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Autore: ___Aliena___    10/12/2019    0 recensioni
"Molti secoli or sono, vennero creati dei gioielli magici che racchiudevano incredibili poteri: i Miraculous. Nel corso della storia, gli eroi si sono serviti di questi gioielli in nome del Bene dell'Umanità. Fra tutti, due sono i Miraculous più potenti: gli Orecchini della Coccinella, che trasmettono il potere della Creazione, e l'Anello del Gatto Nero, che trasmette il potere della Distruzione. La leggenda vuole che colui che avrà il controllo di entrambi otterrà il potere assoluto".
***
Il Maestro Fu si guardò allo specchio, accarezzandosi mestamente i radi peli del pizzetto grigio. Wayzz lo scrutava dall'alto, gli occhietti verdi ridotti a due fessure. «A cosa pensa, Maestro?».
L'uomo si lasciò sfuggire una risatina amara. «Sono vecchio, Wayzz, presto o tardi nemmeno il bastone mi sorreggerà più. Spero che la Prescelta arrivi presto, prima che sia troppo tardi».
«Ma Maestro, è passato tanto tempo dall'ultima volta che si è palesata. Non sarebbe il caso di cercarne un'altra?».
Il Maestro abbassò le palpebre, nella mente l'eco lontana di una risata cristallina accompagnata dallo scintillio di languidi occhi azzurri. «No, Wayzz. Io la aspetterò, anche se dovessero passare cento anni».
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrien Agreste/Chat Noir, Gabriel Agreste, Marinette Dupain-Cheng/Ladybug, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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~Prologo~
 


 
   Il parcheggio del teatro era gremito di gente, una brulicante folla di signori ben vestiti che, spettegolando tra di loro, producevano un frizzante cicaleggio.
  Giugno era alle porte e, nonostante fosse ormai sera inoltrata, rosee lacrime di tramonto fluivano ancora sul volto cinereo del cielo, dipingendo all’orizzonte linguette infuocate.
  Un uomo era in piedi nel parcheggio, inondato dalla gialla cascata di luce di uno dei lampioni, la testa alta, semi celata da un cappello, le mani nervose pigramente infilate nelle tasche dei jeans sgualciti; aveva gli occhi stanchi, incorniciati da borse gonfie, nerastre e le palpebre cadenti che andavano a celare iridi feline screziate d’azzurro. Se ne stava in silenzio, indicando di tanto in tanto posti liberi alle auto sopraggiungenti con cenni del capo o sorrisi abbozzati che lasciavano intravedere i denti piccoli e pallidi. Le persone gli si avvicinavano cordialmente e non c’era anima viva che osasse inoltrarsi nel teatro prima di avergli concesso una stretta di mano e una parola. L’uomo dal canto suo restava impassibile, per nulla lusingato da quelle attenzioni che aveva imparato essere legate soltanto al ruolo rivestito nella società cittadina. Gestiva quel teatro da ormai dieci anni e molti di più aveva spesi come attore e regista di una compagnia itinerante che nella struttura alle sue spalle aveva trovato non solo la semplice sede per prove e spettacoli, ma una vera e propria casa. Una vita intera spesa nel continuo e appassionato tentativo di trasmettere in un mondo troppo freddo l’amore che soltanto l’arte sapeva dare; purtroppo non tutti comprendevano il suo operato e delusione e frustrazione erano sempre in agguato per sopraffarlo, ma quella sera non sarebbe accaduto, non l’avrebbe permesso.
  La luce sulla sua testa parve tremare fievolmente, forse a causa del sommesso sfrigolio d’insetti che l’attorniava. Latrati lamentosi di un cane gli giunsero alle orecchie, conditi dal coro di rintocchi della cattedrale, riscuotendolo di soprassalto e portandolo a controllare l’orologio da polso.
  In ritardo di dieci minuti.
   Era una regola d’oro: gli spettacoli non sarebbero mai iniziati all’ora prestabilita, e questo gli spettatori lo sapevano molto bene. Una macchina sfrecciò a tutta velocità lungo la strada, entrando nel parcheggio e sgommando pericolosamente. «Mi scusi!». La cadenza dialettale dell’uomo alla guida sgorgò prepotente dal finestrino abbassato. «Scarico qui il passeggero e me ne vado!».
  Il regista sollevò un sopracciglio con disappunto, senza scomodarsi a dare indicazioni all’autista.
  Ah, tassisti... .
  Si aprì la portiera. A sbucare per primo fu il capo di un ritorto bastone di legno, cui si aggrappò una figura a prima vista piccola e tremante, ma in realtà ben solida sulle gambe. «Quanto le devo, signore?».
  Il tassista arricciò le labbra in un ghigno strafottente. «Venti».
  «Ne è sicuro?».
  «Lei che ne dice?».
  Ogni replica sarebbe stata inutile. L’autista incassò il denaro assaporandone avidamente l’odore, quindi mise in moto e scomparve come era arrivato.
  Il regista si soffermò nuovamente sull’orologio. Ormai nel parcheggio non c’era più nessuno.
  Un quarto d’ora di ritardo.
  «Signore, si sbrighi ad entrare. La biglietteria sta per chiudere».
  La figura chinò profondamente il capo stempiato, uscendo finalmente dalla penombra e rivelando il volto pallido e i lineamenti asiatici di un anziano signore. Indossava un’eccentrica camicia rossa su cui spiccava la stampa stilizzata a fiori gialli, decisamente poco adatta per un’elegante serata a teatro. «Mi dica, in quale mondo sto per addentrarmi?» sussurrò quella frase con voce carezzevole e gentile.
  Il regista lo scrutò intensamente. Era certamente la persona più genuina che avesse incontrato durante la serata. «”Salomè”, signore, da Oscar Wilde. Una rilettura dell’opera piuttosto gotica e visionaria. Uno dei gioielli della nostra compagnia».
  «Ah, che magia il teatro!» e senza aggiungere altro si avvicinò all’ingresso, stringendo tra le dita nodose il bastone. Si fermò alcuni istanti di fronte al cartellone pubblicitario dello spettacolo, lo sguardo agganciato da quello penetrante di un attore piuttosto anziano ma ancora possente, avvolto nel suo mantello rosso e con i piedi nudi in quella che doveva essere una pozza di sangue. Ciò che attirò maggiormente la sua attenzione furono però i tre visi di donna che parevano saettare come serpi fameliche dal suo collo. Un sorriso furbo gli si disegnò sul volto prima di varcare definitivamente il portone.
  La biglietteria era ancora affollata, sebbene la maggior parte degli spettatori si fosse già accomodata in sala. L’anziano attese pazientemente di acquistare il biglietto dalla donna dai ricci capelli corvini dietro il bancone, ricevendo poi indicazioni utili per raggiungere il posto assegnatogli.
  «Ha bisogno d’aiuto?». Una voce dolce risuonò nelle sue orecchie, seguita dal tocco delicato di una manina sulla spalla. L’uomo si voltò incuriosito, incrociando i grandi occhi sorridenti di una ragazza pallidissima, i capelli liberi sulle spalle e pesantemente truccata di nero. «Dov’è seduto? Mi faccia vedere il biglietto, così l’accompagno».
  Egli obbedì, osservandola incuriosito. «Questa è la nuova moda dei giovani?».
  La ragazza si lasciò sfuggire una risata argentina. «Oh, no! Non sono così audace. È per lo spettacolo».
  «Ah, sapevo di averti già vista. Sei una delle tre donne sul cartellone. Cosa ci fai qui? Non dovresti essere con gli altri attori per prepararti alla messinscena?».
  Un tenue rossore le addolcì le gote imbellettate. «Be’, sì, in effetti dovrei. I registi mi rimproverano sempre, ma io non posso farci nulla. Sa, non vado mai in scena senza aver aiutato gli spettatori con i posti. Lo so che è strano, ma mi aiuta a rilassarmi. Guardare la gente negli occhi, stringere le loro mani, sentirne la voce, l’odore e poi rivederle in lacrime alla fine dello spettacolo significa vivere pienamente ogni sfaccettatura del teatro, o almeno è quello che ho sempre pensato. Mi scusi, non volevo tediarla».
  Si erano incamminati lungo una scala tappezzata di rosso, diretti in platea. La ragazza lo condusse pazientemente al suo posto, preoccupandosi di farlo accomodare senza infastidire gli altri spettatori. L’uomo le rivolse un placido sorriso, accarezzandosi i peli del pizzetto. «Grazie, mia cara».
  «Si figuri. Ora dovrei...».
  «Sei ancora qui?» la donna della biglietteria avanzò nella sua direzione a larghe falcate, la voce severa tradita dall’agitazione. «Quante volte devo ripeterti che non voglio che la gente ti veda truccata prima degli spettacoli?».
  La fanciulla si morse un labbro, sporcandosi lievemente i denti con il rossetto rosso. «Scusami. Stavo accompagnando questo signore...».
  «Siamo in ritardo! Ora va’ immediatamente a vestirti, poi passa nel camerino di Erodiade e aiutala a sistemarsi l’acconciatura. E non scendere più dal palco».
  Scomparvero entrambe, l’una borbottando nervosamente, l’altra volando tra gli spalti con passettini leggeri.
  Rimasto solo, l’anziano signore socchiuse gli occhi, le labbra vagamente piegate all’insù. «Credo di averla trovata» mormorò con un filo di voce. «Tu che ne pensi?».
  Dalla tasca della sua camicia fece capolino la testolina tonda e verde di una minuscola creatura. «Maestro, ne siete davvero sicuro?».
  Il sipario si mosse impercettibilmente, formando uno spiraglio da cui un paio di occhioni curiosi si affacciarono per spiare la platea un'ultima volta. Poi le luci di sala si spensero.
  «Sì, ne sono sicuro».
 


 ATTENZIONE!
Quella che vi ritrovate di fronte è una storia iniziata, pubblicata e mai terminata dalla sottoscritta alcuni anni fa, quando avevo appeno scoperto la prima stagione di Miraculous. La visione delle nuove stagioni mi ha però portata a modificare un po' l'idea iniziale, nel tentativo di adattare il più possibilie questa fanfiction alla serie originale. Ci tengo dunque a fare alcune precisazioni:
-la storia dei Guardiani è frutto della fantasia dell'autrice, così come lo sono i rapporti e i legami di parentela tra personaggi vecchi e nuovi;
-la narrazione è ambientata a Parigi, ma a differenza della serie originale i protagonisti sono un po' più grandi, diciamo attorno diciassette anni;
- benché cercherò di evitarlo, potrebbe sfuggirmi qualche spoiler involontario. Chiedo anticipatamente perdono;
-questa volta vorrei concludere la storia, anche se, come sempre, ogni aggiornamento sarà legato unicamente a tre fattori non sempre costanti: voglia, tempo, ispirazione.
Grazie per essere passato a trovarmi. Buona giornata!


 
   
 
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