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Autore: Diana LaFenice    02/12/2019    0 recensioni
«Sapevi che esistono ben più di ottantotto costellazioni, nella volta celeste? Alcune sono scomparse, altre esistono già, alcune sono visibili a occhio nudo e altre ancora devono ancora nascere. Invece, alcune sono talmente lontane che non possono essere viste neanche con il telescopio più potente del mondo. Io le conosco tutte, io le vedo e le sento tutte. Eccole, sono proprio qui, davanti a me, le sento sulla punta delle dita».
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: AU, Otherverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ci sono anch'io


Astrid

Abituarsi ai cambiamenti è difficile, ma adattarsi alla sofferenza è ancora più arduo.
Mi dicevo che dovevo reagire ma non era facile. La consolazione di Shura aveva funzionato abbastanza per riaccendere un barlume di speranza. Mi era stato un po’ d’aiuto sapere che non ero stata la sola e mi aveva stupito tutto il sostegno e la comprensione che stavo ricevendo. Anche lui mi aveva lasciato una stella: una nana bianca, quasi a compensare il buco nero che aveva dato il via al mio secondo tempo.
Dopo la lettura Shura era rimasto alla Quarta ancora per un po’, finché entrambi non ci eravamo calmati. Poi, dopo aver fatto un salto in bagno a sciacquarsi la faccia se ne era andato e non s’era più fatto vedere. Solo dopo mi ero sciacquata la faccia anch’io. Death Mask non diceva niente e io non mi sentivo ancora in forze per tornare a frequentare le sedute del mio psicologo. La morte del mio maestro mi aveva trascinato in un limbo di apatia. Nonostante l’incoraggiamento dei miei commilitoni e il sostegno dei miei amici, i miei sogni erano tornati agitati come prima. Ogni volta che chiudevo gli occhi cercavo di salvare inutilmente mia madre ma lei tutte le volte mi salutava e poi se ne andava. E io, per quanto corressi velocemente non riuscivo a raggiungerla.
Altre invece, sognavo Rhadamantys che mi faceva a pezzi sotto gli occhi disgustati di mio padre.
Infine, rivivevo la morte del mio maestro, il Gold Saint Odysseus di Ophiuchus, ora ancora di più che tutte le altre. E tutte le volte non potevo fare niente per impedirlo. Anche se mi aveva detto che era tutto ciò che desiderava, non ero d’accordo. Fosse dipeso da me nessun’altro sarebbe più morto.
Mi svegliai di soprassalto ansimando, con il cuore che batteva rapidamente per la paura. Misi a fuoco la stanza e, dopo qualche secondo, la riconobbi per la camera degli ospiti della Quarta Casa. 
Non ricordo come ci finii. So che fu Death Mask, una volta cessato l’effetto dell’Hypnotherapy a portarmi via. Finora era stato lui a passarmi una nuova tunica portata da un’ancella che la medesima mi aveva fatto indossare. Ero uscita soltanto per andare alla Tredicesima dopo la notizia riferitami da quel lecchino spudorato di paggio. Poi avevo fatto ritorno alla Quarta. Sì che come ingresso mi aveva sempre ricordato una tomba. Invece mai come adesso mi ricordò una tana. Un rifugio per la mia povera anima a pezzi. A prescindere dalle maschere. Ero talmente a pezzi che neanche le calcolai, sebbene avessi l’impressione che anche loro piangessero con me. 
Non volevo vedere nessuno, volevo solo restarmene in pace con il mio dolore. Death Mask e Lancelot facevano a turno per assistermi. Mi tenevano compagnia, principalmente. Soprattutto il giorno e, se per caso uno era impegnato, l’altro restava sempre con me. Per il resto non avevo mangiato per cinque giorni, ero andata avanti solo ad acqua e lacrime. Mi stavo trasformando in cadavere sotto ai loro occhi. E loro stavano cercando di impedirmelo, mettendomi davanti il cibo e mangiando insieme a me, dopo giorni che avevo passato digiuno o quasi a causa delle crisi.
Mangiavamo in un silenzio quasi sacrale.
Non erano bravi a consolare, ma che consolazioni puoi aspettarti di ricevere da due assassini? Era già tanto che non avessero cercato di uccidermi.
Eppure, in quel momento, persino loro andavano bene perché scacciasse la mia paura. In un certo senso era come essere tornati indietro nel tempo, prima che scoprissi che Aphrodite, lui, Kiki e Mur mi tenevano d’occhio. E ora rivedevo di nuovo gli occhi di Odysseus, mentre spirava tra le mie braccia. E il grido che lanciavo nel sogno, lo lanciavo anche nella realtà.
Proprio come quello che, questa notte mi svegliò. Mi ritrovai seduta ad ansimare per la paura. Lo stomaco in subbuglio. Lo sapevo riconoscere ormai, anche dal lieve tremolio delle mie viscere.
Mi portai una mano allo stomaco mentre cercavo di regolarizzare il respiro e impedire all’onda di marea della crisi di travolgermi.
«Ehi, stai bene?» Domandò la voce di Death Mask e io sobbalzai, trovandomelo di fronte, incorniciato sulla soglia, la faccia atterrita. Una mano sullo stipite e una lucerna nell’altra. Arretrai da seduta, sussultando di nuovo: la luce della fiammella gettava ombre inquietanti sui suoi lineamenti.  
Death non era un guardone, anzi, per essere telepate, era piuttosto discreto. Almeno con me, rispettava di parecchio la mia privacy.
Scossi il capo mordendomi il labbro prima di cominciare a tremare. Non ne potevo più di queste uccisioni, non volevo più vedere le mie mani macchiate di sangue. Che fosse Ichor o Aima non m’importava, volevo tornare quella di prima. Ma non lo sarei stata mai più, perché era stata tutta una menzogna. Quella Astrid che lavorava al Kazablanc, che viveva come una persona normale, non era mai esistita. 
Death Mask si avvicinò, posò la lucerna sul comodino, si sedette sul bordo del letto e mi pose una mano sulla testa, impacciato. Dopo un iniziale momento di smarrimento, mi aggrappai a lui e piansi. Lui s’irrigidì per la sorpresa ma invece di respingermi ricambiò: «Va tutto bene, era solo un sogno». Cercò di convincermi, cercando di non mostrarsi troppo disgustato. Mentre mi abbracciava poggiò il mento sulla mia testa, incastrandomi nell’incavo del suo collo, rivestendomi come un esoscheletro e coprendo le ferite ancora aperte della mia anima. Per essere un assassino sapeva mentire benissimo con il corpo. Ed era un bene perché adesso avevo bisogno di credere che fosse una persona per bene e che potesse scacciare i miei demoni interiori.
Mi tenne stretta a sé finché non mi fui calmata o, almeno, esaurii le lacrime per quella sera e l’ansia si ritrasse un poco.  «Su, su, adesso smetti di piangere». Fece passandomi un fazzoletto che recuperò dal cassetto del comò, dove gli dissi di aver messo i pacchetti. Al povero diavolo avevo sporcato la canottiera che usava per dormire.
Mi scusai e mi pulii il viso, cercando di cancellare le tracce del mio pianto e della mia disperazione. Lui ne usò un altro per ripulirsi alla bell’e meglio a sua volta, cercando di mitigare il più possibile la sua espressione schifata. E, come dargli torto?
Ormai avevo perso la cognizione del tempo. Sapevo solo che l’unica non facevo, altro non era che piangere. Mi domandai come mai non mi si fossero seccati gli occhi, a forza di piangere tanto. Perché non fossi ancora diventata afona o perché non mi avessero ancora buttata fuori.
«Mi dispiace». Mormorai così piano che quasi fu un pensiero che un mormorio. 
«Di cosa?» Rispose mentre finiva di pulirsi, appallottolava il fazzoletto e lo gettava nel cestino.
«Di questo, di tutto e del fastidio che vi do». Spiegai. “Io non merito tutto questo disturbo”. Pensai ma non fui capace di dirglielo. Mi vergognavo anche di me stessa per costringerlo a sorbirsi tutto questo. Avrei preferito che mi scacciasse. E, sapevo che lui lo sentiva, che mi stava leggendo nel pensiero. Ma che ero troppo afflitta per chiederglielo. Non erano neppure pensieri, erano più che altro emozioni. Grazie alle precedenti lezioni di Kanon avevo imparato a riconoscere le sensazioni delle letture del pensiero.  «Ormai ci sono abituato». Rispose tranquillo, guardandomi. «E poi ti capisco benissimo. Se non fosse che sentivo il bisogno di vendicarla, probabilmente mi sarei lasciato andare come te, solo che nessuno mi avrebbe aiutato e, forse, non sarebbe servito a niente comunque». Sapevo a chi si stesse riferendo. Morendo aveva sperato, almeno un po’, di poter riunirsi a lei, ma non gli era stato concesso neanche questo.
«Per questo mi stai aiutando?»
«No». Lo guardai confusa e intimorita. Mi guardò dritto negli occhi e rispose:  «Lo faccio perché siamo amici». Strabuzzai i miei per lo stupore. Lui mi guardò con intenzione e disse: «Se non ci credi sonda le mie emozioni, guarda tu stessa cosa provo». Ci provai, incerta. Dopo un po’, quando riuscii a concentrarmi, percepii il suo dispiacere e la sua tristezza per me, per non sapere bene come comportarsi. Sentii il suo desiderio di vedermi di nuovo sorridere e tornare a cantare come prima. La sua frustrazione con sé stesso per non saper fare di meglio. Stava cercando di infondermi speranza e di farmi capire che non ero sola. Lui era stato il primo che si era avvicinato a me, che mi aveva protetto dall’inizio alla fine e nessuno gli aveva detto di farlo. Come avevo fatto a non capirlo quando Argor mi pietrificò? Dai suoi rimproveri e da tutte quelle volte che mi era stato vicino? Io credevo che era perché qualcuno gliel’avesse ordinato, o per via del suo debito non perché mi volesse bene. In quel momento realizzai di essere la seconda persona che desiderava proteggere.
Per la prima volta mi apparve sotto una luce diversa. Sapevo che a volte gli assassini risparmiavano qualcuno, credevo di essere io quel qualcuno. Non che proprio si rifiutasse di uccidermi per tutt’una serie diversa di motivi che con il dovere non c’entravano una cippa. 
Lo guardai sbalordita e anche malinconica. Fino a quel momento non avevo mai pensato che il suo affetto per me fosse molto più genuino di quanto sembrasse. Come avevo fatto a non accorgermene prima? Appena finito di percepire tutto questo, sentii il calore tornare a invadermi il petto e mi si allargò il cuore. Provai un gran moto d’affetto per lui che, forse, non aveva idea di quanto questi tentativi, significassero per me.  
Un piccolo sorriso commosso s’impossessò del mio volto. «Davvero?»
Asserì con il capo senza dire niente e poi tolse la mano dai miei capelli. «Sì, aspetta un attimo».
Si alzò e uscì dalla mia camera per ritornare con un sacchetto. Risvegliando un ricordo risalente a quasi sette mesi prima, strappandomi così un altro sorriso involontario, nonostante la tristezza e il dolore: «Brioches?»
«No, biscotti. Stavolta però non divorarli». Si raccomandò.
Un sorriso involontario curvò le mie labbra: «Te lo ricordi, eh?»
«Non si scorda facilmente una che si strafoga neanche fosse un lupo mannaro».
«Te lo feci apposta». Rivelai un po’divertita, scostandomi la frangia dal volto. In effetti la sua faccia sconcertata era così buffa, che il solo ricordo mi strappò una risatina sommessa, nonostante la distruzione e il dolore dentro di me. Normalmente Death non amava essere deriso, però si limitò a curvare la bocca in un sorriso. Se ripenso a quel giorno, non saprei dire chi di noi due fosse più spaventato dall’altro. Io lo facevo per spaventarli perché mi spaventavano, loro pur essendo spaventati quanto me, cercavano di aiutarmi. Avevamo quasi lo stesso sguardo, solo che non ce ne eravamo resi conto. «Lo immaginavo. Non mi chiedi se c’è il veleno?» Scherzò e io lo accontentai. «Non è che sono avvelenati?»
«No, tranquilla, anche perché, già che ci sono, ne vorrei un po’anch’io».
«Accomodati». E passammo quella parte di nottata a mangiare i biscotti. Alla fine mi sentii un po’ più in forze e molto meglio rispetto a prima. La paura era passata e così anche l’ansia. La tristezza che rendeva il tutto più agrodolce ci avrebbe messo di più a passare.
«Adesso cerca di dormire un po’, va bene? Ti lascio la candela accesa». Disse accennando al lume che aveva rischiarato la mia camera per queste ore. E che si era consumata.
«Ci provo». Risposi.
«Buonanotte, Astrid».
«Buonanotte, Death». E uscì. Restai a guardare per un po’ la fiammella ondeggiante al ritmo lieve del mio respiro. Sulla pelle e nel cuore, sentivo ancora il suo tocco e il calore che era riuscito a infondermi. Poi, soffiai sulla candela e le tenebre tornarono ad avvolgere la stanza. Solo che il freddo non ebbe più il potere d’intaccarmi e di terrorizzarmi. E, malgrado la tristezza e il dolore, riuscii a chiudere gli occhi e riaddormentarmi. 
E dopo l’annichilimento, ci fu la fase della rabbia. Non mi guardai allo specchio mentre mi spazzolavo i capelli, ormai lunghi fin sotto alla gabbia toracica. Non avevo il coraggio di incrociare il mio stesso sguardo. Non ero certa di cosa avrei trovato una volta che avessi guardato sulla superficie riflettente. E, forse era anche questo a spaventarmi quasi più di ogni altra cosa.
Non era come quando persi Snakye, il cui tatuaggio, era ancora nascosto dalla benda sul polso. Questo dolore era ancora più forte. Avevo lottato tanto per ritrovare il mio maestro e la mia memoria per lasciarla andare subito. Forse sarebbe stato meglio non ricordare affatto.
Non avrei mai creduto che la persona che amavo mi avrebbe aggredito a quel modo. Anche se alla fine si era rivelato tutto un trucco, il dolore che provavo era reale e, questo, non potevo dimenticarlo.
Prima che sospendessi le visite il mio psicologo diceva sempre che era per via di tutti questi tradimenti che avevo l’ansia. Secondo lui, la mia mente si era ormai convinta che non potessi fidarmi di nessuno. Era il prezzo che avevo pagato per la mia stupidità infantile e la mia investitura a Medico del Cielo. Anche se gli altri mi consideravano, erroneamente, una Gold Saint. Già, ero diventata un Cavaliere d’Oro; il Cavaliere d’Oro di Ophiuchus e una Specter. Quale ironia: una Specter che diventa Cavaliere d’Oro. Accidenti ad Aiolia e tutte quelle volte che aveva insinuato che lo fossi. Se magari fosse stato zitto, non ci sarei mai diventata, giusto per proprietà dell’etichettamento: accusa una persona di essere una cosa e un giorno quella persona lo diventerà.
Piano piano mi calmai.
«Va meglio?» Mi chiese Death quando mi lasciò andare e mi soffiai il naso nel fazzoletto che mi passò.
«Sì, grazie… Vado… in bagno». Balbettai. Quando fui dentro mi chiusi la porta alle spalle e accesi la luce, che sapevo essere sulla mia destra. Mi guardai allo specchio dopo essermi sciacquata il volto.
Uscii dal bagno e trovai Death che mi aspettava fuori della porta della mia stanza. «Grazie ancora e, scusa per averti svegliato».
«Non ci pensare, adesso cerca di dormire». Fece carezzandomi la testa per un momento. Un gesto che gli stava diventando abituale. Poi tornò in camera sua.  Ma non dormii più.  
Per risolvere questo problema riflettei una notte intera. All’alba del giorno dopo giunsi a tre conclusioni: o lo soffocavo e, di conseguenza, un giorno sarebbe esploso, travolgendomi, o lo sfogavo subito e rischiavo di farmi scoprire, oppure lo incanalavo da qualche parte.
Ma non riuscivo a vedere quale percorso intraprendere. Mi sembrava di essere diventata una specie di Saga II. Non rischiavo uno sdoppiamento di personalità ma un cambiamento più simile a quello di Lena nel secondo libro di Beautiful Creatures. Adesso che sapevo cosa si provasse a sentirsi così in bilico, avrei fatto meglio a non canzonarlo più di tanto. Ma io, a differenza di Saga, uno psicologo lo frequentavo già e, non avevo paura di chiedere aiuto. Sicuramente mi avrebbe dato una mano a controllarmi per evitare che la Stella Malefica prendesse il sopravvento. Ma era la cosa giusta da fare, considerando che ciò avrebbe potuto causare non pochi disastri? Ora potevo parlare tranquillamente del mio maestro con lo psicologo. Di come mi avesse salvato più volte, in passato e ora fino a che non era rimasto il vuoto. D’accordo il segreto professionale paziente e dottore, ma ero una Saint e lui lavorava per il Santuario. Come potevo parlargliene senza scatenare una Guerra e la fine del trattato? Shun mi aveva spiegato che non rientrava nei patti di alleanza un’altra corruzione. Come se non bastasse, avevo anche un altro problema che si poteva riassumere in questi versi:   
        
S.O.S. il tempo vola
S.O.S. il tempo scade.

Muoviti: manca poco a mezzanotte.
Lo starter ha già sparato.
Corri, Astrid, la gara è cominciata.
 
Un minuto a mezzanotte.

Questo era ciò che il Tutto mi suggeriva. Perfetto. Ogni mattina appena sveglia queste quattro parole non facevano altro che rimbalzare nella mia mente come un mantra ripetuto all’infinito. Era quasi ovvio che me le segnassi, no?  
Se questa storia fosse stata un film vecchio stile, di quelli che davano in TV nei primi anni Duemila, adesso sarebbe comparsa la scritta “Fine primo tempo” e sarebbe partita la pubblicità. Sfortunatamente non era un film e non c’era nessuna pubblicità. Non c’era intermezzo e non c’era Baglioni a cantare la sua canzone per combattere la noia. Perché non c’era neanche quella, c’era solo tristezza ed io avevo maturato di aver appena finito il mio primo tempo come Saint
Adesso toccava al secondo. Max Pezzali cantava: Che c’è il mio secondo tempo e non voglio perdermelo. Il mio secondo tempo come Saint era cominciato sotto i peggiori auspici. Mia madre era morta e Seiya non aveva saputo dirmi perché né era riuscito a salvarla. Non ero riuscita a salvare tutti i tributi degli Inferi, uno di loro l’avevo ucciso io stessa e ne stavo pagando le conseguenze. Infine il mio maestro si era fatto ammazzare da me.
Mi presi la testa tra le mani, affondando le dita nei capelli.
I volti di Tokaki e di Odysseus affiorarono nella mia visuale e il mio cuore si strinse in una morsa.
«Signori, perché a me? Che cosa vi ho fatto?» Mormorai sigillando gli occhi. Spostai le mani dai miei capelli e le congiunsi in preghiera davanti alla mia bocca: «Vi prego, che cosa volete da me?» Anche se Camus me l’aveva già detto negli Inferi io non mi ero fidata, anzi no, non l’avevo voluto ascoltare. Quello che mi sorprendeva, a parte che si fosse mosso proprio il Custode della Decima, fu il mio stoicismo. Non avevo fatto una piega per accogliere il suo dolore e realizzare il suo desiderio. Chissà perché ma mi era più facile mettere da parte i miei problemi per aiutare gli altri, invece che me stessa. Proprio come quando ero più giovane e mi sentivo tutta sbagliata dentro e combinavo “disastri” senza accorgermene. Già, adesso che avevo a che fare con dei veri drammi e veri disastri, mi rendevo conto di tutta la mia inesperienza e ingenuità. Io non sapevo ancora proteggere le persone. Avevo osato il passo più lungo della gamba e ora, al mio elenco insanguinato si erano aggiunti anche il mio maestro, Anna, Iago, Saoirse, Tokaki e Neji. Tutte quelle vite stroncate a causa della mia inesperienza. E anche se avessi avuto una seconda occasione nella prossima vita, probabilmente non li avrei riconosciuti.
Accidenti a me. Se solo fossi stata più abile e meno distratta.
Sentii un fruscio e girai la testa di scatto in quella direzione e mi parve di scorgere Death Mask scomparire oltre l’uscio. Già. Sicuramente si stava rompendo le scatole di avermi qui e, come dargli torto.

Avevo bisogno di prendere una boccata d’aria fresca. La Quarta Casa cominciava a puzzare di stantio per i miei gusti. Mi lavai, mi pettinai e mi vestii. Mentre stavo allacciando i sandali, il domestico di turno mi domandò: «Ristrutturerete il Tempio d’Ophiuchus, mia Signora?» Roteai gli occhi ed emisi un verso esasperato: «Per l’ultima volta, non sono la tua Signora e no, non lo farò. Perché me lo chiedi?» Chiesi poi. Dal funerale di Odysseus tutti mi apostrofavano così.  
«Alla Tredicesima Casa si vocifera di sì». Spiegò con un misto di perplessità e delusione. Lo guardai confusa a mia volta: «Cioè?»
Il ragazzo s’impappinò: «Che adesso che il Tredicesimo Cavaliere è tornato, ci sarà bisogno di restaurare il suo Tempio, non potrete stare per sempre nella Tredicesima Casa, dovete assolvere anche i vostri doveri di Gold Saint. So che state già cercando degli operai, posso offrirmi volontario?» Domandò, sperando in una paga di qualche tipo, dal momento che il mio status si era elevato di molto. Logico, no? Per quale altro motivo avrebbe dovuto rivolgermi la parola e a quel modo? Ma le sue parole, il suo tono entusiasta, mi fece imbestialire. «Chi te l’ha detto?» Domandai invece, irata, incrociando le braccia e inarcando un sopracciglio. L’altro capì di non aver fatto una mossa molto intelligente, perciò rispose, incerto: «L’ho sentito dire dal Gran Sacerdote».
Sospirai e chiusi gli occhi, portandomi una mano alla radice del naso. Poi la aprii e mi coprii le palpebre sibilando: «Kanon.» in tono esasperato.  
«Non so chi sia questo Kanon». Mormorò l’altro in tono di scuse. Io lo ignorai. Mi diressi, invece, verso la Tredicesima Casa passando per i sentieri dei servi, più per abitudine che per reale volontà.
Presi i sentieri segreti dei domestici e qualche scorciatoia che mi aveva mostrato Odysseus molto tempo prima. in un quarto d’ora giunsi alla Tredicesima passando dal retro. Attraversai le cucine e, dopo aver superato numerosi corridoi e qualche stanza, sempre sotto l’occhio vigile dei soldati che si inchinarono al mio passaggio, bussai alla porta laterale della Sala del Trono.
La porta si aprì e mi ritrovai di fronte Mr Simpatia, il quale inarcò le sopracciglia per lo stupore: «Nobile Astrid!» Esclamò e Kanon, dall’altra parte, fece eco stupefatto.
«Scusatemi Zenais, non ho fatto tutta questa strada per essere fermata proprio adesso. Desidero parlare con il Gran Sacerdote, è urgente». Non so neppure io come feci a mantenere il tono di voce arrabbiato e a non pensare a ciò che si stava agitando dentro di me. Proteggendomi così dai poteri mentali del Gran Sacerdote.
«Il Gran Sacerdote…» Iniziò ma il Patriarca lo interruppe con un «Falla passare», sicché Mr Simpatia richiuse la bocca e si fece da parte, lasciandomi entrare. 
Feci una piccola riverenza a Kanon e poi mi raddrizzai. «Oggi un ragazzo è venuto da me e mi ha chiesto quando inizieranno i lavori di ristrutturazione del Tempio d’Ophiuchus, che cos’è questa storia e perché non sono stata interpellata?» Gli domandai, indignata, impedendogli di parlare. 
«La tua domanda è legittima». Rispose alzandosi. Poi prese fiato e continuò che: «Dal momento che sei il nuovo Gold Saint di Ophiuchus devi prendere il tuo posto tra le schiere della Dea ed è giusto che anche tu abbia la tua Casa».
«Scordatelo!» Sbottai dopo qualche secondo e l’eco di questa parola rimbombò per tutta la Sala per qualche secondo. «Come, prego?» Domandò con finta sorpresa quando l’eco scomparve. Sapevo che stava concedendomi la possibilità di rimangiarmi le mie parole, ma non m’importò. «Ho detto: scordatelo; cosa c’è di difficile in questa parola? Ce l’avete già un Saint di Ophiuchus, non avete bisogno di me». Il mio rifiuto non lo scalfì nemmeno. Era come se lo avesse preventivato, perché controbatté: «Invece sì. Shaina è solo un Silver Saint, il suo Cosmo, per quanto lei si possa sforzare e si sia sforzata, non raggiungerà mai i livelli di un Gold Saint. Dacché ha messo piede al Santuario ci ha provato con tutta sé stessa ma non ha mai raggiunto il Settimo Senso. Certo, è abile, è forte, è astuta, è intelligente ed è spietata, ma non potrà mai raggiungere i livelli di un Gold. Per di più non potrà continuare ad assolvere ai suoi doveri ancora per molto, mentre tu sei giovane, in salute, padroneggi delle tecniche altrimenti perdute per sempre e, sei forte. Inoltre lei stessa rifiuta questa carica per paura della maledizione. Tutti al Grande Tempio temono quel luogo, ma tu no, perché è la tua Casa e lo sai. Mi domando perché tu non ne prenda legittimamente possesso». 
Questo significava che in me si era già destato il Settimo Senso per sconfiggere Odysseus? Allora perché non lo sentivo? Ma non era questo ciò che mi premeva: «E, finire a presidiarla per il resto della mia esistenza? Restare nella Casa a combattere i nemici che mi si presenteranno innanzi e non potermi muovere finché non riceverò l’ordine contrario? Neanche per sogno». Sospirai e sentii la forza concessami dalla rabbia cominciare ad abbandonarmi. «Ascoltate, vi sono immensamente grata per essermi venuti a riprendere agli Inferi e, per tutto quello che avete fatto per me fino a questo momento, ma io non sono una guerriera, ce la faccio a malapena a non avere una crisi d’ansia in questo momento e, pretendete che io assolva al dovere di un Saint? Anche se ho giurato fedeltà ad Atena le Sacre Vestigia del mio maestro non mi riconosceranno mai come loro proprietaria. Non solo perché non ho risvegliato niente ma perché l’unica cosa che voglio in questo momento è seppellirla assieme a lui. È con lui che deve stare. Io non sarò mai il nuovo Gold Saint d’Ophiuchus, fatevene una ragione e...» Non feci in tempo a completare la frase che mi interruppe con un grido rabbioso: «Tu adesso non sei più una semplice ancella e neanche più la custode della Luce Ombrosa! Tu sei una Gold Saint e hai dei doveri da rispettare! E, come tale ci si aspetta che tu li rispetti! Hai capito?» La mia risposta non cambiò neanche di fronte alle minacce.
E da allora restai nel salotto di Death Mask. Non so quanto tempo passò. So solo che a un certo punto me lo ritrovai davanti, incavolato nero. «Alzati». Esclamò autorevole. Sollevai lo sguardo su di lui senza vederlo. Una volta mi sarei anche spaventata, adesso non mi diceva niente. Lui invece mi guardava furioso con quei suoi occhi spettrali. «Cosa cazzo stai facendo? Ti sembra questo il momento di fermarti? Cosa cazzo ti credi di fare? Credi che il tuo maestro vorrebbe vederti così? Ti senti impotente perché tutte le sfighe sono cadute addosso a te? Beh non è così, svegliati! Odysseus è morto, fattene una ragione!» Ma le sue parole mi sembravano vuote e arrivare da molto lontano. Lui si passò una mano in faccia e poi emise un verso di frustrazione. «Ma guardati, una volta mi avresti risposto in qualche modo, mi avresti anche rimesso in riga o staccato la testa a morsi e adesso neanche quello».
Se ne andò lasciandomi lì a fissarlo senza capire bene cosa fosse successo.

Qualche giorno dopo questo fatto, Shura scese di nuovo alla Quarta. Stavo giocherellando con il cibo della colazione, cercando di ignorare gli inutili tentativi di Lancelot di tirarmi su di morale e i sibili stizziti che Death indirizzava a quest’ultimo per farlo tacere; ché non aveva voglia di sentirlo fiatare già di prima mattina. A quel punto avevamo sentito il rumore di un paio di nocche bussare sulla porta. Ci eravamo girati e lo avevamo visto in piedi, nella sua tenuta d’allenamento, con tanto di pettorali, bracciali, coprispalle e ginocchiere di cuoio sopra una canottiera verde scuro e pantaloni neri come la sua chioma.
«Mio Re». Salutò Lancelot sbalordito.
«Oh buongiorno Shura, cosa ci fai qui a quest’ora?» Domandò Death Mask, incuriosito e in un tono più gentile del solito, sicuramente per non traumatizzarmi. Come se ci volesse così poco. «Scendi ad allenarti? Aspetta un momento che finisco qui e vengo anch’io». Disse poi ma lo spagnolo lo congelò rivelando che «In realtà sono qui per lei». Disse guardandomi. Ricambiai con tanto d’occhi e mi cadde il cucchiaio di mano per lo stupore.
«Per lei? Perché?» Domandò il siciliano balzando in piedi, improvvisamente alterato.
Shura non si scomodava così per niente e non eravamo amiconi. Quindi il motivo doveva essere uno solo: Kanon. «Ce l’ho già avuto un maestro, non ho più niente da imparare». Dichiarai a mia volta in tono secco, dopo averlo fulminato con lo sguardo. Poi tornai a occuparmi della mia colazione come a dire: “discorso chiuso”. Mi portai la tazza di caffè alle labbra. Mentre bevevo Shura si pose alla mia sinistra e mi fissò insistentemente finché non ce la feci più a ignorarlo. Misi giù la tazza pulendomi la bocca con il tovagliolo, lo guardai infastidita con le sopracciglia aggrottate.
«Invece, hai tanto da imparare». Mi contraddisse quando ebbe la mia attenzione. «Per prima cosa ad ascoltare fino in fondo ciò che hanno da dire i tuoi interlocutori, seconda cosa, a portare un po’di rispetto e terza cosa, me l’ha chiesto la Dea Atena in persona».   
«Per prima cosa no se ciò che hai da dire non rientra nei miei piani; devo capire che cosa sia quella Sfera che le Creature mi hanno dato, cosa ha a che vedere con me e quale sia il compito di un Medico del Cielo. Seconda cosa mi scuso se ti ho dato quest’impressione ma no, non ci tengo a uccidere un altro maestro e terza chiedi scusa alla Dea da parte mia ma ti ha scomodato per niente. E poi sono solo un’ancella è meglio che riprenda il mio lavoro, mi sono assentata anche troppo». Ribattei scostando la sedia e alzandomi. In realtà della Sfera Nera mi ero completamente dimenticata da un po’. A quelle parole Shura si irrigidì come se avessi bestemmiato contro la Divinità. Lui che era sempre così ligio al proprio dovere e che ogni parola di Atena o del suo Portavoce in Terra era legge, non poteva sopportare questo rifiuto.
«Con permesso». Mormorai andandomene, cercando di mantenere la voce più salda che potevo.
Forse non arrivava nemmeno a capire perché la Dea desiderasse che mi allenasse. Sperava che alla fine io potessi prendere il posto che mi spettava tra le mie schiere e combattessi per lei, vincolata da un probabile giuramento di fedeltà. Ma se Lady Isabel credeva che fossi così stupida da cascarci, si sbagliava.  Mi aspettai che il Cavaliere di Capricorn mi seguisse e cercasse di fermarmi, magari convincermi a cambiare idea, invece non lo fece. Per fortuna.
Così andai al lavoro. All’ufficio di collocamento, tutti smisero di fare ciò che facevano e di chiacchierare per fissarmi e, poi, s’inchinarono mormorando: «Gold Saint d’Ophiuchus» o «Nobile Astrid». Makarios mi venne incontro, disegnò un inchino e mi domandò, un pizzico di timore reverenziale negli occhi e nella voce: «Nobile Astrid, cosa fate in questi luoghi? Siete venuta a controllare il nostro operato, forse?» Fu strano e abbacchiante sentirlo parlare così formalmente e senza neanche una traccia di quel tono beffardo che gli conoscevo. Se avevo sperato di ritrovare una parvenza di normalità, mi ero sbagliata. Ma non ero intenzionata ad arrendermi così facilmente. Per cui strinsi le labbra per un momento. Presi coraggio per mantenere la voce salda e dissi: «No, rialzati, per favore, tutti voi, rialzatevi, per favore, non sono un Gold Saint, sono ancora un’ancella e, sono venuta per lavorare». A forza di ripetere queste suppliche, evidenziandole con i gesti, riuscii a farli rialzare. Non riuscii a convincerli: ai loro occhi non ero più una loro collega. Neanche Chrysafi riuscì a guardarmi. Neanche Lythos, che era presente. “No, vi prego, non guardatemi così, vi prego”. Implorai disperata mentalmente. 
«Lavorare?» Domandò il giovane come se avessi parlato di nuovo in un’altra lingua. Mi sentii improvvisamente tagliata fuori da tutti loro, un po’ come all’inizio. Però non mi arresi: «Sì, mi sono assentata dal lavoro per quasi tre mesi, spero che questo non pregiudichi la mia posizione. Sono venuta qui per chiedervi di riprendere, mi va bene anche qualche lavoretto, sono disposta a farlo anche gratis, se ciò può farvi piacere, poi deciderete voi se riammettermi o no. Ti prego». Sussurrai, sperando che mi accettasse.
«D’accordo se è ciò che desiderate segnatevi pure nella casella vuota». Disse, incerto indicandomi la lavagna. Avrei preferito che mi ricordasse che ormai appartenevo alla Tredicesima, invece che accontentarmi così passivamente. Ma mi costrinsi a farmi andare bene questo trattamento.      

Purtroppo la tintoria era in ferie, perciò mi ero dovuta arrangiare con un vecchio lavatoio ancora in funzione. Prima di cominciare a lavorare mi sciaquai le mani e, mettendole a coppa, raccolsi un po’d’acqua e bevvi per sedare la sete. Quando mi fui dissetata e feci per cominciare a lavorare vidi il mio riflesso. Avevo delle occhiaie da spavento e un’aria distrutta e sofferente. I miei occhi erano bui e grigi, come se tutta la loro luce fosse stata risucchiata in un buco nero. Ma questo, ne ero sicura, non aveva nulla a che vedere con gli Inferi. A volte mentre lavoravo mi fermavo per riprendere fiato o strizzare i vestiti quando erano troppo impregnati d’acqua. Dovevo stare attenta a non rovinarglieli, ma non c’era pericolo, stavolta stavo usando una semplice saponetta. Ci avrei messo molto di più ma almeno mi sarei concentrata su qualcosa. O così speravo. La verità era che mi domandavo che cosa mi fosse successo. Se la ragazza che prima avevo intravisto riflessa nell’acqua fossi veramente io.  
Avevo quasi finito quando qualcuno mi mise sotto al naso una bella pesca noce, come piacevano a me. «Tieni». Disse la voce della Piattola, in tono gentile. Da quando aveva scoperto che non lo conoscevo si era addolcito. Anche se manteneva lo stesso una qual certa rigidità sia nei modi sia nel portamento.
Lo guardai tergendomi il sudore dalla fronte poi mi appoggiai al lavatoio. Lui sostenne il mio sguardo, si vedeva che era triste per me. «Stai lavorando da tutta la mattina, mangia qualcosa». Mi pregò garbato. Il mio stomaco rumoreggiò come a sottolineare le sue parole. 
Annuii e la presi e, dopo averla lavata sotto al getto d’acqua, mangiai. Il tutto sotto ai suoi occhi chiari, che non si staccarono da me nemmeno per un attimo. Quando finii e gettai via il nocciolo me ne allungò una seconda. Mi girai verso di lui e vidi che aveva un intero sacchetto, fresco di mercato. Aveva fatto questa deviazione apposta? Ma certo, eravamo dall’altro lato della montagna del Santuario, cosa ci sarebbe venuto a fare qui, altrimenti? Presi anche questa e lo ringraziai. Si fece da parte sulla roccia e io mi accomodai accanto a lui. Poi mangiammo.
«Vuoi una mano?» Mi domandò riferendosi ai vestiti. Scossi la testa: «No, ce la faccio anche da sola, grazie». Visto che ero vicina a una fonte d’acqua potevo bagnarmi la testa quanto mi pareva per evitare l’insolazione. Per la pelle non c’era problema, mi ero messa la crema solare.  
«D’accordo, posso farti compagnia?»
«Sì, certo, anche se non ho molta voglia di parlare». Lo avvisai in tono di scuse.
«Non importa, ti capisco».
Stavo lavando i panni quando mi accorsi della presenza di qualcun altro alla mia destra. Ma non era Milo, lui stava alla mia sinistra e, teneva lo sguardo puntato nella direzione in cui sostava il nuovo arrivato.  Girai la testa nella medesima parte e vidi Shura. Sospirai. Avrei dovuto immaginarlo che non si sarebbe arreso così facilmente: «Che cosa vuoi?» Gli domandai seccata cercando di non roteare gli occhi. Possibile che non potessi smaltire le fasi del mio lutto in santa pace in questo posto? 
«Perché stai lavando i miei vestiti?» Domandò invece un po’confuso. Aveva l’aria di uno che mi avesse cercato dappertutto. Se fossi stata meno stanca lo avrei anche trattato male, tanto ormai mi consideravano una loro pari, non più soltanto un’ospite. Ma non avevo voglia di affrontare di nuovo l’argomento. «Perché sono un’ancella e oggi qualcuno doveva lavare questi abiti».
«Non lavoravi alla Tredicesima?» Domandò inarcando un sopracciglio, con aria confusa.
«É quello che le ho detto anch’io». Disse Milo facendo spallucce, accomodato sulla roccia a destra del lavatoio. Le ginocchia strette al petto e le braccia incrociate sopra di esse. 
Ripresi a sfregare con più forza.  
«Non dovresti farlo». Suggerì a un certo punto il Custode della Decima e io mi fermai quasi automaticamente, come se avesse spento il mio motore interno. Posai le mani sul bordo del lavatoio e chiusi gli occhi. Feci un respiro profondo. «Perché non posso?» Chiesi in tono lacrimoso.
«Perché il tuo Cosmo si è svegliato. So che per te queste parole non hanno alcun senso e che stai cercando di far finta che non sia cambiato niente, ma non potrai fingere ancora a lungo. Purtroppo lo sappiamo tutti e non è un atteggiamento onorevole». Concluse tristemente. Nel parlare colmò la distanza tra di noi.
«Chi se ne frega dell’onore». Sputai velenosa. E poi lui doveva essere l’ultima persona al mondo a parlarne, visto cosa l’aveva portato a fare il suo senso dell’onore. Ma non glielo dissi, non ero ancora così fuori da rinfacciargli un dolore. «Non ho chiesto io di diventarlo, se senti che il mio lutto ti offende allora per favore, ignorami e ignora le malelingue».
«Non è quello il problema». Anche se il mio primo impulso fu quello di scostarmi non lo feci. Sentivo gli occhi pizzicarmi per via delle lacrime. Aggrottai la fronte e chinai il capo, ma non riuscii a fermarle, che un paio caddero nel lavatoio.
Mi morsi il labbro per trattenere il gemito di pianto che stava per sgorgare dalla mia gola.  
Shura stava dicendo la verità e avevo paura. Era cambiato tutto, mi sentivo come se il mondo si fosse capovolto, io fossi caduta da qualche parte e fossi osservata da mostruosi occhi famelici. Come un uccellino caduto dal nido o un piccolo pipistrello che non è riuscito a volare e non può arrampicarsi per tornare alla sua tana. Attese che dicessi qualcosa. Alla fine riuscii ad aprire bocca e mi uscì un piccolissimo: «Ho paura». E in quelle due parole trasparì tutto ciò che provavo. La paura, le immagini di morte ogni volta che chiudevo gli occhi. Avevo giurato a me stessa di non uccidere mai più. E, invece mi ero ritrovata a infrangere di nuovo questo giuramento. Ad ora solo Raki, Kiki e Death Mask, potevano provare a immaginare quanta paura avessi.    
«Lo so». Disse posando una mano sulla mia spalla, impacciato e la strinse. Non era avvezzo a questi gesti, si sentiva, ma andava bene anche un rigido tocco come quello, purché potesse darmi la forza di rimettere insieme i pezzi. Coprii la sua con la mia, trattenendola. «Ma ora sei una di noi, non lasceremo che un membro della fratellanza dei Gold Saint resti in difficoltà». Promise. Strinse di più la presa e disse: «Non c’è bisogno di un giuramento per riconoscere e accogliere una sorella. Benvenuta tra noi, Astrid di Ophiuchus». Le stesse parole che gli disse Saga per non lasciarlo andare alla deriva dopo la morte di Izo. Mai però mi sarei sognata di sentirmele dire proprio da lui.
Mi asciugai le lacrime con il dorso dell’altra mano. Shura sfilò la sua e nessuno dei due tentò di avvicinarsi. Nemmeno quando aprii bocca e dissi: «Non chiamarmi così. Non è quello il mio nome».
«Allora come vuoi essere chiamata?»
«Solo Astrid, Astrid del Serpentario». Dissi, con un piccolo sforzo per tenere salda la voce.
«Va bene».  Poi ci salutò e se ne andò.

Quella sera tornai alla Tredicesima alla mia stanza. Death Mask e Lancelot ne furono abbastanza dispiaciuti, forse più Lancelot che Death, ma accettarono la mia decisione. I miei colleghi della Casa di Atena si zittirono di colpo quando mi videro. Poi disegnarono inchini e riverenze mormorando: «Nobile Astrid». Cui ricambiai con un cenno del capo prima di  lasciarmi passare.
La mia stanza era rimasta uguale a quella notte. Sembrava che il tempo si fosse fermato. Sentii gli occhi riempirsi di lacrime di dolore, ma sopportai. Non avrebbe riportato in vita Odysseus lasciarla in quelle condizioni. Perciò cambiai le lenzuola, riassettai e la pulii.
Quando finii, mandai un messaggio alla mia amica. Era arrivato il momento di chiarirsi. Ci incontrammo in una locanda. Non le aveva dato fastidio raggiungermi qui. Anzi. «Astrid».
Mi girai e vidi Yoshino raggiungermi: «Ciao». Salutai in tono mogio. La mia amica si sedette vicino a me e mi cinse brevemente le spalle con un braccio. «Come stai?» Non mi fece le condoglianze, anche lei era presente al funerale.
«Ancora male». Lei non disse niente, dispiaciuta. Il locandiere venne da noi per le ordinazioni e prendemmo un apericena. Adesso che ero una Gold potevo fare un po’come mi pareva e nessuno poteva dirmi nulla se volevo uscire. Neanche Mylock. Dopo un po’ le raccontai cosa era successo e le chiesi consiglio: «Cosa devo fare secondo te?» Proprio in quel momento arrivò il nostro aperitivo.
«Per me dovresti accettare. Se esistono delle persone che possono infonderti speranza, sono proprio loro». E con loro capii che si stava riferendo ai Saint. Sbocconcellammo e bevemmo. Un sorrisino di scherno mi piegò le labbra. Speranza. Sì, certo, come no. “Proprio quello che mi serve in questo momento”, pensai ironica. «E se non fosse speranza quella che mi serve?»
Yoshino batté le palpebre perplessa e preoccupata. «Allora cosa ti serve?»
«La forza. Quella che mi ha permesso di trovare il modo di sciogliere la Gabbia Astrale, quella che mi ha condotto verso i ricordi mancanti e di rivelare il mio Cosmo. Quella che mi ha permesso di reagire». E il coraggio, soprattutto il coraggio.   
Finimmo di mangiare, pagammo e uscimmo. Yoshino se ne era rimasta zitta, pensierosa. Poi mi guardò e domandò: «Cosa ti aveva spinto qualche mese fa?» Alzai il dito verso il cielo meno luminoso. Nell’arco di un mese era peggiorato tantissimo. Era come se il firmamento si stesse svuotando. Allo stesso modo di come i Saint morivano. Anche se me lo nascondevano per non mettermi sotto pressione, sentivo la loro impazienza e la loro paura. Ogni notte andavano a dormire temendo fosse l’ultima e ogni mattina si svegliavano temendo di morire.
Stavolta le vittime erano i Cavalieri del Pesce Volante, della Mosca e dello Scultore, subito seguiti dal Dorado e dal Piscis Austrinus e dall’Hydrus. Prima se ne erano andati il Saint di Cepheus, la Saint di Indus e di Carena e il Saint di Lacertae. Altro che costellazioni estinte, qui si erano estinte delle vite e altre ancora avrebbero seguito lo stesso destino. Anche negli Inferi. Mi bastava battere le palpebre per vedere il Cielo Infero sopra di me, negativo oscuro della volta celeste. Esattamente come teorizzò l’astronomo in merito alle stelle nere. Le stelle infere non erano invisibili nel cielo, erano solo mimetizzate e solo i miei occhi potevano percepirle. Il mio passaggio era stato vano lo stesso, erano diminuite di trenta elementi e parecchi Specter, Skeleton e Velate minori. «E adesso?»
«Adesso non funziona più».
«Per me non è vero. É un periodo, vedrai che torneranno a infondertela di nuovo».  
Quella notte sognai di trovarmi in uno stadio sulla pista d’atletica leggera che circondava il campo da calcio. Ero ai blocchi di partenza e le altre persone ai posti erano persino più determinate di me. Ed erano tutti miei ex conoscenti universitari. Lo starter dette il via e tutti noi scattammo. A un tratto, mentre correvo, la mia pista cominciò ad assumere un colore dorato e poi a risplendere e sollevarsi sempre più in alto rispetto a tutti gli altri. La mia corsia improvvisamente cominciò ad assumere una colorazione dorata e mentre gli altri tagliavano il traguardo io continuavo su verso la volta celeste. Per la prima volta dopo settimane non mi svegliai piangendo e mi sentii di nuovo rilassata e un po’ più tranquilla. Cosa stavo facendo? Mi stavo lasciando morire ma non riuscivo a fermarmi.
Proprio in quel momento qualcuno bussò alla mia porta. A quest’ora? Presi il telefono e lo accesi: erano solo le tre. Accesi la lucerna e andai ad aprire e mi ritrovai davanti una ragazza poco più alta di me con i capelli striati d’argento dai lineamenti molto simili a quelli della Dea Atena. La differenza era che indossava dei gioielli di smeraldo e che aveva le labbra carnose e la carnagione scura.
Anche nella penombra i suoi occhi erano lucenti di gioia e sembrava il ritratto dell’emozione. La cosa strana era che sembrava sprizzare luce da tutti i pori. Addirittura mi fece il namastè e disse: «Ciao». Sempre con un sorriso smagliante. Ricambiai confusa poi le domandai: «Scusa, credo di essere ancora addormentata ma non credo di averti mai visto prima».
Il suo sorriso si spense e le sue guance già scure si scurirono di più. Si passò una mano tra i capelli e scoppiò in una risata: «Ah, scusami. Forse ho scelto il momento sbagliato e ti ho tirato giù dal letto. Scusami tanto, forse sarei dovuta passare tra qualche ora ma non ce la facevo più ad aspettare. Cioè non stavo più nella pelle». S’incartò e scoppiò di nuovo a ridere, di una risata piena, di pancia. Tesi le mani verso di lei e le mossi come a dire: “Frena frena”. Lei si zittì e abbassò la mano. Mi feci da parte per lasciarla entrare e lei mi guardò incredula come se le stessi facendo un grandissimo onore. «Davvero, mia signora?» Domandò sull’orlo della commozione. Ma dovetti ripeterle l’invito tre volte prima che lei accettasse e si accomodasse sul tappeto. Questa tipa era tanto strana. Richiusi la porta e mi sedetti sul letto. Restammo a guardarci. Lei continuando a sorridere emozionatissima e io assonnata e perplessa.
Alla fine fui io a rompere il silenzio: «E così non stavi più nella pelle?» Mi sembrava di essere in ascensore. Quelle scomode situazioni in cui sei in ascensore con qualcuno e non sai cosa dire.
«Mi deve scusare tanto è che l’occasione di incontrarla è talmente unica che non volevo lasciarmela sfuggire».  Feci un sorriso di circostanza. «Avevo anche preparato un piccolo presente da portarvi ma temo di essermelo scordato. Mi perdoni per questa infinita negligenza».   
Inarcai un sopracciglio: veramente non vedevo proprio di che dovesse scusarsi. Cioè, ok che era una regola di cortesia e ok che mi stavo appena svegliando. Ma come minimo questa comparsata meritava un calcio nel culo e una ridda di imprecazioni. Non tutta questa gentilezza che le stavo riservando. Poi era quasi divertente il modo in cui si stava prostrando ai miei piedi.
«Non preoccuparti, non importa. Potresti anche rialzarti e spiegarmi il motivo della tua visita, per favore?» Lei ripeté che voleva vedermi e parlarmi, tutto qui. «Scusa se te lo chiedo, ma ci siamo già incontrate da qualche parte?» Le chiesi imbarazzata più che mai. Lei chinò il capo in un cenno d’assenso. Ma mi ci volle un po’per interpretarlo in una maniera diversa da quella greca. «Tante volte».
«Sì? Non mi risulta». Mi scusai e mi passai una mano sulla testa, scostandomi i capelli.
«Bè, non adesso, adesso ti sei presa una pausa, ma l’ultima volta che ci siamo visti, tu mi hai aiutato tanto». Mi immobilizzai e la guardai. Che si riferisse alla mia anima? Cosa c’entrava adesso? «Tu non sei qui per me, vero?» Lei scosse il capo, stavolta più seria. «Ti sbagli, io sono qui per te, Astrid».
«Mi sembra proprio di no, ti rivolgi a me come se fossi chissà chi». Non ditemi che la mia vera forma era una specie di Divinità, per alcuni adesso. «Bè, in effetti tu sei chissà chi». Ammise.  
«Già, Il Cosmo, eh?» Domandai leggermente sprezzante, ma lei ignorò il mio tono.«Sì».
«E allora?»
«E allora sono venuta a conoscerti».
Adesso il torpore era sparito del tutto. «Mi hai conosciuto, bene, ora te ne puoi anche andare. Non t’interessa veramente di me, a te interessa la Luce Ombrosa».
Lei tacque per un po’ ma non si mosse. Anzi, sembrò riflettere un po’prima di guardarmi con compassione. Mi guardò come se sapessi esattamente ciò che provavo: «Luce Ombrosa, Cosmo, Creato, Astrid, per quanti nomi tu possa avere resti sempre tu e io sono qui per aiutarti anche se non mi credi». Continuò lei, speranzosa. La guardai senza capire bene da dove traesse questo entusiasmo. Poi come mi aveva chiamato? Creato? «Perché?»
«Perché tanto tempo fa hai ascoltato la mia preghiera, mi hai salvato la vita e io non posso fare altro che esprimerti la mia più profonda riconoscenza». Fece portando una mano al petto e inchinandosi leggermente.
«Non sono una Dea». Rilevai. Lei si alzò in piedi e mi guardò di nuovo con quegli occhi brillanti:  «É vero, sei molto di più». Sorrise raddrizzandosi. Il suo sorriso era smagliante eppure era un sorriso vero e spontaneo. Sembrava davvero felice di essere qui con me. Era come se la fonte della sua gioia fossi io. Lei non me lo nascose, anzi, ero proprio io la fonte della sua gioia. Lei mi amava in un certo senso. Un amore sconfinato per tutto ciò che rappresentavo e portavo in me. Per l’emanazione del Cosmo che ero.
Poi mi prese dolcemente per mano e mi alzò in piedi: «Permettimi di ricordartelo, permettimi di meravigliarti ancora». Mi portò con sé come una specie di sorella maggiore. Anche se stavamo andando contro il muro. Improvvisamente tutto attorno a noi si fece nero e una scia di polvere d’oro si mise a volteggiare attorno a noi. La mia stanza scomparve e la polvere di stelle si mise a creare le galassie, i colori, l’universo tutto intorno a noi. E mi meravigliò davvero. 
«Sembra Il pianeta del tesoro». Il mio cartone animato preferito, commentai sbalordita mentre mi separavo da lei.
«Ho sempre amato quel film». Sorrise lei guardandosi attorno, guardando con affetto le stelle e i pianeti che fluttuavano intorno a noi. Poi mi mostrò il cielo stellato. E facemmo a gara a riconoscere le costellazioni, le nebulose. Lei perse ma incassò bene la sconfitta. Poi mi raccontò che «Una volta anch’io mi ritrovai in una situazione molto simile alla sua».
«E cosa successe?»
«Seguii le stelle. La costellazione della Vergine è la mia costellazione guida». Rispose lei e, come se le avesse chiamate, le stelle di Virgo risplendettero. «E dove ti portarono?»
«Nel posto dove potei dare un senso alla mia vita. E lei? Cosa ha intenzione di fare?»
«Non lo so. Da quando ho perso il mio maestro…» Mi strinsi nelle spalle e sospirai: «É come se avessi anche perso la via».  
Lei abbassò un momento lo sguardo. Poi lo rialzò e mi guardò: «Allora le faccio un regalo». Si spostò fluttuando in una zona e la polvere d’oro la seguì, si posò sulle sue mani e lei se l’accostò alla bocca. Quando le discostò la polvere mi volteggiò attorno tre volte, prima di sparire. Anch’io girai su me stessa per guardarla. E mi ritrovai a fianco della sconosciuta, che, sempre sorridendo piena di compassione e amore, mi cinse le spalle con un braccio e m’indicò la costellazione del Serpentario. Solo allora mi ricordai del suo nome scientifico: Ophiuchus. Ophiuchus come Odysseus e da lì sentii risplendere anche il suo Cosmo d’Oro. Le lacrime mi rigarono le guance.
«Maestro…» Le stelle luccicarono di più, come a ricambiare il mio saluto.
«Vede? La vostra costellazione è sempre lì. Il Suo maestro non è scomparso, può sempre ritrovarlo, ogni volta che alzerete lo sguardo al cielo lui sarà lì. Gli potrà parlare tutte le volte che vorrà e lui l’ascolterà e risponderà. Lui veglierà sempre su di Lei». Promise sorridente. Poi mi rivelò che era stata lei a indirizzarlo da me quando nacqui. La guardai stupefatta: «Davvero?» Lei confermò.
«Lo conoscevi?»  Le domandai incredula.
«Da molto moltissimo tempo. Ma posso garantirti che il periodo più felice della sua vita è stato davvero quello che ha trascorso al tuo fianco. Sapeva che questo momento sarebbe arrivato e mi ha detto di riferirti queste parole: Cosa dice la canzone de Il Pianeta del tesoro?» Un altro indovinello. Le mie labbra si curvarono in un sorriso nostalgico e affondai le dita nelle braccia.
«Quale?» Lei mi sorrise enigmatica e mosse la testa come a dirmi: “Quella”. «Ma quale, quella degli 883?» Chiesi.
«Proprio quella. Odysseus mi diceva sempre che le piaceva da morire e che voleva diventare come il protagonista. Diceva sempre che nessuno ti avrebbe mai fermato perché non eri quel tipo di persona». “Allora mi ha ascoltato.” Credevo che non mi ascoltasse. «Già, una volta mi sarebbe piaciuto». Feci distogliendo lo sguardo. Mi misi a sedere e mi abbracciai le ginocchia. «E ora che cos’è cambiato?» Chiese sedendosi accanto a me. Le braccia incrociate sulle sue cosce. Scrollai le spalle e tornai a guardare le stelle che aveva ricreato: «La realtà». Lei tacque per un po’ prima di parlare: «Io credo proprio di no. Se ci pensa in realtà la Sua vita somiglia più a quella di Jimmy che a quella di molte altri. Potrebbe davvero finire per realizzare il suo sogno di essere come lui e andare anche oltre. Di essere quello che vuole e di arrivare a toccare davvero quella stella».
«Dunque cosa devo fare?»
«Me lo dica lei, ha davvero perso la voglia di combattere e di vivere? Ha davvero dimenticato quella canzone?»
«No».
«Allora combatta ancora».
«Non so se riesco».
«Sì che ci riesce, lo sta già facendo». Fu come se mi avesse aperto un mondo. La guardai sbalordita e stavolta mi guardò più seria. Era come essere guardati da una persona determinata. «Lei è libera di fare quello che desidera, può anche essere una  guerriera a modo suo, l’importante è che poi alla fine possa dire: ci sono anch’io».  Era brava a parlare. Avrei voluto avere almeno la metà del suo talento: sentivo l’energia dentro di me ribollire. Mi aveva fatto venire voglia di fare qualcosa, di scuotermi di dosso la polvere. La guardai a lungo prima di uscirmene con un: «Somigli alla Dea Atena ma non sei lei». Commentai alla fine. Non credo che Lady Isabel fosse capace di tanta luce, pace e speranza. Ecco. Mi aveva infuso speranza. Aveva riacceso la fiamma alla base del mio essere. La guardai grata. Forse era vero che avevo bisogno anch’io di speranza. E per me era più Dea lei che Lady Isabel. Forse era blasfemo da dire, ma era la verità.
«Grazie». Sorrise. Poi una luce si intensificò davanti a noi, avvolgendoci nel suo calore e nel suo lucore bianco aureo. La mia accompagnatrice si alzò in piedi e disse: «Adesso è tardi, devo andare. Mi ha fatto davvero piacere incontrarla almeno una volta». Mi fece un ultimo namastè e andò incontro a quella luce. 
«Anche a me. Grazie di tutto». Si fermò e mi guardò da sopra una spalla.  Sorrise mentre le luci dell’alba illuminavano la sua persona. Aprii gli occhi scaldata dai raggi del sole che erano entrati dalla mia finestra. E per la prima volta dopo tempo scoppiai a piangere di gioia, il cuore traboccante di felicità e comp
letezza. Per la prima volta non mi sentii più sola.

   
 
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