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Autore: kurojulia_    05/12/2019    0 recensioni
«Me ne stavo lì, in piedi... e poi mi dissi: ma che stavo facendo? Per me, era tutto finito. Quindi... che stavo facendo? Perché provavo a fare qualcosa? Perché continuavo, testardamente, a cercare una soluzione per... salvarmi? Mi coprii il viso con le mani. Volevo piangere, ma non una sola lacrima varcava i miei occhi. “Non fermarti”. Così udii alle mie spalle. Una voce, femminile, dolce, vellutata. Quando la sentii, iniziai a piangere senza nemmeno rendermene conto. Mi voltai di scatto, ma qualcosa mi spinse e caddi oltre la porta, in quel buio senza fondo. L'ultima cosa che vidi fu un bagliore dorato».
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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10.




Nel fragore di una notte primaverile, il suo cappuccio scivolò morbido sulle spalle di quella figura, rivelando una cascata di vino rosso, liscia e setosa. Rotondi boccoli che sfioravano le guance esangui, un naso sottile, con la punta rivolta leggermente verso l'alto, e labbra incurvate in un sorriso mite. Splendidi occhi, che brillavano come lingotti d'oro, la cui pupilla si agitava appena appena, come lingue di fuoco. Proprio lei, la donna che vantava una delle maggiori bellezze mai viste, la donna che si era lasciata alle spalle solo una misera macchia di sangue, ed era poi sparita nel nulla – Kazumi Akawa.

 

 

La sua mano sinistra stringeva ancora l'avambraccio dell'albina mezzosangue, una presa ferma, imprescindibile.

E Yuki boccheggiava. Forse era così che si erano sentiti Takeshi e gli altri quando l'avevano rivista. Come se davanti a loro si stesse ergendo un miraggio, un invitante miraggio. O forse era un ricordo molto vivido.

«Mamma... ?». Kazumi le lasciò andare il braccio, rinfoderando il suo dentro il mantello. Yuki vide i lineamenti del suo volto illuminarsi, gradualmente, fin quando un grande sorriso non apparì sulle sue labbra. Forse lei era davvero un miraggio. Le sembrava quasi di vedere piccoli fuochi fatui volteggiare intorno alla sua testa.

 

«Yukiiii! Se ci sei, batti un colpo!», l'inconfondibile e acuta voce di Sayumi riportò la mezzosangue a galla. Di colpo, Yuki si sentì tremare la testa e le mani. Tutte le sensazioni che per un attimo – un lungo attimo – aveva soppresso l'assalirono come una violenta onda. Aprì le labbra, solo per poi rimanere in silenzio.

«Sono i tuoi amici, vero?», chiese la vampira.

«Sì... loro... », ma allora, tutti i piani, tutte le ipotesi... era tutto vero. Ciò che aveva pensato era vero. Non erano state solo false speranze. Kazumi non era mai stata nella katana. «Mamma, tu sei... viva».

Kazumi allargò le braccia, gettando un'occhiata al suo corpo, come per assicurarsi che tutto fosse in ordine, sorridendo smagliante. «Beh, direi proprio di sì. Senti, perché non raggiungiamo i tuoi amici? Vedo che ti stanno cercando affannosamente».

Sua madre era così tranquilla da farle paura. Non si vedevano da così tanto tempo – e lei era stata data per scomparsa, per morta – eppure Kazumi sembrava l'incarnazione della quiete. La donna le continuò a sorridere e le passò accanto, introducendosi nella folla che, finalmente, si stava cominciando a sfoltire. Yuki subito seguì la madre, agguantando la stoffa del suo mantello per non perderla di vista. Dopo pochi metri, Yuki e Kazumi raggiunsero gli altri tre, in modo facile e veloce.

 

«Yu, stai be–... eh?».

Tetsuya, che si era voltato, si bloccò come una statua di granito, mentre le parole gli morivano sul nascere. E lo stesso fu per Sayumi e Takeshi. Pietrificati, meravigliati. Tetsuya spostò lo sguardo da Yuki a Kazumi.

Alzò l'angolo delle labbra, abbozzando una risata. «Ah... pare... pare proprio che avessi ragione, Yuki. Mi sa che ti devo delle scuse».

 

 

 

***

 

 

 

Per puro miracolo, poco tempo dopo il loro ricongiungimento, nel locale era scesa un po' più calma. Il baccano infernale di prima era stato sostituito da un brusio rumoroso, abbastanza da rendere i loro discorsi riservati – in particolare, sembrava che un po' di gente avesse fretta di tornare a casa.
Per cui, dopo una brevissima ricerca, avevano trovato un tavolo libero in fondo alla taverna, quasi incassato contro l'angolo formato dalle due pareti. Frattanto che prendevano posto, una cameriera si avvicinò in fretta e chiese loro se volevano qualcosa da bere o da mangiare. I ragazzi e Kazumi dissero che a breve sarebbero andati via, quindi non ce n'era bisogno, ma la cameriera si era intanto incantata a guardare i visi di tutti e cinque. Infine, un po' imbarazzata e delusa, si era dileguata.

 

Seduti insieme, Yuki fissava sua madre come se stesse cercando di vederle attraverso. E in parte era proprio così. Se fosse riuscita a vedere i tavoli dietro Kazumi, allora, magari, lei era un fantasma. Ma no, la vedeva chiaramente. I suoi contorni erano definiti, lo sguardo dolce e amorevole era lo stesso di tre anni prima. Era ancora un sogno ad occhi aperti.

Mentre l'albina persisteva in quella sorta di meditazione, Tetsuya ruppe quel solido ghiaccio con una domanda: «Dove sei stata tutto questo tempo?». Netta, cruda, senza mezzi termini.

 

Sia chiaro, erano tutti felicissimi di vederla viva e vegeta. Per lungo tempo, avevano pensato che Kazumi fosse morta quella notte, appena qualche ora dopo Oseroth – anche se non l'avevano mai detto ad alta voce. Ma al contempo, non potevano fare a meno di provare un senso di inquietudine e di ansia. Era diverso da quando avevano ritrovato Yuki. Con l'albina, i ragazzi avevano visto il suo corpo divenire cenere e polvere, mentre con Kazumi...

Dov'era stata? Perché era sparita? Cos'era successo, esattamente?

«Eravate in pensiero per me?», domandò la vampira, inclinando il capo di lato.

«Beh... certo», rispose Sayumi, aggrottando la fronte. «Noi tutti ti davamo per... ».

«Morta?», Kazumi alzò le sopracciglia. «Sì, Yuki me l'ha fatto intendere. So che avete tante domande e siete assetati di sapere, ma perché invece non ci godiamo questa sera insieme?».

I ragazzi erano perplessi.

«Ma noi veramente... ».

«Perché no?».

 

Con sorpresa, notarono che era stata Yuki a parlare. Così come avevano studiato Kazumi, squadrarono la figlia. Non era un atteggiamento tipico di Yuki. Lei era il tipo che, alla proposta di divertirsi e godersi il momento – piuttosto che far luce su una questione –, si sarebbe infastidita e forse arrabbiata, perché era solo una gran perdita di tempo.

Invece, la mezzosangue, senza l'ombra di un sorriso, sembrava d'accordo.

«Possiamo parlare anche domani. Che progetti hai?», domandò rivolta alla madre.

«Beh, non ho intenzione di rimanere per tanto tempo... ma fino a domattina non mi schioderò da qui», e sorrise.

«Splendido».

«Allora... ordiniamo qualcosa?», propose Takeshi. «Sempre se vogliamo rimanere».

«Certo. Cameriera, potrebbe tornare qui?».

 

Quindi, come proposto da Kazumi Akawa, conosciuta anche per essere una viaggiatrice ed esploratrice, il gruppo si fermò nella taverna per... godersi il momento. Solo Kazumi e Takeshi bevvero qualcosa di alcolico, mentre gli altri tre si accontentarono di una bibita gassata e qualche spuntino. La serata proseguì così, tra una parola e l'altra, cercate accuratamente per sciogliere quella strana tensione.
Takeshi aveva cercato di parlare tanto. Di solito non amava essere loquace, ma era bravo con le parole, e in quel momento ne servivano tante. Evitò domande che provocassero disagio e raccontò invece svariati aneddoti di quegli anni passati. Ad un certo punto, Kazumi chiese al ragazzo se lui e Yuki stavano insieme.

«Ehm, sì... non ricordi?», rispose il moro. «Da quando avevamo diciassette anni».

Kazumi sembrò riflettere, premendo l'indice sinistro sul labbro inferiore. «Mmh... capisco». E poi tornò a sorridere e a parlare con lui. Anche Sayumi cercava di partecipare alle conversazioni, e bene o male ci riusciva – e persino il vampiro biondo buttava qualche frase.

 

L'unica, in religioso silenzio, era l'albina. Più guardava sua madre, più il suo silenzio aumentava, e si faceva intenso.


Ad un certo punto, Kazumi si stiracchiò, stendendo le braccia verso il soffitto. Erano intorno alle 10.000 e a quell'ora, dopo una lunga serata, la taverna si calmava molto. Probabilmente per non disturbare l'albergo di fronte.

La vampira diede un'occhiata all'orologio affisso alla parete, e poi si rivolse al ragazzo bruno. Si piegò nella sua direzione, avvicinando le labbra all'orecchio del moro.

«Senti, dovrei parlarti di una cosa», gli sussurrò, una mano vicino alla bocca.

«Eh? Davvero? Vabbene, ma– ».

«Vieni, parliamo fuori».

 

Sotto lo sguardo vigile della figlia, Kazumi strattonò Takeshi per il braccio, costringendolo così ad alzarsi. «Dove state andando?», domandò Yuki.

«Andiamo un attimo qui fuori», rispose Takeshi. «Non ti preoccupare. Torniamo in un baleno». Kazumi era un po' insistente nel tirarlo, ma il bruno riuscì a resisterle per rassicurare la sua fidanzata con un sorriso. Bello, dolce, il suo solito sorriso. «Fai la brava», le aveva sussurrato, per poi sparire tra i tavoli e, infine, oltre la porta della taverna.

 

Fuori dalla taverna era buio. Sui lati della strada e di fronte all'albergo e al locale c'erano svariate fonti di luce, da lampioni a lanterne. Le temperature erano precipitate a picco, per cui faceva abbastanza freddo. Takeshi incrociò le braccia al petto, strofinandosi le spalle e i bicipiti per riscaldarsi come meglio poteva. Respirò profondamente, generando una nuvoletta di vapore nell'aria, ancora fermo di fronte alla porta del locale, da cui proveniva un rassicurante vocio – quando, poi, vide Kazumi allontanarsi e svoltare l'angolo a sinistra, lungo il lato del piccolo edificio.

«Kazumi?». Non capiva cosa stava succedendo. Kazumi diceva di volergli parlare... e anche lui aveva dei dubbi, come Yuki, sebbene non avesse idea del perché. Da dove avevano origine.

Lentamente, calpestò l'erba che spuntava dall'asfalto, facendola scricchiolare debolmente sotto le suole, e seguì la vampira oltre l'angolo. Svoltandolo, Takeshi vide quella piccola porzione di terreno e Kazumi, entrambi quasi interamente immersi dalle tenebre, ad eccezione di un fascio di luce bianca, proveniente da destra.

Takeshi si addentrò, guardingo e cauto. «Kazumi?», la chiamò, a bassa voce. «Di cosa volevi parlarmi?».

La vampira ruotò i piedi e si voltò verso Takeshi. Sorrideva. «Takeshi. Incontrandoti, penso di aver capito alcune cose. Sai, non si finisce mai di imparare», esordì. «Anche se ancora non capisco i suoi gusti. Ma non importa. Vabbene così. Non faccio domande indesiderate, io». 

Takeshi la guardò. Le sopracciglia basse sugli occhi scuri. «Di cosa stai parlando?».

 

A quel punto, la vampira uscì dalla tenebre, solo per avvicinarsi al bruno. Sollevò il mento, per guardare il ragazzo nelle profonde iridi. Takeshi rispose allo sguardo, senza batter ciglio. La vide innalzare la mano destra e posarla dolcemente sulla guancia del ragazzo. Ma subito, lui si rese conto che qualcosa mancava. Il suo dito mignolo era molto corto, troppo corto... come se mancassero ben due falangi. «Che cos'hai fatto al dito?», bisbigliò, quando ormai il viso di Kazumi era molto vicino al suo.

Lei lo fissò senza espressione. «Non ho fatto niente. È sempre stato così».


E queste furono le ultime parole che sentì da lei. A quel punto, una nube plumbea si innalzò, vorticando – ancora, ancora, e ancora.

 


 

 

***

 

 

 

Ai si issò sulle spalle lo zaino e, una volta fuori dalla sua stanza, si richiuse piano la porta alle spalle, come se non volesse svegliare nessuno. A dir il vero, in casa c'erano soltanto Sebastian, Kukuri e la solita servitù. Ma non rischiava di svegliare proprio nessuno, lo sapeva.

 

Scese i gradini nell'ampio salone, calpestando il tappeto rosso. Aveva già salutato chi di dovere. Adesso le restava solo da varcare una porta. Ah, quella porta sua sorella l'aveva attraversata tantissime volte, anche più dei loro genitori. Ogni giorno, lei usciva e andava in una scuola piena zeppa di umani, passando innumerevoli ore in loro compagnia.
Ai ricordava che, alla morte di Yuki, lei aveva dato tutta la colpa agli umani; se non fosse stato per loro, se non si fossero immischiati, se avessero lasciato sua sorella in pace... e così via. Ma dopo aver ricevuto le cure di Tetsuya e averne parlato con lui – dopo averne parlato tanto –, e averci pensato per i fatti suoi, aveva capito. Era stata solo colpa di Alyon. Di Alyon e di quella dannata comunità malata.

Di cui lei ora faceva parte.

 

Si fermò di fronte alla porta, lasciata socchiusa. Si guardò intorno.

Voleva assimilare tutti i dettagli di quel posto. Ormai era una casa che trasudava dolore e morte. La amava, amava quel posto dove era cresciuta e dove aveva passato tanti momenti felici. Ma lentamente si era ridotto al nulla. Non c'erano bambine né adulti: solo una ragazza.

«Forza», mormorò, per farsi coraggio. Aveva tutto ciò che le sarebbe potuto servire. Non aveva idea di quanto ci avrebbe messo a rintracciare Yuki. Nel bigliettino che le aveva lasciato in camera sua non c'era nessuna indicazione. Solo una promessa.


Marja aveva detto che era stata avvistata in diverse zone del Giappone ma la prefettura di Shizuoka era stata l'ultima e più recente. Sospirò. Pensava e si preoccupava per tante cose. Era sbagliato intraprendere quel viaggio. Doveva pensare al Consiglio, alle cameriere, ad organizzare e a fare scelte, non poteva permettersi di andarsene in quel modo.

E poi, un posto speciale era riservato a Shin.

Shin Katugawa.

Il fratellino. Quella piccola pulce che, al loro primo incontro, non aveva smesso un attimo di parlare con lei. Ma l'aveva sempre trattata bene, come se fosse un tesoro. Adesso era cresciuto, sedici anni. Ed era diventato un ragazzo stupendo, con gli occhi scuri espressivi e il sorriso spigliato, i lineamenti spigolosi al punto giusto, le piccole fossette alle guance e i capelli leggermente scompigliati, il fisico asciutto.
Lui le era stato molto vicino quando Ai stava cercando di elaborare il lutto. Per la seconda volta, le era stato accanto in un momento tragico – un incubo ad occhi aperti.

E anche dopo, durante quei tre anni, Shin aveva sempre trovato tempo per Ai. Solo che lei era testarda – che novità – e aveva un ruolo importante sulle spalle, e forse l'aveva fatto sentire un po' indesiderato. Ma la verità era diversa, per lei.

 

Tuttavia, qualsiasi fossero le parole inespresse, Ai aveva qualcosa da fare. Spalancò la porta ed esalò un ultimo respiro. «Sto andando», sussurrò – e sparì, entrando nella luce.

 

 

 

***

 

 

 

Un forte calore si stava facendo strada sulla sua guancia, macinando centimetri di pelle. La bocca era quasi completamente asciutta ma al contempo bruciava, come se si fosse tagliato le labbra. Le palpebre erano pesanti, la testa faceva un male cane, due spilli piantati nelle tempie. Erano sintomi particolari. Si provavano in una circostanza precisa, che non gli era poi tanto estranea, se doveva essere sincero.
Takeshi mosse leggermente il capo. La guancia sul cuscino assaporò la freschezza del tessuto. Il ragazzo si chiese, all'istante, quanto accidenti avesse bevuto per sentirsi così male. Ma la risposta arrivò subito: quasi per niente.

Era ancora frastornato e la luce che proveniva dalla finestra non lo aiutava. Forse aveva un po' di febbre?

Chiuse la bocca, mugugnando quando avvertì l'irritazione.

 

«Sta parlando nel sonno?», bisbigliò una voce femminile, divertita.

Takeshi non aveva ancora aperto gli occhi, quindi non aveva idea di dove si trovasse. Dietro le palpebre, captava solo una forte luce solare. Sentì dei passi felpati avvicinarsi nella sua direzione. Avrebbe voluto guardare, ma si sentiva così debole – e pigro.

Il materasso su cui era sdraiato si piegò, impercettibilmente. «Takeshi?», disse la voce.

«Yuki... ?».

 

Era lei. Takeshi si fece forza e sollevò le palpebre. Era lei, ed era bella come sempre. Ma quella mattina aveva una luce calda che contornava la sua figura. I capelli bianchi e ondulati, corti sulle spalle, le iridi ambra e il sorriso che illuminava il candore della pelle.
Se avesse avuto le forze, Takeshi l'avrebbe abbracciata e trascinata accanto a sé.

«Ben sveglio, principessa», ridacchiò la mezzosangue, attraversando con le dita tiepide la chioma castana. «Hai dormito bene?».

«Mmh... », il moro ruotò il viso, nascondendolo nel cuscino. «Mi sembra... ».

Onestamente, gli sembrava di essersi accidentalmente addormentato. Un sonno senza sogni.

«Mi sembra di essere svenuto, più che altro».

«Più o meno». Takeshi ruotò, girandosi verso di lei, sdraiato sulla schiena. Yuki fece un sorriso, stranito. «Ti ricordi cosa è successo ieri sera?». Al dissenso del ragazzo, l'albina proseguì: «Sei tornato dentro al locale, insieme a mia madre, con una faccia molto tranquilla. Ti ho chiesto se era tutto okay e tu hai annuito. Siamo rimasti lì per dieci minuti e poi ce ne siamo andati tutti quanti, dirigendoci all'albergo», lei alzò le spalle. «e sei letteralmente crollato nel letto, in tempo record».

«Capisco... », beh, insomma. Non capiva poi così tanto. Takeshi esaminò lo sguardo della sua ragazza, trovandoci un filo di preoccupazione. Si sollevò dal letto, mettendosi seduto e appoggiandosi alla testata. Sentiva il corpo pesante. Non voleva darlo a vedere, per cui sorrise, dolcemente – allungò la mano verso il viso della mezzosangue, accarezzandole la guancia con le nocche. «Sono felice che tu abbia ritrovato tua madre».

E lei – che come lui non voleva rendere palese la sua apprensione – si sciolse un pochino, annuendo. «Sono felice anch'io».

Rimasero così, immobili, la stanza dall'albergo inondata dalla luce. Fuori dalla finestra si sentivano i suoni tipici di un paese sveglio e attivo – le voci delle persone, i cani abbaiare, le risate dei bambini, rumori meccanici e porte di negozi che si chiudevano e aprivano, i campanelli delle biciclette. Fuori dalla loro camera, si sentivano le cameriere fare su e giù, bussare alle porte e parlare gentilmente.
Anche se provavano preoccupazioni, quel momento era impregnato di pace e serenità. Yuki avrebbe voluto conservarlo. Chiuderlo tra le mani come una lucciola.

«Vorrei trovarmi un lavoro, quando torneremo al villaggio», bisbigliò l'albina, guardando fuori dalla finestra.

«Sul serio?».

«Sì. Voglio vivere... standovi accanto. Voglio... », le sue pupille, sottili e strette, quasi nulle, puntarono sulle lenzuola. «creare qualcosa insieme a te».

«Se le cose stanno così», mormorò Takeshi. «torniamo a casa. Perché non vedo l'ora di iniziare».

Entrambi risero, a bassa voce, come se non volessero disturbare il tempo.

 

Mezz'ora dopo, quando Takeshi finalmente sentì le forze tornare indietro, iniziarono a prepararsi per tornare al villaggio. Il viaggio, così come all'andata, non sarebbe stato lungo né difficile, e il tempo era positivo. Dopo essersi vestiti e aver radunato tutte le loro cose, Yuki e Takeshi lasciarono la stanza e si avviarono verso il piano terra, dove incontrarono Sayumi e Tetsuya. Lei stava ridendo, schiaffeggiando il petto del vampiro, mentre lui sorrideva divertito.

Per Yuki era ancora strano immaginarli come una coppia.

Con Sayumi non aveva ancora toccato l'argomento. E poi, c'erano novità evidenti anche nel loro aspetto, come i capelli lunghi dell'amica. Ah, se ci pensava, c'erano un sacco di cose di cui non aveva ancora parlato con Sayumi, e fremeva dalla voglia di farlo.
D'ora in poi staremo sempre insieme, pensò l'albina, osservando l'amica ridere con Tetsuya, quindi di tempo ne avremo in abbondanza.

 

Poi Sayumi si accorse del loro arrivo e li accolse con un sorriso allegro. «Buongiorno!». Si vedeva che era felice. Che si sentiva leggera. Nella mano sinistra, le dita intrecciate, c'era quella del biondo. Il solo stringergli la mano la rasserenava. «Siete pronti per il ritorno?».

Yuki annuì. «Pronti. Salutiamo mia madre e poi possiamo andare, okay?».

«Certo», Sayumi però aveva una curiosità, a cui voleva dar voce, per cui inclinò il capo verso Takeshi – lo guardò in viso e aggrottò la fronte. «Ehy, Take. Non hai una bella cera. Stai bene... ?».

Il moro accennò una stanca risata. «Ehy, grazie. Anch'io ti trovo bene, Yumi».

Ma l'amica, al contrario suo, non rideva. Gradualmente, una bagliore agitato le ombrò lo sguardo. «Dico sul serio. Sei pallido e sembri sfiancato». Sayumi fece un passo in avanti, sciogliendo l'intreccio con la mano del vampiro. Strinse le palpebre, studiando il volto di Takeshi tra le ciglia. «Non sembra febbre... ».

Takeshi indietreggiò, alzando i palmi all'altezza del proprio petto, con un sorriso sorpreso sulle labbra. Yuki gli lanciò un'occhiata aggrottando la fronte. «Ehy, ti dico che sto bene. Sono un po' stanco, ma non sto morendo».

«Se dice che sta bene, allora forse è così», osservò Tetsuya.

«E se ha mentito, lo metteremo a digiuno», aggiunse Yuki. «Per punizione».

«Yuki-chan, sei un po' fissata con le punizioni, eh?».

«Ma finitela», Takeshi si allontanò da loro, avvicinandosi all'ingresso dell'albergo, per poi rivolgergli un'occhiata ammonitrice. «Per quando saremo a casa sarà tutto passato. Vedrete!».

 

 

 

 

***

 

 

 

Yuki avrebbe voluto dire a Kazumi, "vieni con me". Se non avesse voluto dirlo a voce, allora avrebbe potuto prenderla per il braccio e guidarla fino a casa. Non voleva allontanarsi da lei, non voleva lasciarla andare in giro da qualche parte, probabilmente indifesa. Indifesa come era stata quella notte, nella residenza.
Invece, al momento di salutarsi, Yuki le aveva detto di tornare a Yoshino e andare da Ai, perché la stava aspettando, in cuor suo. Anzi, perché Ai aveva bisogno della sua mamma. Un luce aveva animato l'oro fuso nelle sue iridi.

«Ai, dici?», aveva detto Kazumi. Le sue labbra si erano schiuse, come se stesse pensando. «Tornerò da lei – ma non ora. Ancora non posso farlo».

A nulla erano valsi i tentativi di capire perché. Ma Kazumi aveva promesso che sarebbe tornata da Ai, la piccola – e nemmeno così tanto, ormai – mezzosangue dai capelli rossi.

Yuki aveva suggellato la promessa abbracciandola, stringendola forte a sé. Gli occhi le bruciavano, un pizzicore dolce e malinconico. Quando si era staccata dalla madre, aveva visto il suo sguardo farsi affettuoso – e poi ricadere, attratto come un magnete, sulla katana che pendeva al fianco dell'albina. «Stai attenta», aveva detto infine Kazumi. E si erano separate.

 

Attraversarono di nuovo tutto il paese. Ancora una volta, sotto famelici e brulicanti sguardi – solo che, stavolta, nessuno di loro se ne preoccupò. L'aria era calda, smossa da leggeri schiaffi di vento, di tanto in tanto. Il cielo vegliava su di loro, limpido e azzurro, mentre percorrevano la strada costeggiata dalle sconfinate distese di erba luccicante.
Un po' più lontani e ovattati, si sentivano le voci delle persone, le risate e i gridolini dei bambini mentre giocavano con la palla. Un bambino sferrò un calcio al pallone, lanciandolo verso il cielo.

Avevano cominciato ad allontanarsi davvero dal paese da pochi minuti, si riusciva a vedere chiaramente l'entrata al paese, comprese le guardie all'esterno. Se avessero deciso di fare retromarcia, sarebbero tornati molto in fretta. Nonostante mancasse ancora molto, la mezzosangue non sentiva che allegria e voglia di muoversi. Aprì le braccia, stendendole in orizzontale – poi le piegò dietro la schiena, stiracchiandosi, riempiendosi i polmoni di aria fresca. Si sentiva leggera come una piuma.

«Takeshi?», sentì Tetsuya, allora lei ruotò il busto e il viso. 

Il suo fidanzato era più indietro. Lo vide sollevare la fronte, rivelando il suo bel viso, e lei sorrise, scorgendo il colore caldo delle sue iridi. Poi notò la sua mano sinistra e le dita che stringevano e arricciavano la maglietta sul petto, al centro. Takeshi?, stava per dire anche lei, prima che lui e la sua espressione di dolore non stramazzarono al suolo – come un corpo vuoto.

   
 
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