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Autore: Persej Combe    01/12/2019    1 recensioni
Volevo soltanto sapere come stai, se nel frattempo sei riuscita ad alzarti dal letto. Che te ne pare di Kanto? Spero che le cose laggiù da quel Bill vadano bene.
Non mi ricordo, con quale Pokémon avevi detto che si era fuso? ...Ah, sì, ecco. Un Clefairy. Beh, se è così allora immagino che andrete d’accordo...

[Aetherskullshipping]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Guzman, Iridio, Plumeria, Samina
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
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C a p i t o l o   3 :  N o n   p e n s a v o   c h e   u n   u o m o   e   u n a   d o n n a   s o l i . . .
 
 
 
 
 
  Paver se ne era andato in un giorno di maggio. Questo era quanto gli aveva raccontato Ciceria, capo in seconda della Fondazione Æther accanto a quello che aveva scoperto essere Vicio. Guzman si era imbattuto in lei nel momento in cui era scappato dai laboratori, ed ella vedendolo così agitato l’aveva fermato e gli aveva chiesto cosa gli fosse preso, poi l’aveva condotto in quest’area del centro di recupero dove non era mai stato e che doveva trattarsi a tutti gli effetti della residenza personale di Samina: di lei, in ogni caso, non vi era alcuna traccia.
  Una ragazza piuttosto formosa, Ciceria. Guzman era rimasto a osservarla a lungo quando, seduto sul divano del grande salone, gli aveva servito il tè caldo nella tazza. Poi era andata a prendere lo zucchero, e dopo il miele, e insomma per un po’ aveva fatto avanti e indietro tra quella stanza e la cucina, così Guzman ogni volta che la donna se ne andava rimaneva a fissare la porta fino a quando non risbucava fuori, che si sentiva troppo in soggezione ad allungare lo sguardo nella casa di Samina, nelle sue cose – in quei possibili resti del marito e dei figli che ancora le appartenevano. Soprattutto adesso che era venuto a conoscenza dell’intera storia.
  La sua tazza di tè indugiava imbevuta fra le mani, ormai fredda. Non aveva neppure voglia di berne un piccolo sorso, per cortesia, come gli aveva insegnato a fare sua mamma tanti anni prima da piccolo.
  Una ragazza piuttosto formosa, Ciceria. Non era il suo tipo di donna, e tuttavia c’era qualcosa di morbido e accogliente nella sua figura che lo attraeva. Persino la sua voce suonava d’un che di tenero, e nei suoi occhi Guzman percepiva una certa inoppugnabile dolcezza. Come di una madre. Ma di una madre che non abbia mai avuto figli propri. Soltanto di altri.
  «Ora però sarà meglio che tu vada», disse lei ad un tratto, guardando l’orologio «Non vorrei che Samina ti trovasse qui e si arrabbiasse. Sai, ormai oltre a me e Vicio non fa più entrare nessuno... Mi raccomando, non una parola, intesi?».
  Ciceria si era affrettata a restituirgli le sue cose e con passo svelto l’aveva riaccompagnato all’ingresso della villa. Si era rassicurata di nuovo con mille premure, gli aveva spiegato in poche parole come ritrovare la strada verso i quartieri dell’Æther Paradise e infine con un ultimo saluto aveva lasciato intendere che sarebbe stato bene non farsi più rivedere da quelle parti.
  Guzman si calcò il cappuccio nero sulla testa e con un gesto brusco delle dita fece capire alla donna che non c’era bisogno di aggiungere altro. Subito dopo la intimò di aprirgli il portone, e se qualcuno in quel momento gli avesse dato della mezza calzetta a vederlo scappare via a quella maniera, probabilmente non sarebbe nemmeno stato poi così tanto in torto. Però tutti quegli oggetti di Samina che lo circondavano, tutti quei suoi ricordi che adesso non poteva più cancellare dalla mente, tutto quanto nella tensione gli si era ammassato come un peso insostenibile sul petto, e non aveva altro desiderio che quello di liberarsene il più presto possibile, nell’aria uggiosa che si respirava sopra i tetti di Poh, oppure prendendosela con qualche ragazzino malcapitato assestando un paio di colpi insieme a Golisopod.
  «Ecco, ecco! E adesso vai!» incalzò Ciceria, il pomello stretto nelle mani tremanti e sudate mentre si tirava di lato. Guzman rivolse ancora una volta gli occhi alle forme abbondanti di lei e al suo sguardo apprensivo, sempre luminoso di quella sua tenerezza che gli pareva tanto strana. Inforcò le lenti da sole e finalmente uscì per andarsene.
  «Merda».
  Non aveva messo che un solo piede sul primo gradino della scalinata. La pioggia gli offuscava a tratti la vista, e in effetti non è che vedesse già granché con gli occhiali scuri addosso. Eppure, quella figura slanciata che aveva davanti non poteva essere nient’altri che Samina, coi suoi capelli biondi e lunghi, la postura aggraziata del corpo e la veste candida, elegante. Era ancora lontana, ma Guzman distinse chiaramente nelle fattezze del suo viso quell’unico occhio verde che teneva scoperto, e quando lo mise più a fuoco, allora capì di essere stato scoperto. Rabbrividì. Neppure Ciceria osava muoversi.
  Camminava lentamente, come una presenza inquietante che debba da principio insinuarsi a poco a poco prima di manifestarsi nella propria totale atrocità – uno spettro. Samina avanzava, coi piedi leggeri che si adagiavano sull’asfalto bagnato, e non c’era modo di fermarla, né di fuggire. Un ombrellino bianco e rigonfio la riparava dall’acqua, che scivolava in mille gocce lungo la superficie per poi ricadere dalle falde ornate a ricamo.
  Mentre Guzman vi concentrava sopra la propria attenzione, un miraggio lo colse nella furia della tormenta, e le ciocche di Samina che ondeggiavano nel vento sembrarono scomporsi e tramutarsi in tentacoli bianchi e luminescenti. Strabuzzò gli occhi: era di nuovo quella medusa. Con uno scatto violento si tolse le lenti di dosso, ma di fronte a sé non aveva che Samina, soltanto Samina. Restò a scrutarla turbato, poiché era la seconda volta che quella visione lo colpiva, e non poteva più trattarsi soltanto di una coincidenza. Ma che diamine gli prendeva?
  La donna l’aveva ormai raggiunto. Ferma all’inizio della scalinata, lo guardava col viso sollevato. Guzman sentì la presa delle dita allentarsi, e gli occhiali caddero a terra bagnandosi.
  «Direttrice!» esclamò Ciceria, facendosi avanti oltre il portone «Il signor Guzman si era perso, gli ho indicato la strada per tornare indietro... Se ne stava giusto andando».
  Guzman sentì la mano di lei posarsi sulla sua schiena e spingere delicatamente per spronarlo a partire. Rimase sorpreso dalla cura che percepì in quel gesto tanto semplice. Gliene fu riconoscente, così senza farle perdere altro tempo si sbrigò a raccogliere gli occhiali da terra, ma le dita di Samina furono più rapide delle sue. Quando si risollevò, si accorse che la donna lo stava riparando sotto il proprio ombrello.
  Samina gli porse le lenti senza pronunciare parola, ed egli restò altrettanto silenzioso a osservarla. Prese gli occhiali: le loro mani vennero a sfiorarsi per un istante. Guzman si voltò e scese la scalinata a passi spediti senza mai guardarsi indietro, già diretto verso l’ascensore.
  «Te ne vai così, con questa pioggia?» domandò però lei ad un tratto.
  Si fermò. La sua bocca si arcuò in un sorriso divertito, e all’improvviso la strizza lo abbandonò.
  «Tu non ci sei mai entrata a Poh, eh, Samina?» replicò, «Queste in confronto sono appena due gocce».
  «Puoi tornare, se vuoi».
  Guzman a quelle parole esitò. La guardò negli occhi e si sentì di colpo debole, avvinto nella morsa di quel verde ammaliante. Samina si apprestò ad entrare. Lui le rivolse appena un cenno. Se ne andò.
 
 
  Quella mattina Guzman se ne stava come al solito assiso sul suo trono, circondato da una manica di reclute adoranti, pronte a offrigli i propri servigi e le moine e le preghiere più accorate. Scomposto, con le gambe divaricate a occupare l’intero spazio, la schiena robusta abbandonata di peso contro la spalliera imbottita e sfilacciata – di fatto si trattava di una banalissima poltrona, ormai vecchia, saccheggiata anni prima in una casa del circondario durante le invasioni iniziali di Poh, ma era opinione comune che sotto il sedere di Guzman persino la sedia più becera potesse trasformarsi nel trono più sontuoso ed elegante, perciò nessuno ci aveva mai badato tanto –, era intento a schiamazzare con i suoi mentre si faceva baldoria per l’ultimo colpo andato a segno del Team Skull. Qualcuno finalmente gli porse la bottiglia di vino che aveva fin lì reclamato, la stappò, nel richiamare gli altri ne versò una parte a terra, il resto finì nei bicchieri rotti di quelle mani che si allungavano verso di lui a chiederne almeno un sorso.
  «Bevetene tutti!» esclamò, piegandosi poi verso i più piccoletti che si erano avvicinati di nascosto da Plumeria «Anche voi, forza, un dito così non vi farà male».
   All’improvviso dalla porta fecero irruzione due reclute nerborute, di quelle che Guzman aveva messo a guardia dell’ingresso della villa. In mezzo a loro, tenuto stretto per le braccia, stava una terza figura: nel momento in cui egli la riconobbe, dapprima lo assalì un timore sottile, poi, nel notare l’espressione di disagio che campeggiava sopra il suo viso, un ghigno perverso si arricciò sulle sue labbra.
  «Sei capitato male, eh, Viscido? Benvenuto nel regno di Guzman!».
  «Il mio nome è Vicio, di grazia! E ti chiederei cortesemente di liberarmi dalle grinfie di questi due bestioni».
  Detto fatto, bastò uno schioccar di dita che subito Vicio venne abbandonato a terra senza ritegno. Guzman lo guardò divertito pulirsi i vestiti bianchi dalla polvere e dalla sporcizia, poi con un gesto lo esortò a farsi avanti, lasciando da parte la bottiglia.
  «Dimmi, cos’è che ti porta nella mia lussuosa reggia?» chiese.
  «Avrei molto da ridire in merito», ribatté schizzinoso, sistemandosi gli occhiali sopra il naso e spingendo via una recluta ubriaca per farsi strada «Ma la direttrice Samina mi ha inviato qui per consegnarti questa missiva».
  Dalla tasca del camice, Vicio tirò fuori una lettera. Guzman gliela sfilò dalle dita, in trepidante attesa di leggerla. Prima di aprirla, tuttavia, lo afferrò per il colletto e all’orecchio sussurrò: «Hai una bella faccia tosta a sfruttare i bisogni della direttrice come ti fa comodo. Non gli avevi detto niente, vero, del ragazzino e di quell’affare?».
  Vicio sorrise di un sorriso stavolta effettivamente viscido: «È vero, non le dissi niente. Ma non ti pare di esagerare un po’ troppo con queste insinuazioni? Qualcuno potrebbe venire a saperlo e non approvare».
  Guzman si sentì nuovamente aggredito, davanti a sé vide lo spettro di Samina – e accanto a lei quello di Paver, senza volto e senza voce, eppure perfetto nella sua inconsistenza – che guardava con occhi rapiti ogni sua mossa sconsiderata. Vicio aveva il coltello dalla parte del manico, e per quanto lo detestasse, Guzman dovette desistere e abbassarsi al suo gioco. Lo scostò via da sé con uno strattone, egli indietreggiò, ma non lo liberò dalla morsa di quello sguardo velenoso e infido che continuava a rivolgergli. Guzman tacque, subendo la sua influenza.
  Aprì la lettera con una cura che generalmente non gli apparteneva. Trattenendo il foglio gelosamente sul proprio grembo, lesse che Samina lo convocava: era pronta a rivelargli il suo scopo.
 
 
  «Questo è un Ultravarco».
  Guzman guardava con attenzione l’immagine che Samina gli stava mostrando sul monitor. Cercava di addentrarvisi fino in fondo, ma per quanto potesse sforzare gli occhi non c’era modo di indagare oltre quel bianco pallido e vuoto, luminescente di una luce astrale. Era lì, pensava, che si trovava Paver. Si domandò se avrebbe mai avuto il coraggio di fronteggiarlo, un giorno, nel caso in cui ella l’avesse voluto spedire a recuperarlo.
  Samina era intenta a spiegare le specifiche di quel portale, cifre, valori, e tuttavia nell’inflessione della voce non vi era alcun accenno di rimprovero o di superbia. Guzman l’ascoltava cercando di starle dietro, assetato di sapere e desideroso di trovare finalmente un senso al proprio incarico. Di tanto in tanto Samina si fermava, rimaneva pensierosa a riflettere e in quei momenti egli la guardava, osservava in silenzio la sua postura rigida e trattenuta farsi impercettibilmente vulnerabile per il tempo di qualche secondo – quando cioè, probabilmente, le memorie dovevano assalirla di colpo tutte assieme ed ella cercava di porvi un freno. Guzman poteva sentire il suo respiro farsi gravoso, sotto il peso di quelle pressioni che continuamente dovevano assillarla. Non si permise mai di farle domande sulla sua vita privata, ma più perché non intendeva sciupare quella sacra barriera che li separava tenendoli nello stesso tempo alla giusta distanza affinché non sfociassero troppo pericolosamente l’uno nell’altra, piuttosto che per il timore di scatenare in quel modo la sua rabbia.
  Dopo essersi arrestata, poi, Samina ricominciava a parlare, sempre col solito tono basso e serioso. Alle volte si girava verso di Guzman e gli traduceva in parole povere ciò che aveva appena detto, la sua voce si addolciva di un candore materno. Lui gliene era semplicemente grato.
  Insieme a questo lato più tenero, però, Samina sapeva essere anche una donna estremamente orgogliosa e vendicativa. A Guzman era bastato il loro primo incontro per rendersene conto, eppure in lui permaneva con maggior forza quella sua aura amorevole, si calava ogni volta a scoprirne le sfaccettature. Aveva la strana impressione che al solo vederla il suo cuore in qualche modo si ingentilisse, e che la sua stessa persona in qualche modo ne fosse contagiata. Si crogiolava nell’immagine di lei che chinandosi a terra accoglieva sotto il velo di capelli i Corsola e gli Starmie ad offrirgli il proprio amore.
  C’erano spesso dei momenti, di cui egli si era già reso conto, in cui Samina d’improvviso svaniva nei meandri dell’Æther Paradise. Guzman scoprì più tardi che in tali occasioni ella si isolava di propria sponte per potersi rintanare nelle sue stanze, tra i suoi oggetti e tra i suoi ricordi, che ancora manteneva vivi davanti a sé. Accadde un giorno, per caso, che se ne ritrovarono a parlare in mezzo a certi discorsi difficili sull’universo e sul creato, sul destino e sulle stelle. Ad un tratto Samina si era alzata, aveva preso nelle mani una cornice. Oltre il vetro, una fotografia:
  «Mia figlia Lylia».
  Anche lei se ne era andata, e aveva portato via Cosmog con sé.
  Con il passare del tempo, quindi, da semplice socio, Guzman divenne il vero e proprio confidente di Samina. Allora era venuto a sapere, stavolta dalla sua stessa voce, delle vicende dei figli e di come ella avesse comunque modo di controllarli nonostante la lontananza, e, ancora, dell'immenso dolore creato dal vuoto lasciato da Paver. I loro rapporti si mantennero comunque piuttosto formali, nessuno accennò mai ad avanzare di un passo. Almeno fino a quando, una sera, come di consueto, Guzman si recò da lei per aggiornarla sugli ultimi dettagli circa l’avanzamento della missione e Samina lo accolse in casa in vestaglia, col viso stanco e provato.
  Seppure sapesse essere elegante anche in quelle vesti, egli pensò di non averla mai vista così umana prima di allora.
  Entrò timidamente, chiese notizie di Ciceria. Samina rispose che l’aveva già mandata via. Guzman intuì che non dovesse sentirsi bene e che probabilmente fosse caduta un’altra volta nei suoi momenti di solitudine. Allora provò a offrirsi di togliere il disturbo, ma ella lo trattenne: «Resta», gli disse. Guzman restò.
  Samina girava per le stanze a spegnere le luci e a chiudere le finestre, a riordinare ossessivamente e con precisione gli oggetti che erano stati utilizzati quel giorno. Egli la seguì, osservando ogni suo gesto e intanto rispondendo senza sosta alle sue domande – ebbe l’impressione che in quella casa il tempo avesse smesso di scorrere e che tutto permanesse in uno stato di quiete assoluta e intoccabile –; quando però fece per entrare in camera da letto, Guzman esitò a lungo di fronte alla porta. Vide gli occhi di Samina incoraggiarlo a varcare quella soglia, e dentro di lui era un brulicare di amore materno e calore sensuale. Sfiorò con lo sguardo la scollatura morbida della vestaglia che si schiudeva sopra il suo seno. Ancora una volta entrò, attraversò un altro confine la cui rottura lo avvicinava sempre più a lei.
  In un primo momento stette in piedi, misurando l’intera stanza con passi rapidi e nervosi, senza mai riuscire a voltare la testa lì dove Samina si era acquattata, davanti alla toeletta, per struccarsi e ungersi il viso di creme. Parlava, parlava, allungava il discorso con dettagli insignificanti per distrarsi da quella presenza che sentiva pulsare poco lontano da sé. Poi si sedette sul letto, estenuato da quella lotta contro i sensi, ma il profumo di lei impregnato sulle lenzuola saliva al suo naso in tante spirali gradevoli, gli accarezzava le guance ad accenderle di un tepore caldo, mozzandogli il fiato a tratti. Con la testa che girava, Guzman cominciò a perdersi nelle proprie parole, la sua voce s’incagliava nella pausa di un sospiro, e il discorso che aveva tessuto fino a quel momento si sfaldava man mano, ne recuperava il filo di sfuggita per poi riarrestarsi di continuo finché sulla lingua non rimasero che dei nodi grossolani riuniti tra loro in modo scomposto.
  Alzò gli occhi su Samina, la fissò come a trovare in lei un assenso, una conclusione a quel tormento, eppure lei non fiatava, lasciandolo nel silenzio più vuoto e opprimente, e allora lui era costretto ad andare avanti per riempire quel nulla gigantesco, ma non ce la faceva più – non era mai abbastanza, non sarebbe mai stato abbastanza.
  Samina era rivolta unicamente al proprio riflesso davanti allo specchio. Si guardava insistentemente, come rapita dall’immagine di sé stessa. Ad un tratto il dischetto di cotone scivolò via dalle sue dita. Cadde prima sul ripiano del mobile, poi finì a terra. Senza una ragione apparente, allora, Samina iniziò a piangere.
  Guzman udì i suoi gemiti, la vide abbandonarsi sconsolata sul ripiano colmo di boccette, barattoli e vasetti vari, che si struggeva senza pace. Ogni peso parve abbandonarlo di colpo mentre con uno scatto fulmineo si sollevò a scrutarla allarmato.
  «Che ti prende, Samina?» domandò.
  «Aiutami», mormorò lei di rimando, tra i singhiozzi che le scuotevano le spalle sottili, coperte appena dalla gran massa di capelli biondi. Oltre di lei, nello specchio, Guzman aveva scorto le sue mani aggraziate andare a coprire con tremenda disperazione gli occhi.
  Samina si era girata, gli aveva rivolto uno sguardo lucido e straziato, e l’aveva rincorso angosciata, lasciando che la sedia cadesse sul pavimento senza curarsi del rumore. Aveva allungato le dita a ricercare il suo contatto, annaspando come un naufrago che tenti in ogni modo di non soccombere alla marea nera e vorace, si era stretta a lui affondando il viso contro il suo petto, le lacrime calde trapassavano il tessuto della canotta bagnandogli la pelle.
  «Direttrice Samina!».
  «Aiutami, Guzman... Aiutami...».
  All’improvviso ogni distanza era stata rotta, squarciata, le loro mani erano venute a toccarsi e nell’eternità di quell’istante avrebbero continuato ad allacciarsi sempre più fino a collassare l‘una nell’altra disintegrandosi nello sforzo di unirsi, due corpi celesti dalla traiettoria imprecisa e masochista.
  Guzman non poté far altro che riversarsi su di lei, la accolse nelle proprie braccia, sentendola aggrapparsi con tutte le forze, per trattenerlo vicino e non lasciarlo fuggire. Samina piangeva e sembrava una bambina che avesse perso i genitori, sola di fronte al mondo e impotente. Egli le accarezzò i capelli – perché era quanto di più lontano potesse esserci da una bambina, e lo angosciava. Guzman sapeva dentro di sé cosa significasse essere soli e ripudiati da tutti.
  La udì gemere e forzare ancora la presa. Le disse all’orecchio che non se ne sarebbe andato – non l’avrebbe abbandonata come avevano fatto gli altri.
  Nello specchio c’erano le figure di un uomo e di una donna soli, che si venivano incontro e si cercavano. Nel percepire il modo in cui i loro corpi aderivano fra loro, per quanto possibile, a combaciare, Guzman percepì per la prima volta una sensazione diversa, che non era né devozione trascendentale, né desiderio carnale. Rimase ad ascoltarla, nel proprio animo, mentre dispiegava la sua cantilena, e aveva il profumo di Samina.
 
 
  Una nuvola profumata si levava dalla tazza che Guzman teneva nelle mani, appannando il vetro della finestra con il proprio calore. Si stava scaldando le dita a contatto con la ceramica rovente, mentre osservava la pioggia di fuori che perennemente ingrigiva le strade di Poh. Tuttavia, preso com’era dai pensieri, gli veniva troppo complicato focalizzarsi davvero su un dettaglio del paesaggio: allora i suoi occhi vagavano assorti come a ricercare qualcosa che tenesse desta la sua attenzione, ma inevitabilmente finiva sempre per distrarsi, e allora restava fermo a riposare la vista su un punto non ben determinato dell’orizzonte con lo sguardo assente, poggiandosi di spalla contro la parete, rannicchiato un po’ in sé stesso.
  Plumeria era seduta sul letto a gambe distese, di fronte a lui, gli stava parlando delle ultime scorribande compiute dalle reclute più giovani e di quanto ne andasse fiera, sebbene fosse ancora convinta dovessero imparare a darsi una regolata tra di loro. Piegata sopra i piedi, stava rifinendo minuziosamente un’unghia colorata con il pennellino. L’odore pungente delle boccette di smalto e di acetone aperte arrivava fin nelle narici di Guzman, ed egli avvertiva una leggera nausea, ma non sapeva se fosse per quel profumo acre o per la confusione che le sue riflessioni generavano in lui. Nel dubbio, di tanto in tanto beveva un sorso di Ciocco Skitty per schermarsi con l’aroma del cacao – al diavolo la confezione color confetto ricoperta di micetti amorosi, quell’ammasso di robaccia chimica e pieno di zuccheri era la fine del mondo –, l’assaporava sulla lingua facendo attenzione a non scottarsi. Tra i ricordi, rivide di sfuggita le mani di sua mamma mentre rigirava il cioccolato nel pentolino sopra il fuoco, l’odore dolce che si diffondeva in tutta casa. Guzman inspirò profondamente con il naso sopra il bordo della tazza, lasciandosi riempire il petto dal fumo caldo della bevanda, e riuscì per un istante a rievocare quello stesso profumo.
  Il discorso si era all’improvviso spostato, senza che se ne fosse accorto, sugli allenamenti di Iridio.
  Plumeria intanto aveva cambiato piede. Talvolta s’interrompeva per soffiare sopra la vernice e controllarne l’asciugatura. Poi tornava a intingere il pennellino e ricominciava a parlare.
  «Non vuole saperne di fare amicizia con gli altri», diceva «Continua a fare tutto di testa sua».
  Guzman sospirò. Ricordò il modo in cui il ragazzo lo aveva cacciato dal suo appartamento e a quanto il suo viso somigliasse terribilmente a quello di Samina. Si accorse che fino a quel momento non aveva fatto altro che pensare a lei incessantemente, e quando se ne rese del tutto conto si sentì in imbarazzo; eppure una strana calma sospesa e ovattata lo tratteneva ancora in una morsa leggera e rassicurante.
  «Senti, perché non provi a parlarci? Magari se sapesse che lavori per sua madre potrebbe aprirsi un po’».
  «Ci ho già provato, Plum. È inutile. E comunque lui non deve sapere nulla di questa storia, mi capisci? Sarebbe solo peggio».
  La ragazza intese.
  «È anche per lei che se n’è andato, non è vero?» chiese.
  Guzman annuì, poi si richiuse un’altra volta in quel silenzio distratto. All’improvviso, però:
  «Ci siamo dati un abbraccio, Plum», disse.
  Plumeria sollevò lo sguardo su di lui. Il suo viso si era acceso di un’espressione sorpresa nell’udire quel tono di voce così delicato, talmente estraneo a un uomo prepotente come era lui.
  «Diamine!» esclamò «Un abbraccio! Fa’ attenzione che se continua così rischi di rimanere incinto».
  Le sue labbra si erano curvate a schernirlo, ma nello stesso tempo le sopracciglia piegate in una riga severa sopra i suoi occhi tradivano una certa apprensione.
  «Ma la smetti di dire stronzate?».
  «Non sono stronzate. È quello che mi hanno detto oggi i più piccoletti: se dai un abbraccio a una ragazza potresti rimanere incinto. Senti, Guz, avevamo deciso che per queste cose io mi sarei occupata delle pischelle e tu dei pischelli, ma non mi pare ti ci stia impegnando molto. Guarda che non posso fare la sorella maggiore da sola. Voglio dire, non sono una madre».
  Se c’era una cosa che Guzman non avrebbe voluto ricordare in quel momento tanto intimo erano i suoi doveri di capo – fosse stato per lui, avrebbe volentieri tralasciato ogni obbligo che la sua figura gli imponeva, ma come al solito la scrupolosità di Plumeria riusciva sempre ad avere la meglio e a riscuoterlo dalla sua negligenza. La liquidò ripromettendole che se ne sarebbe occupato al più presto, lei disse che l’avrebbe proprio voluto vedere, allora lui dovette sforzarsi di essere più convincente e remissivo nei suoi confronti, abbassandosi all’adulazione più sfrenata, fino a che ella non ne fu soddisfatta: eppure, vedeva, i suoi occhi erano ancora socchiusi in un velo sospettoso. Si domandò se davvero le sue occupazioni alla Fondazione Æther lo stessero separando a tal punto dal gruppo come sembrava dalla preoccupazione impressa in quello sguardo. Ma ormai, sentiva, c’era dell’altro che lo richiamava lontano.
  «Il fatto è che io...», mormorò col cuore in mano, esitando nel dar sfogo ai pensieri.
  Plumeria si arrestò. Lo guardò. Una goccia di smalto cadde dal pennellino a macchiare le lenzuola bianche.
  «Io non credevo... Non pensavo che un uomo e una donna soli potessero provare anche questo».


 
 

 


Rieccoci qui, dopo più di un anno, finalmente con un nuovo aggiornamento per questa storia! Come sapete purtroppo sono una persona terribilmente lenta, ma questo mese mi sono messa d’impegno per cercare di tornare in carreggiata e sono davvero soddisfatta del risultato.
Vi comunico che siamo giunti praticamente a metà! Il mio proposito (uno dei molti) per il 2020 è riuscire a finirla entro l’anno. Mi spiace averla portata così per le lunghe nonostante fosse una storia più breve del solito... È anche vero che nel frattempo ho scritto altro e non sono proprio rimasta con le mani in mano, e forse c’era anche bisogno che alcuni sentimenti si sedimentassero... Però direi che è giunto il momento di rimettercisi su più seriamente!
La scena dell’abbraccio è il perno da cui è nata questa storia: è stato uno dei primissimi pezzi (se non il primo in assoluto) che ho steso. Ritornandoci sopra questo mese ho dovuto riscriverla quasi da capo perché a distanza di tempo non mi convinceva più. Spero vi sia piaciuta tanto quanto per me è importante ♥
Un ringraziamento speciale a Barbra, Afaneia e BlazePower per le loro recensioni al capitolo precedente e per aver messo la storia tra le seguite insieme a Lila May; a Danail, Erika_Harmonia7 e Vale_Balz per averla inserita tra le preferite; e infine ancora a Lila May per averla aggiunta alle ricordate. Grazie di cuore anche a tutti i lettori silenziosi che sono passati a dare un’occhiata! ♥
Un abbraccio forte forte,
Persej
  
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