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Autore: ONLYKORINE    01/12/2019    3 recensioni
La prima campanella dell'anno sta per suonare, ma per il bidello, sarà l'ultima prima campanella, perché questo sarà l'ultimo anno di lavoro, per lui, poi andrà in pensione.
Ma prima di andare in pensione, pensa che possa ancora fare qualcosa di utile, tipo far sapere ad Alberto, il padre del bambino appena arrivato nella classe del figlio di Sonia, che lei non è veramente come gli è stata dipinta dalle altre mamme.
E chi lo sa se prima dell'ultima campanella non succederà qualcosa anche grazie al suo aiuto?
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'ultima campanella

L’ultima campanella

 

 

L’ultima prima campanella dell’anno doveva ancora suonare e io avevo già notato le foglie rosse e gialle che si erano accumulate davanti alla porta principale della scuola.

Presi la scopa e mi avviai verso il cortile per liberare il passaggio ai bambini che, poco dopo, sarebbero entrati di corsa verso un nuovo anno. Passai davanti all’ufficio alunni e salutai Ada, la nuova segretaria, camminai ancora e feci un cenno alla nuova vicepreside che, glielo leggevo in viso, era più emozionata dei bambini di prima. Poi procedetti ancora, passando davanti a Vanna, la mia collega bidella. Sì, lo sapevo che ci chiamavano in un’altra maniera, ma io sarei sempre stato un bidello.

Lo ero da più di trentacinque anni e, purtroppo, quell’anno sarebbe stato l’ultimo. Dopo sarebbe arrivata la meritata pensione. E cosa avrei fatto, dopo? Non ci volevo pensare, avevo ancora parecchio da fare, lì.

Impugnai la scopa come la bacchetta di un re, aprii la porta per uscire e usai la scopa per giocare con gli scolari più piccoli, che mi riconobbero e mi salutarono saltando e urlando. Sono sempre piaciuto ai bambini. Non so perché, forse perché loro piacevano a me: li vedevo crescere, salire le scale e andare alle scuole medie; poi li osservavo dalla finestra prendere l’autobus proprio alla fermata oltre il cancello della scuola per andare in città, alle superiori. Erano un po’ tutti i miei bambini e lo sarebbero sempre stati.

Mentre spazzavo le foglie e le ammucchiavo, la campanella suonò e i ragazzini scalpitarono, correndo verso le classi. Per fortuna sentii Vanna gridare di non affannarsi lungo i corridoi.

“Vorrei poterli accompagnare in classe…” si lamentò una mamma alla mia destra. Mi voltai e vidi la moglie del banchiere, una signora bionda sulla quarantina, arricciare le labbra, dipinte in modo studiato. Suo figlio Giorgio era uno di quei bambini costretti a crescere prima del tempo, a fare tutto perfettamente bene e a essere un piccolo campione. Un piccolo adulto, praticamente.

“Ma sono in quarta, è giusto così! Loro non ci avrebbero voluto!” ribatté un’altra mamma. Lei lavorava al supermercato sulla strada lunga; era piccolina, con i capelli ricci e neri, proprio come il suo bambino, Andrea, che soffriva d’asma e spesso veniva alla nostra postazione quando aveva gli attacchi d’ansia.

“Ma io volevo farmi un selfie con Giorgio, da mettere su Facebook!” disse ancora la bionda.

“Vabbè, mica bisogna mettere tutto su Facebook” precisò una ragazza un po’ più giovane delle altre. Mi girai per guardarla e la riconobbi: Sonia non aveva neanche trent’anni e io mi ricordavo perfettamente di quando la vedevo passare per i corridoi con il suo zaino rosa. Era diventata una mamma, una mamma single, come si dice adesso. Ai miei tempi si diceva ‘ragazza madre’. Cambiano le parole, ma è sempre la stessa cosa. Riccardo, suo figlio, era un bambino esattamente come lei: solare e spiritoso, che non stava mai fermo e con una zazzera di capelli biondi che saltellavano dappertutto.

“Beh, tanto abbiamo fatto un selfie davanti al cancello e l’ho postata lo stesso, ha già ricevuto quattordici ‘mi piace’!” esclamò, elettrizzata, la madre di Giorgio.

Sonia alzò le spalle e guardò l’orologio, visibilmente infastidita. So che lavorava in un ufficio nel paese vicino, ma forse quel giorno sarebbe entrata più tardi, perché di solito era sempre di corsa e non si fermava mai.

“Ciao a tutte, ragazze!” le salutò una mamma, uscendo dalla scuola con un foglio in mano. Conoscevo anche lei: era la madre della piccola Giulia, uno scricciolo di bambina con degli occhiali più grandi di lei e che sapeva sempre la lezione, anche prima della maestra. “Avete sentito che c’è un bambino nuovo nella nostra classe?” continuò, mentre trafficava nella borsetta.

“No, non mi hanno detto niente. Chi è?” chiese la bionda fotografa di Facebook. “Si chiama Pietro, viene dall’altro istituto, quello di Fascolo” spiegò allora la donna.

Fascolo era la frazione al di là del fiume, sempre sotto il nostro comune: era una scuola un po’ più piccola della nostra, infatti c’erano solo le classi elementari.

Quel Pietro? Quello tremendo?” La madre di Giorgio strabuzzò gli occhi, come se avesse visto un fantasma.

“In che senso tremendo?” chiese la moretta.

 

“Picchia tutti i bambini, risponde alla maestra, disturba in classe, insomma un vero demonio! Oh, perché è capitato con noi? Non poteva finire nell’altra sezione?” ribatté, seccata, la bionda. Poi continuò: “Sono rappresentante di classe, non avrebbero dovuto avvisarmi prima di ammettere in classe un bambino così?”

Sonia alzò le spalle, ignorando la sua domanda. “Magari non è così come dici, forse hai sentito troppe voci esagerate” le disse, cercando di tranquillizzarla.

“Ma no che non sto esagerando! Ti dico che è così: sua madre è morta due anni fa e lui è seguito da uno psicologo perché è disturbato” dichiarò ancora, storcendo il naso. Tutte le altre stettero zitte, ma Sonia spalancò le braccia.

“Un bambino che ha perso la mamma! Viviana, è un bambino che ha perso la mamma! Come staresti tu? O Giorgio?” La ragazza continuò a difendere il piccolo. Un bambino che neanche conosceva, ma si capiva, dall’espressione del suo viso, che il comportamento della donna le dava fastidio.

“Eccolo, sta arrivando!” disse la madre di Giulia, mentre cercava di piegare il foglio appena ritirato dalla segreteria.

“Chi? Pietro?” chiese anche l’altra, la madre di Riccardo.

“Sì, è con il suo papà” confermò cercando di non indicarlo con il dito.

Io continuai a spazzare, anche se ormai le foglie erano già tutte ammucchiate.

“Oh, che figone, però!” esclamò la bionda, cambiando tono. Oh, il padre del demonio quindi era un bell’uomo? Chissà se al banchiere sarebbe piaciuto saperlo…

L’uomo passò davanti al gruppetto delle mamme e salutò sorridendo un po’ trafelato, lasciò il bambino sulla porta e vidi Vanna andargli incontro, sorridergli e prendere in custodia il piccolo Pietro. Quando il padre si girò per uscire dal cortile, Viviana lo fermò con una scusa.

“Scusa, ciao, sei il papà di Pietro, vero?” gli chiese e si presentò come la rappresentante della classe del figlio. “Vi andrebbe di venire al compleanno di Giorgio, la prossima settimana? Facciamo sempre una festa con tutti i compagni di classe. Mio figlio è il primo che compie gli anni, così inauguriamo il nuovo anno scolastico. Potreste venire anche voi, così Pietro potrebbe integrarsi meglio, cosa dici? Scommetto che gli farebbe piacere. Tieni l’invito, c’è scritto tutto: sabato al bar del campone, sai il campo da calcio? Giorgio gioca così bene che ci lasciano sempre usare il bar per la sua festa… Ecco, sì. Qui c’è il mio numero, così puoi mandarmi la conferma”.

Praticamente aveva parlato solo lei, lui era riuscito a dire solamente il suo nome. “Oh, grazie, siete gentilissime” rispose lui, sorridendo e prendendo l’invito. Poverino, non sapeva in cosa si stava cacciando. D’altronde, come si poteva avvisarlo? Sarebbe stato un agnellino in una gabbia di leoni; chissà se sapeva che le madri delle elementari erano la specie più spietata che ci fosse.

“Tu vieni, che a noi fa piacere e i bambini potranno imparare a conoscersi” disse ancora la bionda con un sorriso mellifluo.

Sonia sbuffò. “Scusate, io devo andare al lavoro” si scusò, frugando nella borsetta. Tutte le donne frugano sempre nelle borsette, non ho mai capito perché.

“Aspetta, Sonia, prendi l’invito anche tu” esclamò Viviana.

“No, noi non possiamo venire. Domenica abbiamo un impegno, mi spiace” disse.

“È sabato, la festa, non domenica” la canzonò la madre di Giorgio. In quel momento il suo sorriso era veramente fastidioso.

“Sono sicura che abbiamo un impegno anche sabato, Viviana.”
Salutò e si incamminò verso il cancello, senza aggiungere altro.

“Ma… ha rifiutato per colpa mia?” chiese il padre di Pietro, guardando le altre.

“Oh, non preoccuparti, Sonia è un po’ strana, ma non è cattiva. Vedrai che più avanti, quando ci si conoscerà meglio, non avrà problemi a frequentarci” finse di scusarla la moglie del banchiere. Le altre rimasero zitte e a me salì il nervoso dalla bocca dello stomaco: così sembrava che Sonia non volesse andarci per via della presenza del bambino nuovo e invece non era così! Dovevo fare qualcosa:, Alberto, come aveva detto di chiamarsi il padre di Pietro, doveva sapere che Sonia era una brava ragazza e non quel tipo di persona che stava dipingendo la madre di Giorgio.

“Sonia!” gridai infatti, senza sapere perché. La rincorsi per raggiungerla, mentre lei si fermava e si girava verso di me: stava borbottando. “Sonia, tutto bene, cara?” le chiesi quando le fui davanti, perché effettivamente non sapevo cosa dirle.

“Ciao, Eros, sì, tutto a posto, ho qualche problema con l’ipocrisia, ma il resto tutto bene” disse lei, sorridendomi. Molte delle mamme mi guardavano dall’alto al basso, perché ero un bidello, ma lei no, non lo aveva mai fatto. Avevo sempre pensato che fosse gentile; prima una bambina gentile, poi una ragazza e infine una donna. La gentilezza non l’aveva mai abbandonata e neanche il suo sorriso. Neanche quando il ragazzo che l’aveva messa incinta l’aveva abbandonata.

“Sì… ecco…” Le parole mi morirono in gola: non sapevo cosa inventarmi. “Non hai firmato il modulo per la mensa e non possiamo dare da mangiare ai bambini senza il foglio compilato, puoi venire a firmarlo?” Mi ero inventato tutto al momento, ma la burocrazia cresceva ogni giorno e nascevano moduli da compilare a ogni piè sospinto, senza i quali non si poteva più fare niente, così, forse dettata dalla mia finta sicurezza, lei si incamminò con me quando le feci cenno con la mano.

“Davvero? Sono una sbadata, scusatemi, mi scordo sempre tutto…” Poverina, si stava mortificando, quando in verità non aveva dimenticato proprio niente. L’idea ormai mi era venuta e non volevo lasciarla andare. Quando passammo davanti al gruppetto delle mamme rimaste feci notare che avrebbero dovuto sostare fuori dal cortile e nominai l’assicurazione. Ringraziai ancora la burocrazia che riusciva a farmi inventare le storie più assurde e che così sembravano veramente credibili.

“Lei… è il padre del ragazzino trasferito? Ha portato il documento per la delega?” chiesi direttamente al signor Alberto, ma con tono basso per non farmi sentire; sicuramente la signora Viviana era al corrente di tutti i moduli necessari e sapeva che quello della delega non era richiesto il primo giorno.

“Oh, no, non ce l’ho” rispose lui. Sorrisi.

“Allora venga con me, deve essere compilato al più presto” dissi.

Lui mi seguì e tutti e tre entrammo nella scuola: ormai i corridoi erano deserti, anche se si sentivano le voci di insegnanti e alunni per tutto l’edificio.

“Mi spiace che tu non venga alla festa per colpa nostra…” disse Alberto a Sonia con tono un po’ stizzoso e io rallentai il passo per sentire meglio: purtroppo alla mia età l’udito tendeva a fare scherzetti.

“Non preoccuparti, non è per colpa tua” rispose lei. Probabilmente era infastidita dal suo tono, perché non glielo disse gentilmente.

“Ah, no? Mi sembrava proprio così, invece” insistette lui. “Guarda che non hai capito niente!” esclamò Sonia.

“Ecco! Salite in ascensore, l’ufficio è stato spostato al primo piano, quest’anno”  dissi, per non far alzare loro la voce e rischiare di farmi smascherare.

I due stavano ancora discutendo e non dissero niente: solo Sonia, guardandosi intorno, esclamò: “Ma è lo stesso ascensore di quando venivo a scuola io?” Poi però le porte si chiusero e io non le risposi.

Sentii l’ascensore partire ma, prima che arrivasse al piano di sopra, spinsi una delle antine del piano e lo bloccai, perché quello era davvero l’ascensore di quando Sonia era studentessa e io lo conoscevo benissimo: sapevo che si sarebbe bloccato se avessi spinto nel punto giusto. E sapevo che dopo un’ora e mezzo, il motore si sarebbe riazzerato e sarebbe tornato al piano terra, aprendo le porte.

Quello che non avevo previsto era che loro si sarebbero messi a picchiare contro l’interno dell’ascensore. Per fortuna l’impianto era isolato e la confusione che facevano i bambini delle elementari si mescolava a quello delle medie del piano superiore, così nessuno li sentì. Mi avvicinai e, alzando un po’ la voce, ma non troppo, spiegai che avevo chiamato l’assistenza e che sarebbero stati lì a breve.

Loro per fortuna mi credettero e non gridarono più. Comunque tenni d’occhio l’ascensore per tutto il tempo e, ogni volta che mi avvicinavo, li sentivo parlottare. All’inizio i toni erano ancora concitati, ma, piano piano, divennero più soffusi e li sentii ridere più di una volta.

Quando, dopo un’ora e mezzo, l’ascensore si sbloccò e loro uscirono, capii che era successo qualcosa. E non qualcosa di brutto: Sonia aveva le guance rosse e le labbra gonfie, mentre Alberto aveva i capelli scuri tutti spettinati.

Sorrisi. Doveva essere successo qualcosa davvero. Pensai che si fossero baciati.

“L’hai rifatto, vero?” Vanna venne vicino a me e io la guardai sorridendo e alzando le spalle. Era vero: non era la prima volta che usavo il trucchetto dell’ascensore. Avevo già combinato tre matrimoni.

Perché quando pensavo che due stessero bene insieme, ci beccavo sempre.

***

L’ultima campanella di giugno sta per suonare e allora anche quest’anno finirà. Il mio ultimo anno qui.

Riccardo e Pietro corrono verso di me finché non li sgrido silenziosamente e loro rallentano il passo, ma senza veramente smettere di correre.

“Ciao, Eros!” mi salutano e mi chiedono qualcosa. Li conosco: hanno usato una scusa per uscire dall’aula, ma, d’altronde, con una bella giornata come quella, chi vorrebbe rimanere in classe?

“Stasera Pietro dorme da me, sai, Eros?” mi dice Riccardo, sorridendo. Sono diventati molto amici, quest’anno, e Pietro è sempre stato un ragazzino vivace ma non cattivo.

“Davvero? Deve essere bello!” rispondo. Loro si guardano e si sorridono. In questi mesi ho visto spesso Sonia e Alberto fuori dalla scuola, insieme, ad aspettare i figli. L’ultima volta li ho visti mano nella mano.

Sorrido contento, perché mi sembra che sia merito mio. Beh, effettivamente è stato merito mio.

“Ma tu lo sai chi è che si chiama come te?” mi chiede Pietro, mentre si allaccia una scarpa. Oh, sì che lo so: sono stato bidello anche alle medie, negli anni passati.

“Fammi indovinare: il cantante?” rispondo, strizzando un occhio.

“Ma no!” esclama Riccardo, divertito, poi loro si guardano ancora e scoppiano a ridere. “L’ha detto ieri mia mamma a suo papà: il dio dell’amore!” spiega ancora, indicando Pietro.

Io rimango spiazzato e, mentre suona la campanella, loro corrono verso la classe. Mi scordo di rimproverarli e mi giro verso lo spiazzo dov’ero seduto prima.

“Vanna!” esclamo verso la mia collega “Come farete l’anno prossimo, senza il dio dell’amore?”

-

-

***Eccomi con una nuova storia! Doveva essere per un contest ma mi sono scordata la data di scadenza così, niente, non volevo scriverla, ma quando una storia ti rimane in testa... eccola qui.

   
 
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