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Autore: Samita    02/12/2019    1 recensioni
Devi mimetizzarti, come le zebre.
Luca e Camilla si conoscono da quando erano bambini. Le loro vite si intrecciano continuamente, fa incontri e talvolta scontri, in quella che forse solo loro due sono in grado di definire liberamente amicizia.
Piegato in due per il calcio rotante da poco ricevuto al fianco sinistro, si era pure preso la strigliata dalla maestra.
Va bene, Cami sanguinava dal naso.
Ma era il doppio di lui.
In altezza e in furia.

[Questa storia è presente anche su Wattpad, pubblicata dall'utente Malgari. Sono sempre io.]
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3. Abitudine

Luca poteva sentire una per una le sbarre metalliche della panchina sotto il sedere. Gelide.
Rollò un po' sulle natiche, cercando di distribuire equamente il freddo sul fondoschiena, mentre osservava torvo il campo davanti a lui.
Aveva iniziato a piovere dalla metà del secondo tempo: mancavano meno di dieci minuti alla fine, ma se nessuno in campo si decideva a fare un altro gol sarebbero andati ai supplementari. Il che significava passare dal semplice avere freddo alla conclamata ipotermia, secondo Luca.
Fate questo maledetto gol, per la miseria. Possibile che su ventidue ragazzini in campo nessuno fosse capace di fare quell'ultimo maledetto gol?
Normalmente, Luca resisteva per tutta la partita senza scomporsi troppo: nel primo tempo faceva i compiti, all'inizio del secondo faceva un finto riscaldamento e, una volta appurato che non c'era bisogno di lui, tornava a sedere in panchina e iniziava a leggere il Kindle.
Grande invenzione, il Kindle.
Soprattutto con la pioggia.
Quella domenica, però, Luca era particolarmente agitato – per i suoi standard, almeno. Continuava a spostare il peso da una natica all'altra, e guardava fisso verso il campo.
Mario, l'allenatore, gli lanciava ogni tanto qualche occhiata perplessa, per poi tornare a dare direttive agli altri a gran voce e ampi gesti.
A cinque minuti dalla fine, Mario osò fargli la fatidica domanda: "Luca, ma vuoi entrare?"
Il ragazzino lo fissò, stranito. 
"... no, eh?" si rispose da solo l'allenatore.
Luca tornò a guardare il campo, dove i suoi compagni di squadra correvano fradici e infangati.
"È un torneo a eliminazione diretta." disse, come se questo spiegasse tutto.
"Sì." fece Mario, per poi urlare al campo: "Nico! E sveglia – dài!"
"Non credo che entrerò in campo a cinque minuti dalla fine di una partita in un torneo a eliminazione diretta." Tacque, pensoso. "Però così niente supplementari. E potrei andare a casa."
"Se continui così ti ci mando a calci, in campo."
Luca tornò a fissare Mario, indispettito.
"Sei tu l'allenatore."
Mario sbuffò, tornando a guardare i ragazzini in campo.

Ci vollero altri venti minuti: vinsero loro.
Il che significava un'altra domenica buttata su una panchina. Luca sbuffò, andandosene lemme lemme verso gli spogliatoi.
Mario le aveva provate tutte, con lui: lo allenava da sette anni, il che significava che Luca aveva letteralmente imparato a correre facendolo dietro a un pallone. Aveva passato domeniche e domeniche ai campetti, in tutti ruoli, finché non si era acclimatato a quello che più gli si confaceva: la riserva.
Seduto in panchina per il primo tempo, riscaldamento a metà partita, dentro per dieci o quindici minuti, fino a riportarlo al bordo campo.
Come si stava dicendo, Mario le aveva provate tutte: accomodante, assertivo, minaccioso; lo aveva incoraggiato, sostenuto, accompagnato; lo aveva preso in giro, gli aveva dato della femminuccia, gli aveva detto di andare a giocare a Bridge; gli aveva fatto fare cinque giri di campo, da solo, alla fine di ogni partita; gli aveva fatto allenamento in privato; lo aveva fatto allenare coi più grandi, coi più piccoli, con la squadra mista che allenava suo cugino Andrea – niente.
Niente di niente.
Luca era inerte.
Non incapace – non puoi essere incapace se sei cresciuto passando metà della tua giornata a praticate uno sport – ma semplicemente non funzionava.
Ecco.
Non funzionava.
Luca non funzionava.
Se non altro, fino a quel giorno. Quel giorno, per la prima volta, Luca sembrò stare provando qualcosa, lì seduto. Non se ne stava fermo e pacifico come aveva fatto negli anni precedenti: no, quel giorno Luca era irrequieto.
Mario aveva osato sperare gli fosse venuta voglia di giocare: sbagliato. Niente da fare. Del campo, come sempre, Luca non ne volle sapere. Però era irrequieto.
Che si stesse finalmente rendendo conto che il calcio gli faceva schifo?
Anche quello sarebbe stato un enorme passo avanti.

"Ti sei divertito?"
"Sì..."
"Avete vinto?"
"Sì..."
"Vai anche domenica prossima?"
"Sì..."
"Hai fatto i compiti?"
"Sì.."
"Vuoi un po' di latte?"
"Sì..."
"Ci metto il sale, nel latte?"
Luca grugnì.
"No..."
Era successo, una volta.
Quella era diventata la domanda standard che faceva sua madre per capire se Luca la stava ascoltando o continuava a dire  a raffica.
Il sale nel latte. Gli aveva fatto talmente tanto schifo da non potersene scordare mai più. Una volta sua madre aveva provato con una variante: la marmellata sulla pasta. Gli era piaciuta. Non ne parlarono mai più.
Da qualche mese  la madre di Luca usava queste domande trabocchetto per valutare il livello di attenzione del figlio. Funzionavano: tanto che ultimamente la donna si chiedeva se non avesse dovuto adottare quella strategia molto tempo prima. Chissà, forse così Luca avrebbe iniziato a fare attenzione alle cose e forse – forse – avrebbe potuto evitarsi le torture calcistiche domenicali. Invece di dire sempre sì, sì.
Sì.
Ti piace il calcio, Luca?
E cosa mai avrebbe dovuto rispondere un bambino di quattro anni?
Sì.
Ti va di giocare?
Sì.
Facciamo una partita?
Sì.
Vuoi giocare con questi altri bambini?
Sì.
Vieni domenica?
Sì.
Fregato.
Ormai il calcio era diventato una parte scontata della sua vita: erano più gli anni che aveva passato come vero-finto-calciatore che quelli senza. Non sapeva nemmeno cosa volesse dire non essere in grado di maneggiare un pallone con i piedi. Nè che potesse decidere di smettere di farlo.

 

 

   
 
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