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Autore: Lost In Donbass    06/12/2019    0 recensioni
Eleanora è selvaggia, distrutta, è una marionetta persa nel suo inferno.
Demian soffre di stress post traumatico, e quando dice che vuole morire non lo dice per scherzo.
Denis è un eroe generazionale, ma nasconde segreti che non sono per tutti.
Yurij è la disperazione allo stato puro.
Sono angeli dell'underground siberiano, si incontrano, si amano, si lasciano, in un'escalation di distruzione, alcol, pastiglie, sesso, musica e letteratura russa. Sono arrabbiati, sono violenti, sono persi, sono distrutti.
Sono i mostri dai quali le madri vi tengono a distanza.
Sono i ragazzi di Krasnojarsk, e questo gioco al massacro è appena cominciato.
Genere: Angst, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Threesome | Contesto: Contesto generale/vago
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DOPPELGANGER WITH A SINGLE SCAR


CAPITOLO PRIMO: ANGELS FROM UNDERGROUND
 
This skin I'm in, I've painted scars all over it
To hide what's inside, can't hide, can't hide

[Stitched Up Heart – This Skin]
 
Eleanora Dmijtrevna Kazantseva, apparentemente, aveva tutto. Un bellezza incredibile, un’intelligenza sottile e acuta, una grazia incredibile nel muoversi e un’arte nel farsi desiderare da chiunque. Apparentemente, di nuovo, era la perfezione incarnata. Se invece si fosse andato a scavare un pochino sotto la crosta di perfezione che la ricopriva, si sarebbero scoperte rose marcescenti, olezzi infernali, e lacrime troppo dure per poter essere piante. Non era perfetta, Eleanora, nonostante avesse tentato di esserlo. Non era perfetta, con quelle cicatrici sulle braccia eburnee, con il dolore incastonato negli occhi violetti sempre pesantemente truccati, con quell’aria combattiva che in fondo non le si addiceva nemmeno così tanto. Era un’imperatrice senza più regno, era una strega senza magia, era una rockstar senza pubblico. Era tutto ed era niente, era bellissima e orrenda allo stesso tempo, era potente e debole, era un ossimoro ambulante su tacchi a spillo e gonne vertiginosamente corte. Non cercava amore, cercava solamente sesso, non cercava amicizia ma un potere che nessuno poteva darle. Voleva tutto, eppure non appena qualcosa le capitava tra le mani la spezzava irrimediabilmente. Era fatta per lasciare terra bruciata al suo passaggio, era fatta per seminare morte e distruzione dovunque andasse. Era questo quello che spaventava e attirava tutti, era questo che l’aveva tramutata in una marionetta, in una stupenda Petrouska senza più teatrino dove esibirsi. Come una ballerina scacciata dall’Opera, vagava danzando per le strade, tra le foglie cadute e i sospiri del vento. Danzava verso Pietroburgo, come l’emigrato russo che in fondo era. Danzava verso la morte, come se fosse Onegin. Danzava verso il sottosuolo, perché era da lì che venivano le sue memorie.
E anche in quel momento danzava per le strade, i tacchi che rimbombavano sul selciato e la spessa pelliccia volgare avvolta attorno al corpo snello e flessuoso. Splendida, sotto l’implacabile luna russa, ondeggiava come una silfide, sicura di sé, con lo sguardo fiero e quel sorriso apparentemente incancellabile dipinto sul viso pesantemente truccato. Eleanora sorrideva sempre, qualunque cosa succedesse. Un sorriso all’apparenza sensuale e invidiabile, ma in realtà non era altro che una crepa, una smorfia oscena, una ferita incisa sul viso pallidissimo. Era straziata da quel sorriso falso che vendeva a tutti con estrema facilità, quando sul suo volto non c’era altro che un taglio pieno di nero sangue rappreso. Una marionetta, appunto, una creatura inumana, un mostro avvenente che calcava la periferia di Krasnojarsk come la zarina che in fondo era. La zarina dei dannati, dei disperati, dei non morti e dei tossici. La gente la guardava, ma lei non se ne curava, perché ormai aveva superato il punto di non ritorno. Era come un Hölderlin che aveva completamente aderito alla sua follia, come la mendicante dai capelli rossi, era come l’illuminazione che cercava Rimbaud. Era la vita, era la morte, era stupenda, era proibita, era Odette, era Petrouska, ma era anche il Re dei Topi. Quello però non lo doveva sapere nessuno.
Fece una giravolta nella spessa pelliccia di astrakan e guardò il cielo nero, dove splendevano pallide stelle, spente dalla miriade delle luci cittadine. Ad Eleanora piacevano le luci delle fabbriche all’orizzonte. La facevano sentire al sicuro, lei, la bambola meccanica. Lei, l’automa troppo sensibile per essere un robot ma troppo poco per essere umano.
Si passò una mano tra i lunghi capelli tinti di un bianco accecante e accelerò il passo, ondeggiando pericolosamente sui tacchi vertiginosi. Si stampò sul viso il sorriso più convincente che le riusciva, quello perfetto, quello luccicante anche se sporcato dal rossetto color sangue e si specchiò nello specchietto da borsa. Bellissima. Troppo bella per il suo stesso bene.
Si guardò intorno e modulò un sospiro. Lui non era ancora arrivato. Chissà se l’avrebbe fatto. Guardò la luna di plastica di una Siberia ormai venduta ai potenti e scosse la testa, passando poi a fissarsi i piedi fasciati in stivali di lacca. A volte la marionetta si stancava di essere tirata per i suoi lunghi fili e anelava ad almeno un giorno di riposo. O ad un sano pianto, siccome ormai le lacrime si erano indurite nel suo cuore tanto da creare una rete che non era più in grado di sciogliersi.
Avrebbe tanto voluto piangere, Eleanora Dmijtrevna. Ma aveva dimenticato come si faceva.
-Hey, dolcezza. Scusa il ritardo.
Sentì la sua voce arrochita dalle sigarette, così sensuale, con quell’accento europeo e si voltò, dipingendosi immediatamente sul viso un sorriso ancora più falso di quello di prima. Quello incantevole, quello dolcissimo, quello da Odette. Quello da ballerina. Vieni, o corvo bianco.
-Ciao, tesoro.- lo salutò, e si odiò per avere quello strascicato accento siberiano invece che un’altolocata cadenza pietroburghese. Ma lei, Pietroburgo, non l’aveva mai vista.
Lo abbracciò e lui, come al solito, rimase rigido, accarezzandole appena le spalle. Quanto era passionale, spigliato, quasi bestiale quando la portava a letto, quanto era rigido, gelido, spaventato quando si trattava di doverla toccare. Perché lui poteva essere un animale, ma proprio come un  animale fiutava il pericolo. Ed Eleanora era la cosa più pericolosa che gli fosse mai capitata per le mani.
-Mi sei mancato.- continuò lei, appendendoglisi al braccio.
-Hai visto le luci stasera, dolcezza? Mi ricordano di te.- rispose lui, e non sapeva tenerla a braccetto ma a lei non importava.
-Perché?
-Perché sono false, bellissime e ingannevoli proprio come la tua stupenda persona.
A volte lui non se ne rendeva conto, ma lei lo considerava un poeta. Bestiale, amorale, volgare, ma pur sempre un poeta da strada.
-Mi consideri falsa?
-Ti considero troppo bella per calcare questa terra.
La baciò, con la crudeltà un po’ libidinosa che lo contraddistingueva e lei si perse nelle sue labbra morbide, si perse nel suo bacio passionale, nel suo profumo di colonia, inchiostro e sigarette, si perse dentro di lui. Amava baciarlo, perché la faceva sentire viva, lei, la ragazza che non sapeva cosa voleva dire vivere. Amava sentirlo suo perché le dava un motivo per resistere in quell’inferno che era diventata Krasnojarsk. Amava possedere quel giovane uomo imperfetto.
-Voglio scoparti.- sussurrò lui sulle sue labbra e lei sorrise appena, socchiudendo gli occhi ombreggiati da lunghe ciglia incrostate di mascara.
La loro era una relazione basata sul sesso, non avevano altro che quello. Le andava bene? Non lo sapeva. Forse avrebbe voluto avere qualcosa di più da quell’uomo splendido. O forse era okay tenere tutto su quel piano per non incastrare sentimenti che lei non sapeva di essere in grado di provare.
-Andiamo a casa tua, allora.
Lui aspettò un attimo, e le accarezzò il viso, con quella mano grande e un po’ impacciata. Così abile a letto ma così imbranata quando si trattava di darle una carezza.
-Balliamo via la notte, ti va, dolcezza?
Lei sorrise di nuovo, e quel sorriso era così vuoto da fare male al cuore. Ma il cuore di lui era così distrutto che niente avrebbe più fargli del male.
Perché non puoi spezzare un cuore già spezzato, o no?
 
***
 
Fecero sesso, quella notte.
Quell’atto un po’ animalesco, un po’ untuoso, un po’ faticoso che trascinavano ormai da settimane, nella piccola casa di lui, quella che puzzava di sigarette e di coperte non lavate.
Lei adorava andare a letto con lui. Adorava guardare quel corpo snello ma perfettamente allenato da anni di evidente sforzo fisico, toccare quella pelle tatuata e lievemente abbronzata da soli che lei non avrebbe mai visto, baciare quel viso angoloso. Adorava guardarlo fumare e sentirlo parlare di terre lontane, terre perdute, gente mai più rivista e piatti mai più assaggiati. Lei lo adorava, in generale.
Adorava essere lì, a gambe aperte su quel letto semi rotto, con lui sopra che spingeva dentro di lei e contemporaneamente le sfregava le dita contro i punti più sensibili. Si sentiva viva, con lui. Si sentiva amata anche se lui a stento le aveva mai detto “ti voglio bene”. Si sentiva a casa in quel monolocale umido e vecchio, insieme a un uomo che le teneva troppi segreti. Avrebbe fatto qualunque cosa per lui, e le andava anche bene quella relazione sfilacciata che avevano. Le andava bene rovesciarlo sul letto e cavalcarlo, i capelli sul viso, selvaggia e meravigliosa come la zarina che era, splendida nella sua furia sessuale. Lo guardava in viso, e lo sentiva gemere, mentre lei urlava, urlava mentre lui le faceva cavalcare l’orgasmo, urlava quando lui le veniva dentro con un gemito strozzato. Urlava, lei, che non si scomponeva mai, perché con lui poteva essere libera, perché lui non giudicava, non chiedeva. Non la tormentava mai.
Lui le ricadde al fianco e lei lo guardò, il trucco sfatto sul viso di porcellana, e pensò che fosse bellissimo, con quegli occhi talmente slavati da sembrare bianchi, con quei capelli scuri lunghi sulle spalle, quei tratti slavi così calcati, quel naso largo e schiacciato, quella mascella squadrata, quelle guance appena ispide.
Come al solito, lui si accese una sigaretta e guardò il soffitto con le macchie di umido, passandole un braccio attorno alle spalle. Lei si strinse a lui, i due corpi nudi a contatto, appena coperti dal piumone sporco e gli baciò una spalla, lasciandogli tracce del rossetto sulla pelle.
-Un giorno ballerai per me?- le chiese lui.
-Un giorno lo farò, quando il Re dei Topi mi lascerà andare.
Non glielo disse, che era lei quel famoso Re dei Topi.
-Sei bellissima, ragazza.
-Anche tu sei bellissimo, ragazzo. Raccontami dell’Europa, ti prego.
-No, voglio riposare.
-Per favore, cosacco. Raccontami di Kiev.
Lui sorrise appena e le baciò le labbra, con quella dolcezza un po’ infantile che può avere solo un uomo che ha visto la guerra.
-E’ la città più bella del mondo, dolcezza. Le sue luci, le sue strade, la sua gente, i suoi palazzi, le sue babke calde la mattina.
-Mi ci porterai, un giorno?
Domanda stupida, lo sapeva, ma lei era Odette e doveva sognare, e ballare, sognare e ballare fino a cadere morta per le strade.
-Un giorno la vedrai, ma quel giorno ti sarai dimenticata di me.- si limitò a rispondere lui, bello come un diavolo, dannato come un angelo. – Adesso dormi, dolcezza.
-Non voglio dormire, tesoro. Voglio vivere la notte con te. E non ti dimenticherò mai.
-Lo dici adesso, ma aspetta che arrivi domani. Non ricorderai il ragazzo con la pelle scottata da soli che tu non vedrai mai. Non ricorderai Onegin. Non ricorderai il cosacco, mio giglio.
Lei gli posò la testa sulla spalla e lui rise, con quella sua risata di gola così sensuale.
-La vita è orrenda, ragazza.
-Io danzo per dimenticare. Dovresti farlo anche tu.
-Io ho ucciso, per lo stesso motivo.
Lei si aggiustò un po’ accanto a lui, i piccoli seni arrossati dai suoi baci, il corpo snello sfibrato e sporcato da cicatrici e lo strinse con forza, come se fosse una bambina.
-Dormo con te.
-Non è la prima volta che lo fai.
-Ma questa volta sarà diverso. Stringimi, per favore.
Lui sorrise appena, di nuovo, spense la sigaretta nel posacenere stracolmo e la strinse, con quei modi un po’ impacciati, forse terrorizzato dal farle del male.
-Ti amo.- disse lei, anche se sapeva che non avrebbe ottenuto risposta.
-Sei perfetta.- disse lui, anche se sapeva che lei era un errore vagante.
Lei chiuse gli occhi e lui le baciò i capelli, aggiustandole il piumone sul corpo esile ed effimero come quello di una libellula.
Poi lui guardò fuori dalla finestra, vide le luci della strada che inondavano l’appartamento, ripensò alla sua Ucraina, e lasciò che una singola lacrima gli scorresse sul viso, andando a bagnare i capelli di lei.
  
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