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Autore: Adeia Di Elferas    07/12/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Alessandro VI si sistemò meglio la cappa da camera che si era messo sulle spalle per far fronte al freddo di quel mattino.

Aveva dormito pochissimo e male. Malgrado dai Tiberti fossero giunte buone notizie e nonostante le chiacchiere – già arrivate a Roma – dei piccoli moti di ribellione che sembravano accendersi ogni giorno in Romagna, il papa non era tranquillo.

Prima di tutto, era qualche giorno che non riceveva lettere da suo figlio Cesare, né da nessuno dei suoi servi. Gli piaceva sapere dove fosse il suo erede e, ancor di più, che cosa gli passasse per la testa. Quando l'aveva mandato dal re di Francia per farsi dare un esercito, sapeva di rischiare.

Quello che ora tutti chiamavano pomposamente il Duca di Valentinois era ancora solo un ragazzino viziato e preda dei peggiori colpi di testa. Juan sarebbe stato molto più affidabile.

Pensare a Juan intristì ancora di più il Santo Padre che, lasciando la sedia della scrivania, prese a camminare meditabondo per la stanza. Arrivò fino alla finestra, ma la pioggia che batteva contro il vetro aumentava solo la sensazione di gelo che gli attanagliava il cuore.

Ciò che l'aveva tenuto sveglio, dopo aver perso il sonno nel cuore della notte per colpa di un forte tuono, era un pensiero infido e impossibile da scacciare. Era stato Carafa, forse involontariamente, a mettergli quel tarlo in testa.

L'estemporanea viaggio della Sforza a Firenze era ormai argomento di discussione, in Vaticano, e anche se l'opinione comune dava per buone le voci che descrivevano quell'iniziativa della Tigre come non solo inutile, ma probabilmente per lei addirittura dannosa, il Cardinale si era lasciato sfuggire un commento che aveva fatto raggelare il sangue nelle vene di Rodrigo.

“Quella donna è astuta – aveva borbottato, aggrottando la fronte – non mi sorprenderebbe se fosse stato tutto teatro e che invece con Firenze un accordo l'abbia, eccome!”

Carafa stesso non aveva più toccato l'argomento, ma dopo quella frase il Borja non era più stato così sicuro della prima lettura data a quel fatto. Quella notte, poi, complici le ombre e il temporale, gli era parso non solo plausibile, ma perfino ovvio che il Cardinale avesse ragione.

La Sforza era infida, come la vipera dei suoi antenati Visconti. Aveva imparato a muoversi fin da ragazzina, quando era proprio lì, a Roma, alla corte dello zio acquisito, Sisto IV. Far da balia a un marito inetto come Girolamo Riario, poi, l'aveva solo aiutata ad affinare il proprio spirito di sopportazione.

Rivalutando chi era la donna di cui si stava parlando, e considerando anche la doppiezza innata dei fiorentini, improvvisamente al Borja era parso tutto lampante. Poco importava se quel buono a nulla del Cardinale Raffaele Sansoni Riario aveva smentito in modo convinto un possibile patto segreto tra la Signoria e la Sforza. Ormai il papa ne era sicuro e nulla avrebbe potuto fargli cambiare idea.

Da fuori cominciava a entrare una luce un po' più distinta, segno che, malgrado il brutto tempo, ormai era sorto il sole.

Dopo aver ragionato ancora un po', alla fine il Santo Padre decise di fare quello che forse andava fatto fin dal principio. Sedutosi di nuovo alla scrivania, con un sospiro pesante, prese la penna, la intinse nell'inchiostro e cominciò a vergare una lettera formale d'accusa nei confronti dei fiorentini, sostenendo che stessero aiutando in gran segreto la Leonessa di Romagna, in contrasto con l'accordo pregresso stretto tanto con lui, quanto con il re di Francia.

 

Dopo il Consiglio Generale, malgrado le forche messe in piazza, Forlì sembrava immersa in un immobilismo perfetto. I lavori alle mura continuavano, qualche contadino raggiungeva la città come predisposto, ma di fatto gli ordini più gravosi non erano ancora stati portati a termine.

Solo il bosco della riserva privata della Tigre stava sparendo un albero dopo l'altro, sotto i colpi zelanti delle accette di tanti forlivesi, come se distruggere i beni altrui fosse assai più facile e soddisfacente che farlo coi propri.

La Sforza aveva deciso di soprassedere fino allo scadere del terzo giorno, ma nel frattempo aveva tenuto aperte le porte del palazzo. Ragionando a mente fredda si era resa conto di quanto fosse particolare la prova di forza cui i suoi sudditi la stavano sottoponendo e, se volevano almeno provare a sopravvivere a una guerra, entrambe le parti dovevano fare qualche sforzo.

Permettendo ai cittadini di dire ancora la propria opinione, la Contessa si illudeva di poterli convincere della sua disponibilità, ma, di contro, sperava anche di poter esigere maggior obbedienza.

Imola sembrava anch'essa in una fase di stallo e, finché non arrivavano notizie drammatiche, alla Tigre andava bene anche così. Gian Piero Landriani, malgrado non ricoprisse più un ruolo effettivo nel governo della città, non smetteva di mandarle puntuali resoconti e saperlo così interessato alla questione la faceva stare molto più tranquilla.

Perciò, approfittando di quel momento di apparente calma, si era dedicata a pianificare la partenza dei suoi figli.

Anche quella mattina, mentre Argentina cercava disperatamente di sistemarle il vestito rosso che indossava nei momenti importanti, aveva convocato a sé Luffo Numai per discutere di un punto molto importante.

L'uomo, nel vedere la serva che si affaccendava attorno alla sua signora con ago e filo, per provare i ritocchi all'abito direttamente sul vestito indossato, aveva chiesto se non fosse il caso di rimandare, ma la Tigre aveva assicurato che di Argentina ci si poteva fidare.

Il forlivese aveva guardato di sottecchi la domestica e poi, mentre la memoria tornava alla moglie di Bernardino Ghetti che finiva impiccata in piazza, aveva solo annuito in modo secco e aveva pregato la Contessa di dire tutto quel che doveva.

“Si tratta di una cosa davvero molto rischiosa...” soppesò l'uomo, che, dopo almeno un'ora di discussione, aveva finito a sedersi sul letto, incapace di stare ancora in piedi.

Argentina stava facendo del suo meglio per finire il prima possibile la sua opera, e lasciare la Sforza e Numai da soli, ma l'abito della sua padrona era così rovinato che non era facile trovare soluzione a certi rattoppi ormai troppo evidenti.

Caterina, invece, si augurava che Argentina non finisse prima di quanto non finissero lei e Luffo.

Trovava che quell'incontro potesse risultare molto meno interessante, agli occhi di possibili spie, perché la presenza della serva toglieva il sospetto che lei e il forlivese stessero parlando di questioni segrete.

“Lo so, e se non vorrete accettare lo capirò.” fece in fretta la Contessa, sollevando un po' il braccio, come la sua cameriera stava silenziosamente chiedendole di fare: “Avete già fatto molto, per me e i miei figli. Non posso chiedervi anche questo, me ne rendo conto.”

“No, no, non fraintendetemi...” mise la mani avanti Numai: “Non vi sto dicendo di no.”

La Tigre lo guardò da sopra la spalla. Il sollievo era arrivato subito dopo quell'affermazione. Però la titubanza del Consigliere era tangibile e, in un frangente del genere, pericolosa.

“La cosa che mi preme è solo una, mia signora: aiutarvi.” riprese Luffo, a voce bassa: “Ma per farlo, mi dovete mettere in condizioni di farlo.”

“Spiegatevi meglio.” il nervosismo stava tornando a farsi largo nell'animo della Leonessa e temeva che da un momento all'altro anche il suo fedele Consigliere la mettesse davanti all'impossibilità pratica di fare ciò che lei voleva.

“I vostri figli dovranno essere collaborativi.” fece l'uomo, cauto: “Tutti, anche messer Bernardino.”

Caterina si morse il labbro: “Lo so.”

“Basterebbe poco per farli scoprire e metterci tutti nelle mani del Borja.” precisò ulteriormente il forlivese.

“Lo so.” ripeté la Contessa.

“Potete togliervi l'abito...” si intromise Argentina, suo malgrado.

La donna cominciò a spogliarsi, aiutata dalla serva, e né lei né Numai trovarono quel momento imbarazzante, tanto le loro menti erano concentrate su altro.

“Ma avete capito perché devo aspettare che il figlio del papa sia in città.” disse la Leonessa, dandogli le spalle e facendosi passare dalla serva una vestaglia da camera.

L'uomo venne distratto solo per una frazione di secondo dalla schiena dritta e liscia della sua signora, dai suoi fianchi e dalle gambe lunghe e flessuose, e poi ribatté: “Sì, ho capito perché volete farlo e sono d'accordo con voi.”

“Quindi mi aiuterete?” fu l'ultima domanda della Sforza.

“Lo farò.” concluse Luffo: “Vi chiedo solo qualche ora per parlarne con calma a mia moglie.”

“Sì, dovete.” convenne la donna, dopo un cenno del capo ad Argentina che, con il vestito rosso pieno di imbastiture tra le braccia, stava chiedendo senza parlare il permesso di uscire: “Vostra moglie deve sapere tutto, o il piano non funzionerà.”

Luffo si batté le mani sulle ginocchia e si rimise in piedi: “E voi parlatene con i vostri figli.”

“Lo farò. Già oggi voglio cominciare a discutere queste ultime decisioni con Bianca.” assicurò la Contessa.

“E fate sapere a Marulli che il tempo stringe, sempre che non l'abbia capito già da solo. La sua rete di protezione va allertata.” cominciò a elencare Numai, preso da una frenesia che lo coglieva solo quando il compito affidatogli gli pareva fuori dalla sua portata: “E fate in modo che il vostro figlio più piccolo sia tranquillo... Non voglio che pianga così forte da attirare l'attenzione di tutti. In casa mia non ci sono bambini tanto piccoli da anni... Lo noterebbero subito e magari qualcuno potrebbe capire...”

“State tranquillo – lo rincuorò la Tigre, che pure sulla gestione di Giovannino aveva lei per prima qualche grattacapo – faremo tutto per bene.”

Mentre il Consigliere lasciava le stanze della Contessa, Giovanni da Casale si infilò nella porta e, senza salutare la sua amante, disse: “Pare che sia arrivato quel Giannotto francese che stavi aspettando.”

Caterina, vagamente indispettita per l'ingresso non autorizzato del milanese, sollevò un sopracciglio e commentò: “Ci ha messo parecchio tempo, ad arrivare. Dov'è ora?”

“Appena fuori dalla città.” rispose secco l'uomo: “Stanno aspettando che tu dia il permesso di entrare anche ai suoi quattrocento fanti.”

La Sforza ci ragionò un momento. Non erano pochi. Non aveva spazio, al momento, per loro al Quartiere Militare. E non voleva scombinare prima del tempo l'organizzazione di Ravaldino.

L'unica alternativa valida che le venne in mente consisteva nel dividere in tre quel piccolo esercito e far alloggiare i soldati a San Mercuriale, San Francesco e San Domenico. Una volta tanto, pensava, i preti avevano l'occasione di dimostrare la loro fedeltà a lei e non al papa.

“Sì, sì, vai a dire che do il mio permesso... Per il momento potranno radunarsi al Quartiere Militare e poi provvederò io a spiegare al loro comandante dove andare.” tagliò corto, mentre cercava degli abiti adatti con cui vestirsi per andare ad accogliere quei nuovi alleati: “E adesso tu torna al Paradiso. Ti ho detto in tutti i modi che non devi lasciarlo così spesso...”

“Certo, perché hai paura che credano che io sia il tuo favorito.” borbottò Pirovano, cominciando a giocherellare con l'orlo della manica del giubbone: “Tanto lo pensano già tutti, che mi hai messo comandante alla cittadella per quello...”

“Ecco, allora tu fai in modo di smentirli.” lo freddò la donna, che non aveva alcuna voglia di perdere tempo con uno sterile litigio.

Giovanni si morse l'interno della guancia e poi, incanalando tutta la sua insofferenza in una direzione che forse la sua amante avrebbe trovato più interessante, buttò lì: “Io, comunque, se fossi in te, non mi fiderei di questo Giannotto...”

“E perché?” chiese lei, mentre si infilava un paio di spesse brache di cuoio.

“Perché è un francese!” esclamò allora il milanese, come se fosse una cosa ovvia.

“Un francese che a Pisa ha combattuto contro i fiorentini.” precisò la Contessa: “E i fiorentini, mi pare ovvio, ormai sono nemici nostri.”

Pirovano scosse con forza il capo: “Siamo in guerra contro i francesi e tu te ne tiri in casa uno...”

“Non sta a te dirmi cosa devo o non devo fare!” si alterò la Tigre: “Vuoi che gli altri non credano che ti faccio un trattamento di favore perché sei il mio amante? Allora smettila di pretendere che invece lo faccia! Tu devi ubbidirmi e basta!”

Giovanni avrebbe voluto ribattere a tono, così come avrebbe voluto invece chiedere perdono e implorare alla donna che amava di non adirarsi in quel modo con lui. Nel mutismo confuso dietro cui si trincerò, invece, la Sforza scorse ancora di più la sua inadeguatezza. Pirovano era un ottimo soldato, un intrepido guerriero, ma dal punto di vista umano, era poco più che un ragazza. Non poteva pretendere da lui la maturità di un uomo fatto. Non aveva nemmeno venticinque anni, e aveva passato quasi tutta la sua vita con in mano una spada. Come poteva capire altro?

“Adesso vattene.” concluse la Leonessa, sfinita: “Devo incontrare ancora i notai per i resoconti delle armi presenti in città. Devo parlare coi demolitori che si occuperanno di abbattere la bastia di Sadurano. E poi devo andare a controllare che le nuove monete siano state coniate come avevo ordinato.”

“Ho capito, non hai tempo per me.” la frecciata del milanese era intrisa di una gelosia così infantile che alla Sforza fece quasi pena.

“Siamo in guerra, ormai.” gli fece presente: “Anche tu dovresti sapere che quando si è in guerra non si ha tempo per nessuno.”

 

Il Cardinale Juan Marrades, cubicolario prediletto di Alessandro VI, si era prestato come intermediario solo ed esclusivamente per un senso profondo di responsabilità. Sapeva quanto fosse delicato quel momento e non voleva che un litigio tra padre e figlio andasse a compromettere gli equilibri che si stavano così difficilmente creando.

Così, quando si era visto arrivare davanti un uomo incappucciato, che aveva senza difficoltà riconosciuto come Cesare Borja, non aveva fatto storie e aveva accontentato le sue richieste, andando dal Santo Padre, per annunciargli in via confidenziale l'arrivo a Roma del figlio.

Rodrigo aveva dapprima creduto a uno scherzo. Poi, mentre le guance piene si colorivano, aveva infilato un paio di bestemmie in spagnolo, concludendo con una in italiano. Aveva fatto domande, ma Marrades, che non sapeva praticamente nulla, non aveva potuto dare risposte soddisfacenti.

Quando alla fine il pontefice si era convinto a incontrare Cesare, il cubicolario era stato ingaggiato come una sorta di palo, ed era stato posto davanti alla porta delle stanze private del papa, in modo da impedire a chiunque di entrare. Nessuno, su questo entrambi i Borja erano stati categorici, nessuno, ma proprio nessuno doveva sapere che il Valentino era lì.

“Quello che hai fatto è da folli.” decretò Alessandro VI, dopo aver ascoltato il figlio per almeno mezz'ora: “Lasciare l'esercito solo per... Per cosa? Vedere un bambino appena nato?!”

“Quel bambino è mio nipote.” disse Cesare, abbassando lo sguardo, sperando che quella spiegazione bastasse per il vecchio sentimentale in cui si stava trasformando suo padre: “Sto per andare in guerra, volevo vederlo, e voglio rivedere anche mia sorella.”

Rodrigo sollevò lentamente lo sguardo verso il figlio: “Stai attento a quello che fai.”

Il Valentino sporse un po' in fuori il mento, rendendosi conto di aver detto troppo, per le orecchie fine di suo padre, e tentò di riparare: “Devo parlarle. Devo metterla in guardia su... Su quello che capiterà.”

Il papa si strinse un po' nelle spalle, accomodandosi sulla poltroncina e, mostrando il palmo della mano, chiese: “E, di grazia, cosa capiterà?”

“Che Napoli cadrà sotto i nostri cannoni e lei dovrà dire addio a quel ragazzino piagnucolante di Alfonso d'Aragona.” fece Cesare, impassibile.

“Il re di Francia vuole conquistare Napoli, non noi.” gli ricordò il Santo Padre, riconoscendo nel figlio un'espressione che gli aveva visto in viso mille volte, da ragazzino.

Sapeva che quando si atteggiava a quel modo, significava che aveva in mente qualcosa di preciso e, il più delle volte, qualcosa a cui non avrebbe dovuto nemmeno lontamente pensare.

“Quindi secondo voi io, il figlio del papa, dovrei accontentarmi della Romagna?” la voce del giovane Borja era intrisa di risentimento, più che di incredulità: “Prima dite di volermi dare un impero, e poi mi fate capire che dovrei accontentarmi di qualche campo di grano e un paio di città grosse quanto un villaggio?! Se al mio posto ci fosse stato Juan sono sicuro che...”

Un suono strozzato pose fine all'arringa del Valentino. Suo padre, indolente fino a quel momento, nel sentir nominare il figlio prediletto era scattato in piedi e, prima di ragionare, gli aveva messo una mano attorno al collo.

“Se ci fosse stato ancora Juan – completò la frase, al posto di Cesare: “Gli avrei dato quel che si meritava. Ma siccome io devo accontentarmi di uno scarto, allora tu vedrai di accontentarti di quel che è alla tua portata.”

Quando il pontefice mollò all'improvviso la presa, il Duca di Valentinois si ripiegò su se stesso, senza fiato. Le dita alla gola, laddove la stretta del padre faceva ancora male, il giovane cercò di respirare, finendo per tossire e sentirsi soffocare ancora di più.

“Guardati...” sbuffò il papa: “Vuoi conquistare un impero e non sai nemmeno difenderti da un vecchio.”

Gli occhi di Cesare saettarono verso quelli da rapace di Alessandro VI, ma la voce ancora non arrivava e così non poté ribattere degnamente a quel plateale insulto.

“Adesso vai a dormire.” ordinò Rodrigo: “Domani dovrai recarti presti qui, nei miei alloggi. In fondo è un bene che tu sia qui. Dobbiamo discutere di tante cose.”

Il giovane Borja fece un goffo inchino, gli occhi ancora arrossati e il respiro incerto.

“Il mio cubicolare ti scorterà nelle tue stanze. Non uscirai da lì finché non lo dirò io.” concluse il pontefice e, indicando la porta, pose fine a quell'incontro.

Il Valentino uscì dagli appartamenti papali, fece un cenno a Marrades, che lo stava aspettando, e poi gli sussurrò, con difficoltà, che doveva accompagnarlo ai suoi alloggi. Il Cardinale aveva avuto già quella disposizione dal Santo Padre, perciò non ebbe problemi ad annuire e scortarlo.

Tuttavia, quando furono in prossimità della meta, Cesare si schiarì la gola e disse: “Non mi interessano gli ordini di mio padre. Voglio andare da mia sorella.”

“Io non posso...” tentò il cubicolare del papa.

“Spiegatelo al mio amico Michelotto.” lo interruppe subito il Borja: “Lo conoscete, no? Era quello che mi ha accompagnato qui. Vi piacerebbe provare il ferro della sua spada?”

Il Cardinale rimase qualche secondo in silenzio, scrutando il viso dell'ex porporato con attenzione alla luce delle torce. Vi lesse abbastanza sicurezza di sé da sapere che, in barba a qualsiasi possibile punizione paterna, il Duca avrebbe fatto seguire i fatti alle promesse.

Così, deglutendo, piegò il capo: “Se vorrete andare a Santa Maria in Portico, io non dirò nulla, ma non posso accompagnarvi fino là.”

“Non importa – sogghignò il Valentino – tanto conosco la strada.”

 

Giannotto mangiava come un lupo e beveva senza sosta. Caterina aveva potuto intavolare con lui un buon discorso, prima di iniziare a cenare, ma dopo l'arrivo della prima portata, il francese non aveva avuto più tempo per lei.

Se da un lato la Tigre era rimasta soddisfatta dai progetti di quel condottiero di ventura, che le aveva spiegato con dovizia di particolari le grandi abilità dei suoi uomini e aveva assicurato una volta di più che avrebbe preteso un pagamento solo ed esclusivamente se la guerra li avesse visti sopravvivere, dall'altro la Sforza era rimasta un po' spiazzata da un commento secco che l'uomo aveva fatto non appena si erano messi a discutere.

“Mettere i miei uomini in tre conventi...” aveva sogghignato, con un accento d'Oltralpe molto forte, mentre osservava la Contessa con le sopracciglia sollevate: “Avete un bel coraggio. Spero che vi resti qualche prete, alla fine...”

Solo mentre lo vedeva mangiare Caterina aveva capito appieno il commento del francese. Negli anni si era abituata troppo alle truppe ordinate e tutto sommato molto educate che aveva formato lei stessa. Fin da quando aveva preso stabilmente il potere, non erano mai successi tafferugli degni di nota, né i soldati avevano infastidito le donne di Forlì, mossi, probabilmente anche dal fatto che le stesse donne erano le loro mogli, figlie e madri.

Dei mercenari, per di più guasconi e tedeschi, non potevano certo essere della stessa pasta.

Quella sera la Leonessa aveva voluto accanto a sé tutti i figli – tranne Giovannino, che, in virtù della sua tenerissima età, era stato dispensato da quell'apparizione – nella speranza di dare l'idea di un'unità familiare che in realtà era sempre stata molto precaria, se non a tratti del tutto assente.

Tutti si erano presentati abbastanza di buon grado, perfino Ottaviano, che aveva lasciato volentieri il posto alla destra della madre al fratello Galeazzo, ma nessuno sapeva che fine avesse fatto Bernardino. Caterina, per evitare tante parole, aveva fatto finta di nulla, ma più la cena andava avanti, più la sedia lasciata vuota da suo figlio, occupata all'ultimo momento dal castellano, attirava il suo sguardo.

Quando finalmente Giannotto aveva dato fondo a tutto quello che era stato messo in tavola, la Contessa l'aveva congedato, pregandolo, per quella notte, di restare alla rocca, ma facendogli capire che da quella successiva avrebbe dovuto stare in uno dei tre conventi in cui aveva sistemato le truppe.

“Con il loro comandante vicino – disse lei, mentre lo affidava a un servo che lo avrebbe accompagnato fino alla sua stanza – sono certa che i vostri uomini sapranno come comportarsi.”

“I miei uomini – ribatté il francese, trovando il tutto apparentemente molto comico – non sanno nemmeno che li ho portati qui a combattere una guerra persa in partenza...”

Intanto che la risata da brillo di Giannotto andava spegnendosi, la Sforza guardò Bianca, e le chiese, in un soffio: “Bernardino dov'è?”

La Riario scosse il capo, ma poi, accigliandosi, rispose: “Potrebbe essere ancora nella sala delle armi.”

“A far cosa?” domandò di rimando la madre.

Bianca, mentre i fratelli, uno dopo l'altro, lasciavano la tavola, si avvicinò un po' di più alla madre e spiegò: “Oggi Galeazzo non è rimasto molto ad addestrarsi, perché voleva seguire i lavori al mastio...” d'improvviso la ragazza si fece reticente, ma, dopo aver guardato un istante negli occhi la Tigre, proseguì: “Quando Galeazzo non c'è e Bernardino resta solo coi soldati... Non è che lo trattino molto bene, specie quelli non giovanissimi.”

La Sforza strinse le labbra. Poteva immaginare come il figlio del Barone Feo fosse poco gradito a chi ricordava bene quanto accaduto qualche anno addietro. Con un cenno del capo, pregò la figlia di continuare.

“Un paio di loro – riprese allora la Riario – l'hanno messo in difficoltà, prendendolo in giro perché non riusciva a tenere lo spadone a due mani, facendolo restare male. Il maestro d'armi l'ha sgridato, dicendogli che era colpa sua, che ha voluto usare un'arma che per lui non va bene...”

“E perché credi che sia nella sala delle armi?” quel quesito parve così ingenuo a Bianca, che, per qualche istante, credette che fosse una strana domanda retorica.

Quando invece capì che sua madre davvero non vedeva un collegamento logico, spiegò: “Ecco, Bernardino è molto caparbio, specie se viene punto sull'orgoglio. Scommetto che è ancora lì a provare a usare lo spadone a due mani al solo scopo di vendicarsi domani con quei due che l'hanno dileggiato.”

Caterina, che invece nel figlio avrebbe visto come più sensato un comportamento che era stato tipico anche di Giacomo, ovvero arrendersi e scappare e basta, non pareva molto convinta. Però, dopo aver vuotato il calice di vino, ringraziò la figlia e lasciò la sala dei banchetti, curiosa di vedere se Bianca avesse ragione.

Attraversò in fretta il cortile, passando sotto le arcate per evitare la pioggerella fine, ma insistente, di quella sera, e quando fu vicina alla sala delle armi rallentò. Tese l'orecchio e poi, sentendo dei rumori ovattati, ma che sapeva riconoscere, si avvicinò un po' di più e sbirciò dentro, badando di restare nell'ombra, per non farsi notare.

Bernardino era davvero nella sala delle armi, con in pugno uno spadone grosso come lui. Faceva fatica a tenerlo sollevato, ma cercava, goffamente, di eseguire tutte le posizioni di base.

“Di quel passo non riuscirai mai a fargliela pagare, domani, ma, anzi, ti prenderanno in giro ancora di più.” disse la Contessa, senza riuscire a trattenersi.

Il ragazzino, voltandosi di scatto, abbassò lo spadone e spalancò gli occhi. Alla luce tenue di un'unica torcia, il suo viso appariva comunque rubizzo e i capelli incollati alla fronte dal sudore. Era evidente che stesse valutando la fuga, ma la madre, piazzandosi in mezzo alla porta, voleva impedirgliela.

“Bernardino – prese a dire lei, incrociando le braccia sul petto – devi imparare a ubbidire di più. Ti volevo a tavola con me e i tuoi fratelli. Perché non sei venuto? Per esercitarti con un'arma che non va bene per la tua stazza?”

Il piccolo Feo si morse il labbro, vergognoso, e abbassò lo sguardo senza dire nulla.

“Posa quello spadone.” ordinò la Sforza: “Non va bene per te, come non andava bene per tuo fratello Galeazzo o per me alla tua età.”

Il bambino fece quanto gli era stato detto. Pensando che ormai il rischio di vederlo fuggire fosse ridotto, la donna gli si avvicinò.

“Devi imparare di più a far quello che ti dico. Presto dovrai andartene e sarai in pericolo, se non seguirai gli ordini.” lo riprese.

“Io so difendermi.” sussurrò Bernardino, con una nota d'ostinazione in cui la Tigre si rivide senza problemi.

“Ah sì, e come?” chiese lei, accucciandosi, per avere gli occhi alla stessa altezza di quelli del figlio.

“Con il coltello.” rispose lui.

“Chi ti ha insegnato a usarlo?” la Contessa aveva intravisto un movimento appena accennato della mano del Feo, forse pronta a correre a un pugnale nascosto sotto la gamba delle brache.

“Nessuno.” fece lui, con fierezza: “Ho imparato da solo.”

“Il coltello può essere utile – ammise la Tigre, quasi intenerita dal modo in cui il bambino aveva cercato di mostrarsi forte ai suoi occhi – ma è anche vero che contro uno spadone di quelli...”

Bernardino seguì l'indice della madre, che indicava l'arma che lui aveva appena posato sul tavolo.

“Ecco, contro uno di quelli un coltello spesso è troppo poco.” concluse Caterina: “Quindi devi imparare a dar retta.”

Il ragazzino non ribatté, stringendo un po' il morso ed evitando gli sguardo della madre.

“Per me sei importante, anche se non ho mai saputo dimostrartelo come avrei dovuto.” confessò la donna, tirandolo a sé così all'improvviso da farlo sobbalzare: “Vedi di fare quello che ti dico e di non farti uccidere. Tutto il resto non ha importanza, ormai.”

Il Feo si lasciò abbracciare, anche se ricambiò lo slancio solo alla fine, quando ormai la Leonessa si stava allontanando.

“Adesso andiamo...” sbuffò la Sforza, porgendo una mano al piccolo: “Devi dormire. Lascia stare gli spadoni. Avrai tempo, per quelli. Adesso devi solo pensare a fare il bravo.”

Bernardino, pur con diffidenza, accettò la mano tesa della madre e la strinse, uscendo con le dalla sala delle armi, docile come non era mai stato. Caterina si godette davvero quei pochi passi che da lì li portarono alla camera del figlio. Uniti a quel modo, avevano entrambi l'impressione di essere meno distanti del solito.

“Passa una buona notte.” gli disse, e se ne andò, mentre il ragazzino ancora stava sulla porta della sua stanza.

Il Feo la guardò e non la lasciò con lo sguardo finché non la vide sparire nei suoi alloggi. A quel punto, cedendo al suo istinto e mettendo di nuovo da parte la ragione, invece di andare a riposare come promesso, riattraversò il corridoio, scese in fretta le scale e tornò nella sala delle armi, dove riprese lo spadone e, in barba al dolore che provava alla schiena e alle braccia, ricominciò il suo solitario allenamento, deciso come non mai a superare se stesso e rendere orgogliosa di lui la Tigre di Forlì.

 

Alfonso d'Aragona saltò giù dal letto, spaventato dai forti colpi che sembravano quasi voler buttar giù la porta. Anche Lucrecia, le coperte tirate fino al mento, aveva paura, tanto da tremare.

Il piccolo Rodrigo, nella sua culla, piangeva a dirotto, spaventato e frastornato da quel risveglio improvviso e violento.

“Che succede? Chi ci cerca?!” chiese il ragazzo, infilandosi in fretta un paio di brache.

“Apri immediatamente!” la voce di Cesare fece raggelare il sangue nelle vene alla Borja che, scuotendo ferocemente il capo, cercava di impedire al marito di fare quanto gli veniva chiesto.

“Che ci fate qui? Che volete?” provò a prendere tempo Alfonso, spaventato più dal terrore che leggeva negli occhi della moglie che dal fracasso che il cognato stava facendo: “Dove sono i nostri servi? Come avete fatto ad arrivare fino a qui?”

“Smettila con tutte queste domande! Apri!” il Valentino non aveva più pazienza.

L'Aragona, dopo aver cercato di ragionare lucidamente, alla fine fece scattare il chiavistello e permise a Cesare di entrare.

“Vattene.” ordinò il Borja, piantando i suoi occhi di fuoco in quelli azzurri del napoletano.

“Ma...” provò a opporsi il giovane, e a quel punto il Duca di Valentinois poté rifarsi su di lui con il medesimo attacco che aveva ricevuto da suo padre.

Prendendo il cognato per la gola, anche se solo per pochi secondi, ribadì: “Vattene.”

Lucrecia, nel vedere il fratello stringere le dita attorno al collo pallido del marito, cacciò un urlo e poi, rivolgendosi ad Alfonso, lo implorò: “Fai quello che ti dice! Ti prego! Fai quello che ti dice!”

Sentendosi piccolo e deprecabile, l'Aragona, appena riuscì di nuovo a respirare, esaudì la richiesta della Borja e si allontanò, tossicchiando e inciampando.

Cesare chiuse la porta con un tonfo, ignorando il pianto del piccolo Rodrigo e guardando la sorella con aria di sfida: “Eri a letto con lui.” le disse.

“Lui è mio marito.” gli ricordò lei, nascondendosi un po' di più dietro le coperte.

“Lui è napoletano. Così come quel vermiciattolo.” ribatté il Valentino, indicando il nipote: “Noi presto faremo loro guerra e allora non ci sarà più spazio per gli Aragona, qui a Roma.”

Lucrecia lo guardava senza fiatare. Il volto di suo fratello era quasi trasfigurato. Macchiato dal mal francese, distorto dalla rabbia e adombrato dal demone che lo perseguitava e che si accendeva come non mai, quando era geloso.

“Fai bene a godertelo, il tuo Alfonso...” annuì tra sé Cesare, improvvisamente privo di espressione, come ogni volta in cui si faceva davvero pericoloso: “Finché puoi.”

“Non gli farai del male...” quella di Lucrecia era una domanda, ma la sua voce uscì senza intonazione, inane e spenta, mentre il Borja le si avvicinava, andandosi a sedere sul letto proprio accanto a lei.

“Solo io so che cosa è bene per te, sorella mia.” le disse il giovane, sfiorandole una guancia con la punta delle dita: “Devi fidarti di quello che decido. Tu, da sola, non sai nemmeno da che parte tira il vento...”

La ragazza deglutì e poi, trattenendo a fatica una lacrima di paura, il labbro che tremava appena, chiese: “Perché sei qui? Non dovevi essere in Romagna a combattere per nostro padre?”

“A combattere per me!” la corresse lui, di colpo rabbioso, per poi placarsi appena nel dire, con un sorriso tirato: “Prima di impugnare la spada, dovevo venire a trovare la mia sorellina e conoscere il mio nuovo nipote, non credi?”

La donna fece segno di sì, sperando così di non alterarlo ulteriormente. Voleva solo limitare i danni, quella notte. Se Cesare era lì, probabilmente era stato davvero per un capriccio momentaneo.

Il papa l'avrebbe fatto ripartire a breve. C'era una guerra da combattere. Tutto stava nel sopportare qualche giorno. Anzi, magari solo qualche ora. E sperare che Alfonso si trattenesse e non cercasse di fare l'eroe.

“Dimmi che ti sono mancato.” fece il Borja, avvicinandosi un po' di più, tanto che lei poté sentire il calore del suo fiato addosso.

“Mi sei mancato.” bisbigliò Lucrecia e da allora preferì non dire più nulla e smettere di pensare, pregando e basta, nella speranza che Dio accelerasse i tempi della guerra, obbligando suo fratello a ripartire subito.

 
 
   
 
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