L’ultima campanella
L’ultima
prima campanella dell’anno doveva ancora suonare e io avevo
già notato le
foglie rosse e gialle che si erano accumulate davanti alla porta
principale
della scuola.
Presi la
scopa e mi avviai verso il cortile per liberare il passaggio ai bambini
che,
poco dopo, sarebbero entrati di corsa verso un nuovo anno. Passai
davanti
all’ufficio alunni e salutai Ada, la nuova segretaria,
camminai ancora e feci
un cenno alla nuova vicepreside che, glielo leggevo in viso, era
più emozionata
dei bambini di prima. Poi procedetti ancora, passando davanti a Vanna,
la mia
collega bidella. Sì, lo sapevo che ci chiamavano in
un’altra maniera, ma io
sarei sempre stato un bidello.
Lo ero da più
di trentacinque anni e, purtroppo, quell’anno sarebbe stato
l’ultimo. Dopo sarebbe
arrivata la meritata pensione. E cosa avrei fatto, dopo? Non ci volevo
pensare,
avevo ancora parecchio da fare, lì.
Impugnai la
scopa come la bacchetta di un re, aprii la porta per uscire e usai la
scopa per
giocare con gli scolari più piccoli, che mi riconobbero e mi
salutarono
saltando e urlando. Sono sempre piaciuto ai bambini. Non so
perché, forse
perché loro piacevano a me: li vedevo crescere, salire le
scale e andare alle
scuole medie; poi li osservavo dalla finestra prendere
l’autobus proprio alla
fermata oltre il cancello della scuola per andare in città,
alle superiori.
Erano un po’ tutti i miei bambini e lo sarebbero sempre stati.
Mentre
spazzavo le foglie e le ammucchiavo, la campanella suonò e i
ragazzini
scalpitarono, correndo verso le classi. Per fortuna sentii Vanna
gridare di non
affannarsi lungo i corridoi.
“Vorrei
poterli accompagnare in classe…” si
lamentò una mamma alla mia destra. Mi
voltai e vidi la moglie del banchiere, una signora bionda sulla
quarantina,
arricciare le labbra, dipinte in modo studiato. Suo figlio Giorgio era
uno di
quei bambini costretti a crescere prima del tempo, a fare tutto
perfettamente
bene e a essere un piccolo campione. Un piccolo adulto, praticamente.
“Ma sono in
quarta, è giusto così! Loro non ci avrebbero
voluto!” ribatté
un’altra mamma. Lei lavorava al supermercato sulla strada
lunga; era piccolina,
con i capelli ricci e neri, proprio come il suo bambino, Andrea, che
soffriva
d’asma e spesso veniva alla nostra postazione quando aveva
gli attacchi
d’ansia.
“Ma io volevo
farmi un selfie con Giorgio, da mettere su Facebook!” disse
ancora la bionda.
“Vabbè, mica
bisogna mettere tutto su Facebook” precisò una
ragazza un po’ più giovane delle
altre. Mi girai per guardarla e la riconobbi: Sonia non aveva neanche
trent’anni e io mi ricordavo perfettamente di quando la
vedevo passare per i
corridoi con il suo zaino rosa. Era diventata una mamma, una mamma
single, come
si dice adesso. Ai miei tempi si diceva ‘ragazza
madre’. Cambiano le parole, ma
è sempre la stessa cosa. Riccardo, suo figlio, era un
bambino esattamente come
lei: solare e spiritoso, che non stava mai fermo e con una zazzera di
capelli
biondi che saltellavano dappertutto.
“Beh, tanto
abbiamo fatto un selfie davanti al cancello e l’ho postata lo
stesso, ha già
ricevuto quattordici ‘mi piace’!”
esclamò, elettrizzata, la madre di Giorgio.
Sonia alzò le
spalle e guardò l’orologio, visibilmente
infastidita. So che lavorava in un
ufficio nel paese vicino, ma forse quel giorno sarebbe entrata
più tardi,
perché di solito era sempre di corsa e non si fermava mai.
“Ciao a
tutte, ragazze!” le salutò una mamma, uscendo
dalla scuola con un foglio in
mano. Conoscevo anche lei: era la madre della piccola Giulia, uno
scricciolo di
bambina con degli occhiali più grandi di lei e che sapeva
sempre la lezione,
anche prima della maestra. “Avete sentito che
c’è un bambino nuovo nella nostra
classe?” continuò, mentre trafficava nella
borsetta.
“No, non mi
hanno detto niente. Chi è?” chiese la bionda
fotografa di Facebook. “Si chiama
Pietro, viene dall’altro istituto, quello di
Fascolo” spiegò allora la donna.
Fascolo era
la frazione al di là del fiume, sempre sotto il nostro
comune: era una scuola
un po’ più piccola della nostra, infatti
c’erano solo le classi elementari.
“Quel Pietro?
Quello tremendo?” La madre
di Giorgio strabuzzò gli occhi, come se avesse visto un
fantasma.
“In che senso
tremendo?” chiese la moretta.
“Picchia
tutti i bambini, risponde alla maestra, disturba in classe, insomma un
vero
demonio! Oh, perché è capitato con noi? Non
poteva finire nell’altra sezione?”
ribatté, seccata, la bionda. Poi continuò:
“Sono rappresentante di classe, non
avrebbero dovuto avvisarmi prima di ammettere in classe un bambino così?”
Sonia alzò le
spalle, ignorando la sua domanda. “Magari non è
così come dici, forse hai
sentito troppe voci esagerate” le disse, cercando di
tranquillizzarla.
“Ma no che
non sto esagerando! Ti dico che è così: sua madre
è morta due anni fa e lui è
seguito da uno psicologo perché è
disturbato” dichiarò ancora, storcendo il
naso. Tutte le altre stettero zitte, ma Sonia spalancò le
braccia.
“Un bambino
che ha perso la mamma! Viviana, è un bambino che ha perso la
mamma! Come
staresti tu? O Giorgio?” La ragazza continuò a
difendere il piccolo. Un bambino
che neanche conosceva, ma si capiva, dall’espressione del suo
viso, che il
comportamento della donna le dava fastidio.
“Eccolo, sta
arrivando!” disse la madre di Giulia, mentre cercava di
piegare il foglio
appena ritirato dalla segreteria.
“Chi?
Pietro?” chiese anche l’altra, la madre di Riccardo.
“Sì, è con il
suo papà” confermò cercando di non
indicarlo con il dito.
Io continuai
a spazzare, anche se ormai le foglie erano già tutte
ammucchiate.
“Oh, che
figone, però!” esclamò la bionda,
cambiando tono. Oh, il padre del demonio
quindi era un bell’uomo? Chissà se al banchiere
sarebbe piaciuto saperlo…
L’uomo passò
davanti al gruppetto delle mamme e salutò sorridendo un
po’ trafelato, lasciò
il bambino sulla porta e vidi Vanna andargli incontro, sorridergli e
prendere
in custodia il piccolo Pietro. Quando il padre si girò per
uscire dal cortile,
Viviana lo fermò con una scusa.
“Scusa, ciao,
sei il papà di Pietro, vero?” gli chiese e si
presentò come la rappresentante
della classe del figlio. “Vi andrebbe di venire al compleanno
di Giorgio, la
prossima settimana? Facciamo sempre una festa con tutti i compagni di
classe.
Mio figlio è il primo che compie gli anni, così
inauguriamo il nuovo anno
scolastico. Potreste venire anche voi, così Pietro potrebbe
integrarsi meglio,
cosa dici? Scommetto che gli farebbe piacere. Tieni l’invito,
c’è scritto
tutto: sabato al bar del campone, sai il campo da calcio? Giorgio gioca
così
bene che ci lasciano sempre usare il bar per la sua festa…
Ecco, sì. Qui c’è il
mio numero, così puoi mandarmi la conferma”.
Praticamente
aveva parlato solo lei, lui era riuscito a dire solamente il suo nome.
“Oh,
grazie, siete gentilissime” rispose lui, sorridendo e
prendendo l’invito.
Poverino, non sapeva in cosa si stava cacciando. D’altronde,
come si poteva
avvisarlo? Sarebbe stato un agnellino in una gabbia di leoni;
chissà se sapeva
che le madri delle elementari erano la specie più spietata
che ci fosse.
“Tu vieni,
che a noi fa piacere e i bambini potranno imparare a
conoscersi” disse ancora
la bionda con un sorriso mellifluo.
Sonia sbuffò.
“Scusate, io devo andare al lavoro” si
scusò, frugando nella borsetta. Tutte le
donne frugano sempre nelle borsette, non ho mai capito
perché.
“Aspetta,
Sonia, prendi l’invito anche tu” esclamò
Viviana.
“No, noi non
possiamo venire. Domenica abbiamo un impegno, mi spiace”
disse.
“È sabato, la
festa, non domenica” la canzonò la madre di
Giorgio. In quel momento il suo
sorriso era veramente fastidioso.
“Sono sicura
che abbiamo un impegno anche sabato, Viviana.”
Salutò e si incamminò verso il cancello, senza
aggiungere altro.
“Ma… ha
rifiutato per colpa mia?” chiese il padre di Pietro,
guardando le altre.
“Oh, non
preoccuparti, Sonia è un po’ strana, ma non
è cattiva. Vedrai che più avanti,
quando ci si conoscerà meglio, non avrà problemi
a frequentarci” finse di
scusarla la moglie del banchiere. Le altre rimasero zitte e a me
salì il
nervoso dalla bocca dello stomaco: così sembrava che Sonia
non volesse andarci
per via della presenza del bambino nuovo e invece non era
così! Dovevo fare
qualcosa:,
Alberto, come aveva detto di chiamarsi il padre di Pietro, doveva
sapere che
Sonia era una brava ragazza e non quel tipo di persona che stava
dipingendo la
madre di Giorgio.
“Sonia!”
gridai infatti, senza sapere perché. La rincorsi per
raggiungerla, mentre lei
si fermava e si girava verso di me: stava borbottando.
“Sonia, tutto bene,
cara?” le chiesi quando le fui davanti, perché
effettivamente non sapevo cosa
dirle.
“Ciao, Eros,
sì, tutto a posto, ho qualche problema con
l’ipocrisia, ma il resto tutto bene”
disse lei, sorridendomi. Molte delle mamme mi guardavano
dall’alto al basso,
perché ero un bidello, ma lei no, non lo aveva mai fatto.
Avevo sempre pensato
che fosse gentile; prima una bambina gentile, poi una ragazza e infine
una
donna. La gentilezza non l’aveva mai abbandonata e neanche il
suo sorriso.
Neanche quando il ragazzo che l’aveva messa incinta
l’aveva abbandonata.
“Sì…
ecco…”
Le parole mi morirono in gola: non sapevo cosa inventarmi.
“Non hai firmato il
modulo per la mensa e non possiamo dare da mangiare ai bambini senza il
foglio
compilato, puoi venire a firmarlo?” Mi ero inventato tutto al
momento, ma la
burocrazia cresceva ogni giorno e nascevano moduli da compilare a ogni
piè
sospinto, senza i quali non si poteva più fare niente,
così, forse dettata
dalla mia finta sicurezza, lei si incamminò con me quando le
feci cenno con la
mano.
“Davvero?
Sono una sbadata, scusatemi, mi scordo sempre
tutto…” Poverina, si stava
mortificando, quando in verità non aveva dimenticato proprio
niente. L’idea
ormai mi era venuta e non volevo lasciarla andare. Quando passammo
davanti al
gruppetto delle mamme rimaste feci notare che avrebbero dovuto sostare
fuori
dal cortile e nominai l’assicurazione. Ringraziai ancora la
burocrazia che
riusciva a farmi inventare le storie più assurde e che
così sembravano
veramente credibili.
“Lei… è il
padre del ragazzino trasferito? Ha portato il documento per la
delega?” chiesi
direttamente al signor Alberto, ma con tono basso per non farmi
sentire; sicuramente
la signora Viviana era al corrente di tutti i moduli necessari e sapeva
che
quello della delega non era richiesto il primo giorno.
“Oh, no, non
ce l’ho” rispose lui. Sorrisi.
“Allora venga
con me, deve essere compilato al più presto” dissi.
Lui mi seguì
e tutti e tre entrammo nella scuola: ormai i corridoi erano deserti,
anche se si sentivano le voci di insegnanti e alunni per tutto
l’edificio.
“Mi spiace
che tu non venga alla festa per colpa nostra…”
disse Alberto a Sonia con tono
un po’ stizzoso e io rallentai il passo per sentire meglio:
purtroppo alla mia
età l’udito tendeva a fare scherzetti.
“Non
preoccuparti, non è per colpa tua” rispose lei.
Probabilmente era infastidita
dal suo tono, perché non glielo disse gentilmente.
“Ah, no? Mi
sembrava proprio così, invece” insistette lui.
“Guarda che non hai capito
niente!” esclamò Sonia.
“Ecco! Salite
in ascensore, l’ufficio è stato spostato al primo
piano, quest’anno”
dissi, per non far alzare loro la voce e
rischiare di farmi smascherare.
I due stavano
ancora discutendo e non dissero niente: solo Sonia, guardandosi
intorno,
esclamò: “Ma è lo stesso ascensore di
quando venivo a scuola io?” Poi però le
porte si chiusero e io non le risposi.
Sentii
l’ascensore partire ma, prima che arrivasse al piano di
sopra, spinsi una delle
antine del piano e lo bloccai, perché quello era davvero
l’ascensore di quando
Sonia era studentessa
e io lo conoscevo benissimo:
sapevo che si sarebbe bloccato se avessi spinto nel punto giusto. E
sapevo che
dopo un’ora e mezzo, il motore si sarebbe riazzerato e
sarebbe tornato al piano
terra, aprendo le porte.
Quello che
non avevo previsto era che loro si sarebbero messi a picchiare contro
l’interno
dell’ascensore. Per fortuna l’impianto era isolato
e la confusione che facevano
i bambini delle elementari si mescolava a quello delle medie del piano
superiore, così nessuno li sentì. Mi avvicinai e,
alzando un po’ la voce, ma
non troppo, spiegai che avevo chiamato l’assistenza e che
sarebbero stati lì a
breve.
Loro per
fortuna mi credettero e non gridarono più. Comunque tenni
d’occhio l’ascensore per
tutto il tempo e, ogni volta che mi avvicinavo, li sentivo parlottare.
All’inizio i toni erano ancora concitati, ma, piano piano,
divennero più
soffusi e li sentii ridere più di una volta.
Quando, dopo
un’ora e mezzo, l’ascensore si sbloccò e
loro uscirono, capii che era successo
qualcosa. E non qualcosa di brutto: Sonia aveva le guance rosse e le
labbra
gonfie, mentre Alberto aveva i capelli scuri tutti spettinati.
Sorrisi.
Doveva essere successo qualcosa davvero. Pensai che si fossero baciati.
“L’hai
rifatto, vero?” Vanna venne vicino a me e io la guardai
sorridendo e alzando le
spalle. Era vero: non era la prima volta che usavo il trucchetto
dell’ascensore. Avevo già combinato tre matrimoni.
Perché quando
pensavo che due stessero bene insieme, ci beccavo sempre.
***
L’ultima
campanella di giugno sta per suonare e allora anche
quest’anno finirà. Il mio
ultimo anno qui.
Riccardo e
Pietro corrono verso di me finché non li sgrido
silenziosamente e loro
rallentano il passo, ma senza veramente smettere di correre.
“Ciao, Eros!”
mi salutano e mi chiedono qualcosa. Li conosco: hanno usato una scusa
per
uscire dall’aula, ma, d’altronde, con una bella
giornata come quella, chi vorrebbe
rimanere in classe?
“Stasera
Pietro dorme da me, sai, Eros?” mi dice Riccardo, sorridendo.
Sono diventati
molto amici, quest’anno, e Pietro è sempre stato
un ragazzino vivace ma non
cattivo.
“Davvero?
Deve essere bello!” rispondo. Loro si guardano e si
sorridono. In questi mesi
ho visto spesso Sonia e Alberto fuori dalla scuola, insieme, ad
aspettare i
figli. L’ultima volta li ho visti mano nella mano.
Sorrido
contento, perché mi sembra che sia merito mio. Beh,
effettivamente è stato
merito mio.
“Ma tu lo sai
chi è che si chiama come te?” mi chiede Pietro,
mentre si allaccia una scarpa.
Oh, sì che lo so: sono stato bidello anche alle medie, negli
anni passati.
“Fammi
indovinare: il cantante?” rispondo, strizzando un occhio.
“Ma no!”
esclama Riccardo, divertito, poi loro si guardano ancora e scoppiano a
ridere.
“L’ha detto ieri mia mamma a suo papà:
il dio dell’amore!” spiega ancora,
indicando Pietro.
Io rimango
spiazzato e, mentre suona la campanella, loro corrono verso la classe.
Mi
scordo di rimproverarli e mi giro verso lo spiazzo dov’ero
seduto prima.
“Vanna!”
esclamo verso la mia collega “Come farete l’anno
prossimo, senza il dio
dell’amore?”
-
-
***Eccomi
con una nuova storia! Doveva essere per un contest ma mi sono scordata
la data di scadenza così, niente, non volevo scriverla, ma
quando una storia ti rimane in testa... eccola qui.