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Autore: Lost In Donbass    08/12/2019    0 recensioni
Eleanora è selvaggia, distrutta, è una marionetta persa nel suo inferno.
Demian soffre di stress post traumatico, e quando dice che vuole morire non lo dice per scherzo.
Denis è un eroe generazionale, ma nasconde segreti che non sono per tutti.
Yurij è la disperazione allo stato puro.
Sono angeli dell'underground siberiano, si incontrano, si amano, si lasciano, in un'escalation di distruzione, alcol, pastiglie, sesso, musica e letteratura russa. Sono arrabbiati, sono violenti, sono persi, sono distrutti.
Sono i mostri dai quali le madri vi tengono a distanza.
Sono i ragazzi di Krasnojarsk, e questo gioco al massacro è appena cominciato.
Genere: Angst, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Threesome | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO SECONDO: THE JOKER, THE SOLDIER AND THE DANCER

I’ve created a monster, inside of my head
And it’s eating me alive.
I’ve created the demons, I once believed in
To get me through the night
[New Years Day – My Monsters]
 
Denis si passò una mano tra i capelli scuri, scostandosi il ciuffone dal viso e sospirò rumorosamente, le cuffie con qualche canzone metalcore sparata a tutto volume nelle orecchie e la sua solita espressione dolorosa. Era bello, Denis, bello come solo certi ucraini del sud possono esserlo, con quel viso angoloso, quegli occhi colore dell’ambra, quel naso largo. Aveva una bellezza cosacca, una bellezza meridionale. Ma aveva qualcosa, incastrato in quelle iridi scure, un male oscuro, profondo, un male che nessuno conosceva e che forse era oscuro anche a lui stesso. Un male che non riusciva a tenere a freno.
Si accese una sigaretta e si sedette sulle scale dell’università, lo zaino abbandonato al fianco e gli occhi persi nel cielo nuvoloso. Ricordò gli infiniti cieli ucraini, così dannatamente azzurri, e gli venne voglia di piangere. A lui mancava casa, altrochè. Gli mancava la gente che parlava la sua lingua, gli mancavano le babke calde la mattina, gli mancava Sudak e il suo mare cristallino, i suoi alberi in fiore, i suoi profumi forti. Niente a che vedere con il gelo della Siberia, il suo vuoto, le sue fabbriche che riempivano il cielo di fumi tossici. Voleva tornare in Crimea. Voleva nuotare nel Mar Nero, voleva ballare sulle note delle canzoni tradizionali. Voleva singhiozzare come un bambino e dormire nel letto con sua mamma, come faceva quando era piccolo e aveva paura del temporale. Ma adesso aveva ventidue anni, era un uomo, era grande, e aveva delle responsabilità. O forse no. O forse avrebbe solamente dovuto guarire dalla sua malattia. Cosa c’era che non andava nella sua vita? Troppe cose. I demoni, per esempio, che lo perseguitavano da quando era venuto al mondo. Il vomito forzato, che gli sconquassava lo stomaco. Gli occhi allucinati che spaventavano chiunque. La chitarra che non riusciva più a suonare da quando si era trasferito in Russia.
Si passò di nuovo una mano tra i capelli e soffiò al cielo una voluta di fumo. Voleva andarsene da Krasnojarsk. Voleva tornare in Crimea. Voleva parlare ucraino. Voleva mangiare le babke della panetteria della zia Olga. Non voleva stare lì.
A volte faceva i capricci, come un bambino. Piangeva e stringeva i pugni, e sua madre sospirava, perché Denis era squilibrato e lo sapevano tutti nel palazzo. Un cosacco squilibrato. Un eroe malato di mente. Ma cosa sei, Denisoch’ka?, si diceva da solo. Sei Bazarov, sei Onegin. Sei Raskol’nikov. Sei umiliato e offeso da una terra abbandonata e da gente che non ti comprende, che non riesce ad andare oltre a un volgare accento ucraino e alle tue fughe in bagno. Stava così tanto male, Denis. Così tanto male da aver tentato di uccidersi, un giorno. Ricordava con fastidio quel pomeriggio di primavera, ricordava con fastidio il dolore del rasoio sui polsi, ricordava con fastidio la morte che non arrivava. E ricordava con ancora più fastidio gli sguardi di sufficienza dei medici che gli avevano ricucito le braccia malamente ferite. Non lo avevano preso sul serio nemmeno dopo un tentato suicidio. Continuava a rimanere lo strano ragazzo ucraino con qualche squilibrio. Povero Denisoch’ka, mai capito, mai compreso, umiliato ed offeso.
Spense la sigaretta sul gradino e fece per alzarsi che una ragazza si sedette accanto a lui. La riconobbe. Eleanora Kazantseva.
Lui non disse nulla, e nemmeno lei, ma lui si perse un attimo a guardare la sua bellezza ultraterrena. Quei lunghissimi capelli bianchi come la neve che lui avrebbe voluto sporcare col sangue, quelle labbra dipinte di rosso fuoco che lui avrebbe voluto bianche. Quel viso da bambola truccato con maestria, quei vestiti neri di pelle che aderivano a un corpo snello e perfetto. Lei era meravigliosa. Lui era meraviglioso. Ma erano entrambi sbagliati, imperfetti, bastardi, sfruttati.
-Ciao.- disse lei, a un certo punto, guardandolo.
Denis si sentì scandagliato da quegli occhi così violetti.
-Ciao.- rispose.
-Sei molto bello.
-Anche tu sei molto bella.- sorrise Denis.
-Sei ucraino, vero?
-Sì. Crimea.
-Vieni da molto lontano. Dimmi, com’è il mare?
-E’ pulsante, è vivo, è di un colore falso e ingannevole, ma è di una bellezza ultraterrena. Non l’hai mai visto?
-No. Ma un giorno lo vedrò, e ballerò sulle acque.
Lui le sorrise ancora e le porse la mano, la sua grande mano da chitarrista, con volgari anelli rock alle dita.
-Piacere, Denis. Den per gli amici.
Lui non aveva amici.
-Eleanora. Ma puoi chiamarmi Elya.
Aveva una mano delicata e fatata, tanto che lui si vergognò di toccarla. Si guardarono a lungo in silenzio, incerti sul da farsi. Per un attimo, Denis si chiese come sarebbe stato baciarla. Sentire quelle labbra sulle sue, toccare quel corpo all’apparenza morbido, sentire quelle mani tra i capelli. A lui non piacevano le donne, lui voleva i visi ruvidi degli uomini, le loro mani violente, i corpi solidi, ma lei era diversa. Lei era meravigliosa e anche lui comprendeva la perfezione incarnata in quel corpo invidiabile e in quegli occhi straordinariamente viola.
-Balli?- chiese Denis, per spezzare quel silenzio quasi imbarazzante.
-Sì, ballo. Ho sempre ballato, da che ho memoria. Lo faccio per dimenticare.
-Dimenticare cosa?
-Di avere paura. Di essere quello che sono. Per dimenticare di nascondere il Re dei Topi sotto vestiti audaci e sorrisi imperfetti. E tu?
-Io suonavo la chitarra.
-Non la suoni più?
-No, da quando sono in Russia.
-La suonerai per me, un giorno?
-Non credo. Non ne sono più capace.
-Menti. Ne sei capace, forse sarai ancora più bravo di prima. Però ne sei terrorizzato a morte.
-Sì, forse hai ragione. Ne ho paura. Ho molta paura.
Denis sospirò e si alzò, spazzolandosi gli skinny jeans. Non voleva imbarcarsi in un discorso simile, non voleva venire a patti col suo terrore e tremore, con le sue ansie nascoste, con i suoi demoni racchiusi in un sorriso troppo bello per essere vero. Non era un poeta, era solo un ragazzo.
-Vai via?- chiese lei, piegando appena il capo e dio, in quel momento lui avrebbe disperatamente voluto averla. Avrebbe tanto voluto poter dire “è mia e la sporcherò col mio sangue e il mio sperma.”
-Devo andare a lezione.- disse invece, grattandosi il retro del collo – Mi ha fatto piacere conoscerti, Elya.
-Come sei falso, Denis.- sospirò lei, alzandosi a sua volta. Lo fronteggiò, ed era molto alta, sui quei tacchi a spillo, ma lui la superava comunque. – Ci vediamo presto. Promesso.
Si voltò e cominciò a salire le scale, lasciando lui a fissare la sua figura slanciata e ancheggiante.
Deglutì e si passò per l’ennesima volta la mano tra i capelli.
 
***
 
Il negozio di tatuaggi era un antro oscuro con una coloratissima insegna, e Denis si strinse nella giacca di pelle prima di entrare. Gli era venuta voglia di farsi un tatuaggio. Un altro, per inchiostrare la pelle pallida, per sentire il dolore dell’ago che incideva, per avere il simbolo della sua band preferita addosso. La musica lo aveva salvato, non c’era altro modo per dirlo. E che fosse nelle casse o nella sua chitarra, aveva sempre una funzione salvifica. Si grattò il collo e si decise ad entrare nel negozio. Dentro, le casse vomitavano una canzone degli Of Mice & Men a tutto volume. C’era un forte odore di sigaretta e incenso. Il ragazzo si schiarì la voce.
-E’ permesso?
-Ciao, bellezza.- lo accolse una voce sensuale e appena roca, appesantita da un inconfondibile accento ucraino.
Un giovane uomo apparve da dietro una tenda e Denis trattenne il fiato quando lo vide. Letale, come una pantera. Diabolico, come un angelo caduto. Bellissimo, come un diavolo. Era un ragazzo dal fisico invidiabile, con quei capelli quasi neri, lunghi poco oltre le spalle, e aveva anche lui dei tratti da cosacco, quell’accenno di barba, quegli occhi così maledettamente chiari. Gli ricordò Eleanora. Un fascino ultraterreno incastrato in corpi erotici e veraci. Una bellezza sbagliata racchiusa in entità quasi mistica. Denis sospirò, abbassando istintivamente gli occhi.
-Ti sei perso?- chiese l’uomo e Denis si riscosse.
-No. No, sono qui per un tatuaggio.- balbettò e dio si sentiva così in minoranza di fronte a quegli occhi bianchi.
-Certo, scusami, che stupido. Accomodati. Dimmi, sai già cosa vuoi e dove o …?
-Due A intrecciate. Sull’inguine.
Come la peggiore delle zoccole.
Il tatuatore sorrise e Denis pensò che nemmeno Eleanora avesse un sorriso così bello, così aperto, così cosacco. E così spezzato.
Si sedette sulla poltrona e si slacciò i jeans. Avrebbe tanto voluto che l’uomo lo guardasse mentre si abbassava gli skinny quel poco che bastava per lasciare scoperto il punto dove voleva il tatuaggio. Avrebbe voluto che lo ammirasse, che guardasse la sua magrezza, la sua insicurezza.
-Sei ucraino?- chiese il tatuatore, girandosi finalmente verso di lui con l’ago in mano e il disinfettante – Fammi indovinare, Crimea?
Denis arrossì e annuì
-Sì. Anche tu sei …
-Donbass.
Per un attimo, a Denis parve che il fantasma di una lacrima brillasse in quegli occhi chiarissimi. Chissà, forse aveva fatto la guerra.
Gli chiese qualcosa sul tatuaggio e lui parlava, ma quasi non si sentiva, mentre gli disinfettava la pelle e lo toccava con quelle mani callose ma delicate. Poi sentì l’ago cominciare a incidergli la pelle, e guardò l’uomo, bellissimo e dannato e si chiese chi fosse. Veniva dal Donbass, avrà avuto suppergiù vent’otto anni e quindi la guerra la conosceva. Aveva degli occhi che grondavano disperazione, e Denis, dall’alto della sua follia, era straordinariamente attratto da dolore. Perché lo conosceva, e lui, il dolore, lo governava.
-Dimmi, è tanto che vivi qui a Krasnojarsk?
-Cinque anni.- Denis si morse il labbro a sangue quando le mani di lui, calde e sensuali, gli toccarono la pelle dell’inguine. Sentiva l’eccitazione strisciare sottopelle e pregò che non si notasse.
-Io tre. Mi sono riciclato come tatuatore quando mi hanno congedato.
Lo sapevo soldato. Te lo leggevo negli occhi.
-Hai fatto il Donbass?
-Sì, ma non è stata l’unica. Ero nei corpi speciali.
-Mi dispiace.
L’uomo sorrise e continuò il suo lavoro delicato sulla pelle chiara del ragazzo.
Denis avrebbe voluto averlo, come aveva voluto la sua compagna di università. Voleva guardarlo negli occhi e accarezzargli quel viso angoloso simile al suo. Voleva sentire sua quell’Ucraina lontana milioni di chilometri che mancava disperatamente.
Rimasero in silenzio qualche momento prima che la tenda si aprisse e arrivasse una ragazza.
-Ciao, tesoro.
Eleanora.
Denis strabuzzò gli occhi quando vide Eleanora entrare, sensuale e verace, i lunghi capelli raccolti in uno chignon scomposto, i tacchi che battevano sul pavimento.
-Hey, dolcezza.- il tatuatore non la guardò nemmeno.
Denis, invece, la fissò trasecolato, le narici invase dal forte profumo di rosa di lei.
-Ciao anche a te, Den.- sorrise, con quel sorriso più dolce del miele, e si sedette su una sedia, accavallando le gambe.
-Ciao, Elya.
-Vi conoscete?
-Andiamo all’università insieme.- offrì lei, togliendosi la giacca di pelle.
Ci fu un attimo di silenzio, prima che lei si alzasse e si avvicinasse a loro. E Denis si sentì morire, perché aveva le mani di lui addosso, e il profumo di lei nel naso.
-Demian, stasera mi porti a ballare?- disse.
Demian. Il tatuatore si chiamava Demian.
-No, dolcezza, stasera no. Ho da fare.- Demian la guardò e le sorrise e Denis si sentì così straordinariamente a disagio. Perché avevano un modo di guardarsi così privato, così intimo, così profondo che il ragazzo non si sentì altro che un intruso tra di loro. Tra il soldato e la ballerina.
Poi Demian si voltò verso di lui e sorrise
-Potresti accompagnarcela tu, non credi, bellezza?
Eleanora sorrise e Denis si sentì quasi male.
-Mi porteresti, Denis?
Il ragazzo annuì freneticamente e sentì un fastidioso calore in mezzo alle gambe. Demian che lo toccava, ed Eleanora che lo guardava. Un triangolo sbagliato, un triangolo ucraino, un triangolo che Denis non capiva ma che lo eccitava così tanto.
Eleanora sorrise ancora, accarezzò i capelli di Demian e fece ciao con la mano, scivolando silenziosamente fuori dalla stanza, lasciandosi dietro il profumo obnubilante di rosa e vaniglia.
Demian lo guardò e sorrise, facendo scivolare appena la mano sul cavallo dei suoi jeans. Denis trattenne un urletto e lo fissò con gli occhi spalancati.
-Ho finito, tesoro. Adesso ti metto la garza e poi ti do il disinfettante.- Demian abbassò appena le lunghe ciglia ricurve e gli mise la garza – Portala a ballare, stasera. È uno spettacolo.
Denis, semplicemente, annuì.
Anche se, per un attimo, l’unica cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stato donarsi anima e corpo al soldato del Donbass.
  
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