutto il necessario.”
Le mie figlie andranno a dormire nella stessa camera.”
Può permettersi una badante, signora?”
Laura si tamponò gli occhi. “Sarà necessaria?”
Temo di sì.”
Faremo il possibile,” rispose la donna. “Io ho un negozio di abbigliamento, mia figlia maggiore lavora con me, la minore sta cercando qualcosa. Un po' ci aiuta anche il fratello di mio marito.” Di nuovo strinse fra le mani il fazzoletto sgualcito, quindi soggiunse: “Magari per un po' può stare Chiara a casa con Alessandro, visto che non ha lavoro.”
Il medico emise un sospiro, quindi suggerì: “Chieda anche l'invalidità e l'accompagnamento, signora.” Spinse verso di lei un foglio su cui erano stampati dei nomi e dei numeri di telefono. “Questo è un patronato gratuito, le faranno tutte le pratiche. Le produrremo un certificato da allegare, intanto le consiglio di chiedere copia della cartella clinica.”
Si interruppe. A ogni parola la signora Vignali sembrava diventare più piccola, più fragile. Il suo sguardo sembrava quello di certi bambini che aveva visto nei documentari sulla guerra in Siria.
Mi dispiace, signora,” ripeté.
Laura si alzò in piedi. Il medico si sentì in dovere di alzarsi a sua volta. Aggirò la scrivania e le prese la mano fra le proprie. “Mi dispiace davvero tanto,” disse per la terza volta. Avrebbe voluto dire altro, ma la situazione di quella donna era un tale dramma che non riusciva a farsi venire in mente niente di meglio.
Laura emise un sospiro e rispose: “Lo so, dottore. Voi avete fatto il possibile, ringrazio tutti.”
Uscì adagio dallo studio. Il medico si affacciò a seguirla con lo sguardo e la vide allontanarsi a testa bassa, con le spalle curve, nel corridoio ormai in penombra.
   
 
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