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Autore: Shakabrah    30/11/2019    0 recensioni
[Pamela si ritrova invasa da pensieri e ricordi lontani che riguardano il proprio passato, e il proprio presente, essi diventano sempre di più ed iniziano a bussare insistentemente fuori dalla sua porta, divenendo troppo pesanti da sostenere semplicemente con la propria mente, così decide di riviverli pienamente e a volte anche dolorosamente...]
Genere: Drammatico, Erotico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Poison Ivy
Note: Lime, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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The Poisoned Diary
___Thoughts___

 

Lo sguardo chino, verso il pavimento.
I miei capelli rosso fuoco che cadevano verso il basso, coprendomi il viso, come rami di un salice che oscurano il suo tronco.
Le gambe piegate, vicino al petto.
Immobilizzata dal bacino in su, in una camicia di forza pallida e usurata.
Era la mia prima notte, la prima di chissà quante altre notti, sono scappata da lì così tante volte che ne ho perso il conto.
C’era un silenzio inquietante in quei corridoi, in quella cella.
Un silenzio che minacciava di rompere i miei timpani, veniva spezzato ritmicamente dalle gocce di pioggia che entravano dalle grate dei corridoi, e da qualche tuono in lontananza.
C’era così tanta umidità che sulla punta del mio naso, sulle guance e sul mento si formavano dei piccoli cristalli d’acqua, che a volte scivolavano giù dal mio viso, e cadevano sulle mie cosce.
Mi forzavo di tenere gli occhi chiusi, a causa del tranquillante iniettatomi qualche ora prima, se li avessi aperti avrei iniziato a vedere la cella girare e girare come se il pavimento mi avesse potuto inghiottire.
Sapevo di non essere sola, a volte riuscivo a sentire il rumore della pelle degli stivali di una guardia che si sistemava sul posto, proprio davanti al portone.
Non riuscivo a parlare, né ad aprire le labbra.
Continuavo a riflettere in ripetizione su dove potessi essere, a come mi ci avessero messo.
Sapevo di essere in isolamento, non mi sarei potuta spiegare altrimenti il silenzio tombale che mi circondava.
Ricordo, la mattina di quello stesso giorno ero stata in piedi, su uno dei tanti palazzi di Gotham, divorato e soffocato dai rampicanti, nell’aria si respirava odore di terrore, di sdegno, si sentivano grida, ruote che sgommavano cigolando sull’asfalto, clacson.
La mia voce invece sovrastava tutti quei rumori, era chiara e forte, forse un pò tremante, era la mia prima volta come volto del crimine a Gotham.
Ero riuscita a mettere ai miei piedi le guardie della centrale di controllo di tutti gli schermi pubblicitari sui palazzi in città.
Ero riuscita a far conoscere a tutta Gotham il mio volto, e le mie richieste.
E se non le avessero accettate, avrei liberato le mie tossine in tutti i quartieri, soffocando e uccidendo lentamente e in modo doloroso chiunque, trascinandoli verso la morte con un’ascesa nella pazzia pura.
Purtroppo però i miei sogni ebbero vita breve, e vennero rotti in mille pezzi da lui.
Lui, vestito di nero, con una corazza sul petto spessa chilometri e chilometri, l’unica parte del suo corpo che era scoperta erano i suoi occhi, capaci di metterti a nudo, di raggelarti.
Così colmi di dolore, di rabbia e di tristezza da contagiarti.
Lui mi aveva afferrata e mi aveva spinta nel buio, risvegliandomi in quella cella, buia e fredda.
Le mie mani desideravano così tanto di stringersi al suo collo, fino a farlo soffocare, le mie mani desideravano così tanto rovinarlo, strappandogli quella corazza spessa, ferendolo dove la pelle era tanto fragile e sottile da farla squarciare solamente sfiorandola.
Gli uomini nella mia vita mi avevano soltanto spinta in ginocchio, togliendomi tutto.
Tirandomi calci allo stomaco fino alla nausea.
Mio padre, il primo, talmente distante da scordarsi di sua figlia, anche se non fu il solo, anche mia madre fece la sua parte.
Due demoni di ghiaccio che pretendevano il massimo da me, sempre.
Non erano mai stati presenti, mettevano prima il lavoro, la casa, il risparmio, i problemi, io ero sempre l’ultima della lista.
Fortunatamente però erano così tanto distanti che non gli importava quale Università avessi potuto frequentare, l’importante era che lo facessi bene, che fossi la migliore, che fossi abbastanza per le loro aspettative.
Vivevo da sola da quando avevo diciannove anni, ho sempre lavorato come cameriera per pagarmi gli studi, e avevo così poco tempo libero che le uniche conoscenze che avevo erano all’interno del campus.
Non che Seattle fosse stata una città interessante e piena di posti in cui conoscere gente.
Avevo una relazione, con un ragazzo dell’università che frequentavo.
Non ricordo esattamente perché mi fossi messa con lui, non era interessante, né brillante, né dolce, aveva solo un gran bel viso, e un bellissimo corpo.
Credo lo usassi come sfogo, nei momenti in cui non avevo voglia di pensare a niente.
L’ultimo anno di università cambiai corso, per laurearmi in biochimica botanica avanzata, avevo iniziato.a concretizzare la mia innata passione per il mondo verde e tutte le sue sfaccettature; fu lì che lo conobbi.
L’uomo che mi portò in alto, al settimo cielo, e poi quando ne ebbe abbastanza mi buttò giù, rovinandomi la vita.
Jason Woodrue, il professore del corso in cui decisi di specializzarmi.
Ci fu subito chimica fra noi due, durante le lezioni mentre spiegava all’aula mi osservava, era come se mi dedicasse tutte le lezioni, alla fine del corso aspettava che tutti uscissero dall’aula e cercava sempre una scusa per tenermi oltre l’orario, mi chiedeva se avessi capito tutto, se avessi dei miei pareri sugli argomenti trattati, chiedeva di me, delle mie giornate, non faceva altro che interessarsi a ciò che pensavo, a come stavo.
Nessun uomo prima di lui si era interessato così a me, a nessuno interessava il mio parere, ed io men che meno ero disposta ad esternarlo.
Mi guardava in un modo che non riesco tutt’ora a descrivere.
Una sera, dopo la fine della lezione mi chiese di prendere un caffè insieme, e di seguirlo in laboratorio, voleva che gli mostrassi di che cosa ero capace, se il corso e la mia passione stavano dando i loro frutti.
Parlammo per ore quella sera, come se ci conoscessimo da sempre; in aula di botanica mi confessò che da qualche settimana ero diventata il suo unico pensiero, il suo unico tormento, che pensava a me costantemente e che mi voleva con se, ma che non poteva farci niente perché se avessero scoperto di un’ipotetico interesse romantico lo avrebbero licenziato sul posto.
Fu quella notte in laboratorio che abbassai la guardia, l’unica volta in cui lo feci, e mi costò tutto.
Passavano le settimane, le notti segrete passate in laboratorio, senza che nessuno ci scoprisse, finché una notte preso dall’impeto del momento, non mi confessò un suo segreto.
Da grande esperto di botanica, stava realizzando un composto chimico che per riuscire doveva essere completato da un elemento, raro, aveva detto che senza quell’ingrediente non sarebbe riuscito a completare la fiala, non mi disse esattamente il motivo per cui gli serviva quel composto chimico, sapevo solo che quell’amarezza che gli leggevo in viso era troppo da sopportare, non volevo che l’unico uomo che ero riuscita ad amare stesse male.
Fu così che mi feci trascinare in quella situazione, in quel piano cosi dettagliatamente pianificato per essere solo un piccolo segreto, una fantasia.
Mi ritrovai in una cosa più grande di me, con un manufatto antico in mano, rubato da un museo di cimeli ritrovati, poco fuori Seattle.
Quando lo ebbe fra le mani ricordo perfettamente che cambiò tutto, passò le notti chiuso in laboratorio, senza di me, lavorando a quel composto senza tregua.
Una sera mi portò a casa sua, la prima e l’unica volta in cui eravamo riusciti a stare insieme senza il pensiero di essere scoperti; e invece tutto quello che successe fu meccanico, gelido.
Non una parola, non una carezza.
Il tempo di bere un bicchiere di vino versato apposta per me, e iniziai a sentire un assurdo bruciore al petto, così forte da non farmi respirare, rantolavo sul bancone in marmo della sua cucina, gli occhi persi ne vuoto, sgranati, la voce mozzata, la mia mano aggrappata alla sua camicia, mentre il suo viso si dipingeva di una smorfia di fastidio e amarezza.
Mentre scivolavo a terra l’unica cosa che riuscivo a percepire erano le sue parole, affilate come coltelli che mi pugnalavano al cuore, svelando che tutto quello che era successo fra di noi era finto, che la sua carriera era troppo importante per sprecarla per una donna come me, una donna che aveva bisogno di un uomo per sopravvivere…
Poi il vuoto.
Pensavo che sarei morta, e che nessuno mi avrebbe trovata.
Magari dentro un cassonetto, o buttata in un fosso, nel lago o nel porto.
E invece no.
I crampi al petto mi svegliarono di colpo, boccheggiavo, finché riuscii di nuovo a respirare.
Ricordo che non appena riaprì gli occhi e li puntai sul pavimento misi a fuoco le mie mani…verdi.
Sentì il mondo girare, senza riuscire neanche a realizzare che ero viva.
Che ero sopravvissuta al veleno che mi aveva dato.
Mi aveva lasciata nella casetta in legno, nel suo giardino, dietro la casa, quella dove teneva tutte le sue provette vuote, c’erano armadi pieni di fiale, di strumenti chimici.
Una volta uscita lo cercai, ma era sparito, la sua stanza era vuota; era scappato.
Probabilmente per evitare che una volta trovato il mio cadavere in casa sua, lo arrestassero.
Trovai la mia borsa e il bicchiere da cui avevo bevuto, ancora con un fondo di vino.
Non riuscì più a capire niente, il panico mi stava divorando, corsi in bagno, ero impietrita davanti allo specchio, le gambe tremavano, le mani pure, gli occhi erano fissi sul mio corpo, verde, disegnato da strisce nere, come fossero in rilievo, portai una mano al viso e capì che nella mia pelle, come fossero scavati c’erano dei germogli, lunghi, come fossero vene esposte, si muovevano lentamente, scavando, disegnando la mia pelle.
Gli occhi erano diventati gialli, e spiccavano talmente tanto che se fossi rimasta al buio sarebbero riusciti a distinguersi.
E’ inutile ripensare a tutto ciò che ne seguì poi.
Una lenta discesa nella pazzia nella tristezza, abbandonai l’università, sparì totalmente, nascondendomi in casa.
Non uscivo mai, continuavo ad ossessionarmi sul perché fossi ancora viva, sul perché il veleno non aveva avuto effetto, finché scoprì che all’interno del vino
era stata spezzettata e sciolta l’erba trovata all’interno del manufatto, non diluita, quindi mortale.
Quando il ragazzo con cui stavo e che non vedevo da ormai settimane morì in un incidente, decisi che fu l’ultima goccia, e che avevo bisogno di scappare via, in una città in cui nessuno mi conosceva, a Gotham.
E l’unico modo per sopravvivere e continuare ad andare avanti era quello di farsi strada nel il crimine.
Gotham era famosa per quello, ed era piena…di persone come me.
Spezzate, infelici, e diverse.
O come venivano chiamate dai cittadini, dei mostri senza scrupoli.

 

Riemergendo dai miei pensieri, mi accorsi di essere completamente sudata, il sedativo aveva fatto in modo che quei pensieri nella mia testa si fossero trasformati quasi in un film, come un breve racconto della mia vita.
Fortunatamente il sedativo terminò il suo effetto, e riacquistai la lucidità in pochi minuti, una volta aperti gli occhi li puntai lentamente sul portone blindato, con uno spazio in cima contenuto da tre grate.
Credo mi avessero messo in quella cella in attesa di creare un fascicolo su di me, sulla mia conformazione fisica, sulle mie capacità, non sentivo dolore da nessuna parte, quindi probabilmente non avevano ancora fatto ricerche fisiche, nessun prelievo ne altro.
Quasi sicuramente mi avevano messa in isolamento, tenuta in camicia di forza in attesa dell’autorizzazione di qualcuno per procedere negli esperimenti psicologici e fisici.
E non avevo intenzione di rimanere ulteriormente in quella cella, non avevo intenzione di passare altre ore stordita da un sedativo, né drogata, ne legata.
Sarei uscita da lì, sfruttando al massimo ciò che le mie capacità mi permettevano di fare.
Avrei fatto conoscere a tutto Arkham e a tutta Gotham cosa volevo, cosa pretendevo.
Avevo deciso di fare le cose in grande, di dare un senso ai miei crimini, sarei diventata uno dei terrori di Gotham, avrei dato il via ad attacchi terroristici. ambientali, avrei piegato l’intera città al volere della natura, ai desideri delle piante, avrei ristabilito un equilibrio, in cui le piante regnano sovrane sull’umanità.
E avrei distrutto il cuore di qualsiasi uomo fosse passato sulla mia strada, soprattutto quello di Batman.
Con lui non avrei avuto nessuna pietà.
Perché lui non ne avrebbe avuta a sua volta verso di me.
E fu così che in pochi istanti il carcere in cui ero detenuta si riempì della mia tossina.
Uccidendo qualsiasi forma di vita al suo interno.
Fu così che su tutti i notiziari del giorno dopo ci fu la mia faccia in primo piano.

Fu così che iniziò tutto...

 
   
 
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