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Autore: ___Aliena___    11/12/2019    0 recensioni
"Molti secoli or sono, vennero creati dei gioielli magici che racchiudevano incredibili poteri: i Miraculous. Nel corso della storia, gli eroi si sono serviti di questi gioielli in nome del Bene dell'Umanità. Fra tutti, due sono i Miraculous più potenti: gli Orecchini della Coccinella, che trasmettono il potere della Creazione, e l'Anello del Gatto Nero, che trasmette il potere della Distruzione. La leggenda vuole che colui che avrà il controllo di entrambi otterrà il potere assoluto".
***
Il Maestro Fu si guardò allo specchio, accarezzandosi mestamente i radi peli del pizzetto grigio. Wayzz lo scrutava dall'alto, gli occhietti verdi ridotti a due fessure. «A cosa pensa, Maestro?».
L'uomo si lasciò sfuggire una risatina amara. «Sono vecchio, Wayzz, presto o tardi nemmeno il bastone mi sorreggerà più. Spero che la Prescelta arrivi presto, prima che sia troppo tardi».
«Ma Maestro, è passato tanto tempo dall'ultima volta che si è palesata. Non sarebbe il caso di cercarne un'altra?».
Il Maestro abbassò le palpebre, nella mente l'eco lontana di una risata cristallina accompagnata dallo scintillio di languidi occhi azzurri. «No, Wayzz. Io la aspetterò, anche se dovessero passare cento anni».
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrien Agreste/Chat Noir, Gabriel Agreste, Marinette Dupain-Cheng/Ladybug, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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  «Stai commettendo un grave errore».
  «Non sei tu a dover giudicare».
   «Puoi ancora restare».
  «Restare? Non pensarci».
  «Cosa credi di trovare lì fuori per te? Niente! È questo che ti attende e tu lo sai, l’hai sempre saputo ma non vuoi ammetterlo perché in realtà hai paura! Qui invece potrai vivere di certezze. Smettila di negare tutto questo a te stesso».
  «Le certezze di cui tu parli mi stanno uccidendo. Io e te apparteniamo a due mondi diversi, caro fratellino».
  «Come diavolo credi di sfamare la tua famiglia?».
  «So io cosa è meglio per la mia famiglia. Non provare mai più a metterla in mezzo».
  «È davvero ciò che desideri?».
  «Non ho altro da aggiungere».
  «Ti do un’ultima possibilità: se uscirai da quella porta, sappi che non rientrerai mai più».

 
***


«Pronto?».
Lo sferragliare delle rotaie riempiva l’aria circostante, accompagnando di minuto in minuto il viaggio dei numerosi passeggeri all’interno del treno. Monsieur Durand gettò una rapida occhiata alla sua immagine riflessa nello specchio del bagno, sistemandosi pigramente la cravatta della divisa da controllore e passandosi un’unghia tra i denti per rimuovere alcune briciole della colazione consumata in fretta quella mattina. Scaricò l’acqua ed uscì per iniziare il suo giro, pur non avendo affatto usufruito del gabinetto.
«Sì, sì, sono partita poco fa, credo che arriverò per ora di pranzo. La Gare du Nord, mi raccomando, non lasciarmi a piedi».
 I corpi ammassati dei viaggiatori emanavano il consueto odore rancido e dolciastro di pelle sudaticcia, e a Monsieur Durand occorse tutto il suo autocontrollo per trattenere le smorfie di disgusto e apparire professionale.
«No, ma quale aereo! C’è una certa poesia nei treni, non credi?».
Un bambino, in seconda classe, si accovacciò contro il ventre della madre e guaì come un cagnolino bastonato a causa della nausea. La donna tirò fuori dalla borsa dei fazzoletti un attimo prima di essere investita da un fiotto di vomito giallognolo.
«Due valigie grandi e un borsone, il resto dovrebbe essere già arrivato con il corriere. Tu piuttosto, invece di perdere tempo con me, non dovresti prepararti per andare a scuola?»
«Ehi!» Monsieur Durand si catapultò in prima classe con foga, raggiungendo a lunghe falcate l’ultimo fila di sedili sul lato destro della cabina. Un rivolo di fumo grigio serpeggiava sinuosamente verso l’alto. «Non hai letto i cartelli? È vietato fumare qui dentro».
La persona a cui si rivolse parve non udirlo affatto, anzi, con l’orecchio appiccicato al telefono esplose in una fragorosa risata, attirando l’attenzione di alcuni passeggeri.
«Sei proprio un idiota, lo sai? E se ti beccano?».
«Ascoltami bene, signorina, se non spegni quella sigaretta immediatamente sarò costretto a farti una multa».
«Ti lascio andare adesso. Gare du Nord, ora di pranzo. Non te lo dimenticare».
Fu soltanto dopo aver riposto il telefono nella tasca e aver aspirato un’ultima, intensa boccata di fumo che la ragazza sollevò lo sguardo di fronte a sé, sorridendo serenamente al controllore e riponendo la cicca nel piccola scatolina in ceramica poggiata sulle sue cosce. «Et voilà» cinguettò mostrando i palmi delle mani. «Come se non fosse mai esistita».
Monsieur Durand roteò gli occhi contrariato. «Il biglietto, per favore».
 
 
 
 
  «Adrien?».
   Una nuvola lattescente di gesso si sollevò dalla lavagna mentre la professoressa agitava energicamente la mano con cui stringeva il cancellino; dal fondo dell’aula si avvertì uno starnuto soffocato, seguito dal vociare sommesso degli alunni e dal fruscio di fazzolettini di carta. La ragazza bionda seduta in prima fila si stropicciò il naso e, accostate le labbra all’orecchio della compagna, le riversò addosso un velenoso bisbiglio riguardante i suoi vestiti ormai impolverati.
  «Se sapessi quanto vale questa camicetta, Sabrina! È parte della nuova collezione di Gabriel Agreste» Chloè piegò le labbra in un ghigno sornione, crogiolandosi beatamente nel luccichio voglioso irradiato dagli occhi dell’amica.
  «Oh, Chloè!» gemette Sabrina. «Quanto sei fortunata!».
  «Se mi aiutassi con i compiti, questa sera, potrei anche decidere di prestartela».
  «Davvero? Sei la mia migliore amica, Chloè!».
  La professoressa si schiarì sonoramente la gola, gettando loro un’eloquente occhiata che le costrinse a tacere.
  «Psst, Adrien?».
  Nino teneva le braccia incrociate, lo sguardo saettante che si spostava prontamente dall’amico all’insegnante.
  Quella calda giornata di Settembre era incominciata come qualsiasi altra: un tiepido sole di inizio autunno spettinava amorevolmente i tetti di Parigi, le strade affollate di studenti pigri e sonnecchianti, la professoressa di storia più spossata del solito e il classico, ricorrente e ormai prevedibile ritardo di Marinette alle lezioni. Le uniche note stonate in quella consueta monotonia erano il viso stralunato e l’espressione vacua di Adrien. Nino aveva passato l’intera mattinata a scrutarlo con occhio clinico, senza però riuscire nemmeno per un istante a fargli sollevare gli occhi dalla pagina del diario che si ostinava a rimirare.
  «Adrien!».
  Una pallina di carta colpì il ragazzo proprio sulla testa, facendolo finalmente sobbalzare esterrefatto. «Nino, ma che accidenti stai facendo?» sussurrò quella frase con un filo di voce, accostando una mano alla bocca per mascherare il movimento delle labbra.
  «Finalmente, amico! Qual è il tuo problema? Non hai spiccicato nemmeno una parola da quando siamo arrivati».
  «Oh...» Adrien esalò un intenso respiro, accostando il diario al compagno di banco, che si affrettò immediatamente a sbirciare: una fotografia scolorita, scattata probabilmente con qualche macchinetta a buon mercato.
  Nino si accomodò gli occhiali sul naso. «Ah, è per lei dunque».
  «Già. Arriva oggi».
  «Amico, e allora? Stai aspettando questo giorno da settimane».
  «Lo so. Sono solo un po’ emozionato» Adrien accarezzò dolcemente la foto: ritraeva un bambino e una bambina seduti su un marciapiede, entrambi biondi, imbacuccati in piumini bianchi e con la lingua tesa verso il fotografo. «L’ultima volta che l’ho vista avevo otto anni».
  «Hai paura di non riconoscerla?».
  «Certo che no, ma...».
  «Adrien! Nino!» la voce della professoressa sferzò l’aula, facendoli ammutolire all’istante. «Se non vi dispiace, vorrei continuare la mia lezione».
  I ragazzi assentirono a testa bassa.
  Quando la campanella trillò, un fiume gorgheggiante di studenti esondò dal portone aperto della scuola, riversandosi caoticamente in strada.
  «Ci vediamo domani, Adrien!» Nino intravide l’amico schizzare via dalla folla e saltare sulla limousine grigia parcheggiata poco lontano. «Tratta bene quella ragazza, mi raccomando!» e sghignazzando soddisfatto si avviò verso casa.
  Marinette aveva udito ogni cosa. Accovacciata dietro i cespugli del cortile, teneva la testa abbandonata sulla spalla di Alya, sospirando sonoramente.
  «Adesso basta, Marinette!» l’amica ripose il telefono nella tasca dei jeans, liberandosi da quella posizione con una scrollata di spalle. «Stai sicuramente correndo troppo con l’immaginazione».
  «Correndo? Io?» gli occhi della corvina parevano due grossi fari lampeggianti. «Hai sentito Nino, vero?».
  «Sì, ma...».
  «Ragazza! Nino ha nominato una ragazza che il mio Adrien andrà a prendere in stazione!».
  «Ma come fai a dire...».
  «Ne stavano parlando durante la lezione di storia! Ecco perché Adrien era così pensieroso, stava fantasticando su questa ragazza! Aveva una sua foto sul diario, ciò significa che le piace» un lampo di terrore saettò nello sguardo frenetico della giovane. «Le piace, Alya, io lo so! Non ho alcuna speranza. Questa volta non si tratta di Chloè o Lila, ma di una ragazza per cui Adrien ha mostrato un vero interesse. Deve essere una modella incontrata durante qualche viaggio all’estero, con dei lunghi capelli dorati e delle labbra rosse, carnose, che il mio Adrien sogna tutte le notti di baciare e assaporare come due grosse ciliegie mature!». Un gemito le strozzò le parole in gola. «Uccidimi, Alya».
  L’amica non seppe trattenere una sonora risata.
  Marinette incrociò le braccia imbronciata. «Che cosa c’è?».
  «Scusami, ma dovresti davvero vederti! Adesso ascoltami bene: va’ a casa, chiedi a tuo padre di prepararti uno dei suoi straordinari croissant e prova a pensare che forse, anzi sicuramente, la tua vivace fantasia potrebbe aver frainteso le parole di Adrien».
  Marinette annuì e, sospirando sconsolata, si avviò verso casa.
  «Alya crede che io abbia esagerato, ma non è vero. Sono sicura di ciò che ho sentito».
  «Calmati, Marinette» la chiusura della borsetta della ragazza scattò, permettendo alla creaturina rossa a pois neri di affacciarsi. «Ti ho ripetuto tantissime volte di non lasciarti sopraffare dalla gelosia».
  «Lo so, Tikki, ma non posso farci niente. Devo scoprire qualcosa di più su questa ragazza» un ghigno malizioso le increspò la bocca. «E so anche come».
  Il piccolo kwami socchiuse gli occhi. «Qualcosa mi dice che non è una buona idea».
 
  Adrien era inquieto. Continuava a tormentarsi le mani nervosamente, percorrendo a larghe falcate il marciapiede accanto al binario tre. Nathalie non c’era e aveva chiesto alla sua guardia di attenderlo in macchina fuori dalla stazione, intenzionato a godersi quell’incontro tanto agognato senza respiri estranei sul collo.
  «Non hai fame?» Plagg sgusciò pigramente dalla tasca della sua camicia, grattandosi le orecchie nere. «Perché non siamo tornati a casa per il pranzo?».
  Il ragazzo roteò gli occhi esasperato. «Me lo stai chiedendo davvero?».
  «Che problema c’è? Non ti hanno insegnato che un corpo senza cibo è come un’auto senza carburante?».
  «Non ho fame».
  «Ma io sì! Mi hai tenuto a digiuno tutta la mattina con la stupida scusa di non sopportare più l’odore di formaggio nella borsa ed io non mi sono lamentato. Ora, se non ti dispiace, voglio il mio carburante».
  «Senti, Plagg, adesso non è proprio il momento. Quando saremo tornati a casa ti darò il tuo Camembert».
  «Quanto sei noioso» il kwami tuffò la testa nel suo nascondiglio, continuando a brontolare sommessamente.
  Adrien si voltò in direzione del grande orologio appeso sopra la sua testa, non preoccupandosi di celare l’apprensione.
   Il treno è in ritardo.
  Avvertiva una insolita sensazione al ventre, come se lo sferragliare tedioso delle rotaie si fosse trasmesso al suo sangue, producendo intense scintille d’elettricità che lo scuotevano nel profondo. Storse il naso, infastidito da se stesso. In fin dei conti, sapeva da mesi che quel giorno sarebbe giunto, presto o tardi, ma non gli sembrava ancora possibile essere lì, solo tra lo sciame indistinto di viaggiatori trepidanti, in attesa. Gli rimbombavano ancora nelle orecchie le poche, indolenti parole scambiate con suo padre la sera prima:
  «Domani vado in stazione».
  «Nathalie ha preso un giorno libero».
  «Potresti venire tu con me...».
  «Sai bene che sono molto occupato con il mio lavoro, Adrien».
  «Basterebbe una sola ora».
  «Ti prego di non insistere, figliolo».

  Un sorriso amaro gli adombrò il volto, ma ogni pensiero venne immediatamente scacciato dalla voce maschile sgorgata dagli altoparlanti, accompagnata dal fischio di un treno in avvicinamento. Il suo stomaco fece una capriola.
  Ci siamo.
  Le carrozze che seguivano la locomotiva gli sfilarono d’innanzi in un coro di sbuffi e cozzi metallici; le porte si aprirono con esasperante lentezza, e subito dopo si ritrovò avviluppato nello stuolo brulicante di passeggeri che lo urtavano e spingevano da ogni parte, provocando un vago senso di claustrofobia. Adrien era sospinto come una piuma in balìa di flutti impetuosi, lo sguardo saettante e i gomiti piegati, utilizzati per crearsi un varco tra la folla.
  «Adrien!».
  Un cinguettio ovattato gli lambì le orecchie, facendolo voltare titubante. Ed infine la vide: era immersa tra folla, una mano che si agitava scompostamente in aria, i capelli biondicci intrecciati in una grossa treccia disordinata che le arrivava a metà schiena e la bocca rossa e carnosa piegata in un largo sorriso.  Il giovane non ebbe nemmeno il tempo di rendersene conto che lei gli saltò al collo con foga, stritolandolo in un abbraccio e riempiendogli la fronte di baci affannosi. «Sei tu, oh mio Dio, Adrien , sei proprio tu!».
  Qualcosa si sciolse nel petto del ragazzo e un caldo languore gli scivolò lungo la gola prima riarsa, da cui fu finalmente libera di erompere una risata gioiosa. Era lì. Dopo mesi di fotografie scambiate, messaggi e telefonate frettolose era davvero lì. Strinse le braccia attorno alla schiena esile della ragazza ed inalò ad occhi chiusi il suo odore, sorprendendosi che, a dispetto degli anni, non fosse cambiato affatto.
  «Profumi di caramelle alla menta» le aveva detto una volta da piccoli.
  La bambina aveva inclinato la testa di lato, sollevando imbronciata un sopracciglio. «È una cosa brutta?».
  «No, sai di buono».

  Adrien si mosse goffamente per riacquistare l’equilibrio. «Juliette, non riesco a respirare!».
«Shhh, zitto e stringimi, idiota! Sei l’ometto di casa, no?».
  «Juliette!».
  «Sto scherzando» si scostò boccheggiando, tenendo ancora entrambe le mani salde dietro il suo collo. «Guardati, il modello più famoso di tutta Parigi! Con cosa ti hanno innaffiato negli ultimi anni per farti diventare così alto?».
  Adrien si lasciò sfuggire un ghigno sornione. «Tu invece sei invecchiata un po’, vero? È una ruga quella che vedo vicino alla bocca?».
  Lei gli scompigliò i capelli con uno scappellotto affettuoso. «Sei un uomo morto».
  Marinette li osservava truce, ben nascosta dietro le grosse valigie di un uomo infagottato. «Perché si stanno stringendo così tanto? E ridono anche! Te l’avevo detto, Tikki, questa volta non ho speranze».
  La piccola kwami gemette piano. «Ti prego, Marinette, andiamo a casa. Non è bello spiare le persone».
  «Riesci a sentire cosa stanno dicendo?».
  «No, e non dovresti nemmeno tu. Andiamocene».
  «Io non mi muoverò di qui finché...» non riuscì a terminare la frase, in quanto l’uomo infagottato prese le sue valigie e le trascinò via, facendo perdere l’equilibrio alla ragazza e lasciandola priva del suo prezioso riparo.
  Fredde perle di sudore rotolarono lungo la schiena di Marinette.
  Oh no! Devo andarmene da qui, prima che…                                                                                                         «Ehi, va tutto bene?» Juliette l’aveva scorta da lontano con la coda dell’occhio ed ora le stava correndo incontro con una certa apprensione. «Ti sei fatta male?»
  Ben fatto, Marinette! Mi congratulo per la tua goffaggine.
  «Sì… cioè no… cioè, non mi sono fatta niente, ero soltanto...».
  Una scusa, una scusa, una scusa...
  «Marinette?» il viso di Adrien fece capolino all’improvviso.
  Adesso sono perduta.
  Si rialzò con un balzo, prorompendo in una risatina isterica. «Adrien! Ciao! È bello vederti qui... non che mi aspettassi di incontrarti... anche se è sempre bello incontrare una bella persona... dentro! Perché tu sei bello dentro... non volevo dirlo».
  Fantastico! Ora il ragazzo dei tuoi sogni e la sua amichetta rideranno di te a vita. Davvero un bel lavoro, Marinette.
  Ma Adrien non parve farci caso, anzi, le sorrise amichevolmente e le prese una mano. «Marinette, sei la prima persona a cui ho l’onore di presentare Juliette Agreste, mia cugina».
  Il cuore della ragazza perse un battito.
  C- cugina?
  «Verrà a vivere da me e frequenterà la nostra scuola. Non è meraviglioso?».
  «Smettila, Adrien, mi metti in imbarazzo» le sorrise. «Ad ogni modo sono contenta di conoscerti»
  È sua cugina... non posso crederci, è soltanto sua cugina! Devo smetterla di cacciarmi in queste situazioni.
  Fu Adrien a trarla via dall’imbarazzo, scambiando con lei ancora qualche breve frase di cortesia e congedandola infine con il suo solito, rassicurante sorriso. La ragazza si accasciò su una panchina, scrutando i due cugini mentre, con non poca difficoltà, si accingevano a trascinare i pesanti bagagli di Juliette lungo le scale.
  «Marinette, questa volta hai fatto davvero una pessima figura» Tikki tentò con scarso successo di condire quel rimprovero con una voce dura. «Alya ha ragione: devi imparare a controllare la tua immaginazione».
  La giovane parve non darle ascolto, lo sguardo stralunato perso nei meandri dei suoi pensieri.
  Adrien... Juliette... cugina... Adrien... Juliette...
 Il piccolo kwami le volò sulla spalla, stando ben attenta a non dare nell’occhio. «Marinette? Ti senti bene?».
  «Oh, scusami!» si riscosse scuotendo la testa. «Adesso possiamo tornare a casa».


 

 «È straordinario!».
  Adrien sghignazzava divertito, le braccia incrociate e lo sguardo rivolto alla cugina che, come una bambina, si affrettava su e giù dalla grande scalinata nell’atrio di casa sua. Il portone era stato lasciato aperto, permettendo così alla guardia del corpo di scaricare le valigie della ragazza, ammucchiate nel retro della limousine.
  Juliette si affacciò dalla balaustra. «Tutto è esattamente come lo ricordavo, le pareti, i quadri, le stanze, ogni cosa! Non riesco a credere di essere finalmente a casa».
 «Addio silenzio!» le orecchie di Plagg sbucarono dalla tasca del ragazzo, stando ben attento a non farsi vedere. «Ti invito caldamente a dire a tua cugina di calmarsi, prima che scateni la mia furia distruttiva contro di lei».
  Adrien socchiuse gli occhi. «Io la trovo adorabile».
  «Adorabile? Mi stai prendendo in giro?».
  «Perché? È soltanto curiosa».
  «A proposito di curiosità, io sono estremamente curioso di sapere perché non ho ancora ricevuto il mio Camembert».
  Il ragazzo lo fulminò all’istante, ignorando i brontolii del kwami e affrettandosi a salire al piano superiore.
  «Questa è la tua stanza» le disse aprendo una porta e lasciandola entrare. «Non è grandissima, ma c’è una sorpresa».
  Juliette si guardò attorno con gli occhi sbarrati, inalando a pieni polmoni il profumo di bucato fresco e saggiando la consistenza del materasso. Si immobilizzò all’improvviso, catturata dall’immensa biblioteca di legno bianco addossata alla parete di fondo. Sgranò gli occhi basita. «È... per me?».
  «L’idea mi è venuta quando abbiamo iniziato a ricevere gli scatoloni contenenti tutti i tuoi libri» il giovane si portò una mano dietro la testa. «Ho provato a sistemarli con l’aiuto di Nathalie, l’assistente di mio padre, ma non credo di aver fatto un buon lavoro. Sono davvero... tanti!».
  Juliette schioccò un bacetto sulla sua mano e lo soffiò nella direzione del cugino. «Grazie».
  Uscirono in corridoio. «A sinistra ci sono la stanza e lo studio di mio padre. Di solito è molto impegnato e non ama essere disturbato da nessuno».
  «Nemmeno dal suo tenero figliolo e dalla sua dolce nipotina?».
  «Soprattutto dal suo tenero figliolo e dalla sua dolce nipotina» gettò un’occhiata guardinga alle sue spalle ed abbassò notevolmente il volume della voce. «Va’ da lui il meno possibile, Juliette. Lo so che non dovrei dirtelo, ma fidati, è meglio così. Se avrà bisogno di te ti manderà a chiamare».
  La ragazza assentì con una scrollata di spalle.
 «E questa invece è la mia camera» Adrien prese a trafficare con la serratura di una porta. «Qui puoi entrare quando vuoi, che io sia in casa o meno, ma non devi frugare nei cassetti senza il mio permesso».
  Juliette spalancò teatralmente la bocca. «Angelo biondo di giorno e dominatore sessuale di notte? Non me lo aspettavo proprio da te, cuginetto».
  «Fanculo, Juliette».
   Risero in coro.
   Le ore passarono troppo velocemente, e il buio della sera arrivò fin troppo presto a spazzare via l’allegra atmosfera famigliare che aveva iniziato ad aleggiare tra le mura della villa. Gabriel Agreste non si unì ai ragazzi per la cena, ma li attese pazientemente sulle scale, rigido come una statua di marmo, severo come un avvoltoio. Juliette non ne fu intimidita: immobile e a testa alta, si lasciò scrutare fin nel profondo dell’anima, esibendo con fierezza un cipiglio corrucciato, la fronte sporgente, il naso lievemente aquilino. Un’immagine sbiadita andò a sovrapporsi a quella della nipote, trasportando la memoria dello stilista indietro nel tempo,verso luoghi e sensazioni che credeva ormai dimenticati.
  Tristan...
  Alla fine si tolse gli occhiali ed incrociò le braccia dietro la schiena. «Spero che il viaggio sia andato bene».
  «Assolutamente».
  «Presto Nathalie si occuperà di organizzare al meglio le tue giornate, facendo in modo che tu abbia del tempo per aiutarci con i nostri servizi fotografici».
  La ragazza sollevò un sopracciglio. «Servizi? Non dirmi che è per questo che mi hai accolta in casa. Siete a corto di modelle?».
  Adrien, al suo fianco, le afferrò supplichevole una mano. «Basta Juliette».
  Sul volto dell’uomo si disegnò una smorfia. «Farò finta di non aver sentito. Mi auguro inoltre che tu abbia intenzione di togliere quella roba che hai sul naso. Cos’è? Un piercing?».
  Le dita di Juliette corsero istintivamente alla narice sinistra, percependo contro i polpastrelli la fredda consistenza di un gioiello. «No».
  «No cosa?»
  «Non lo toglierò».
  Il signor Agreste digrignò i denti. «Hai la stessa lingua di tuo padre».
  Rimasti soli, Adrien sbuffò amaramente. «Ti avevo detto di lasciarlo perdere, Juliette».
  «Non importa» la ragazza socchiuse le palpebre, il cuore che le martellava nel petto. «Il suo sangue è il mio sangue, che lui lo voglia o meno».

 
  Quella notte le nuvole divennero ballerine, divertendosi ad intrecciare una sinuosa danza con la luna e le stelle. Juliette era ferma di fronte  alla finestra, tra le dita ciò che rimaneva di una sottile sigaretta bianca.
  Forse pioverà...
  Da lontano, i dodici rintocchi della mezzanotte si persero nel buio.
  La ragazza sbadigliò sommessamente, avvicinandosi pian piano alla libreria. «Credo sia ora di andare a dormire».
  Una voce distratta le rivolse un bisbiglio. «Cosa?».
  «Ho detto che bisogna andare a letto. È molto tardi e domani è il mio primo giorno di scuola».
  «Il tuo primo giorno di scuola, non il mio».
  «Ma dovrai accompagnarmi comunque. Chiudi quel libro e vieni sotto le coperte con me, lo sai che non riesco ad addormentarmi da sola».
  Un lungo sospiro accompagnò il fruscio delle pagine che venivano pigramente sfogliate. Seguì un tonfo sordo, infine il letto venne finalmente scoperchiato. «Sbrigati, bambina, prima che cambi idea e mi rimetta a leggere».
  «Eccomi» la ragazza gettò via la cicca e si sistemò sotto le lenzuola fresche, posando la testa sul soffice cuscino di piume. Poco prima di spegnere la luce, una creaturina bianca, simile ad una piccola civetta dagli occhi blu e dal becco giallo le svolazzò accanto alla fronte, cercando una posizione comoda per addormentarsi.
  «Detesto questo guanciale, non favorisce il mio riposo».
  Juliette ridacchiò. «Sai che hanno spennato tuoi simili per imbottirlo?».
  «Voi umani siete un branco di barbari».
  Una lieve risata le sgorgò dalle labbra socchiuse. «Buonanotte, Metis».






AVVERTENZE! 
Ecco il primo capitolo, debitamente modificato, di questa fanfiction. Si tratta essenzialmente di un momento per introdurre personaggi vecchi e nuovi e per intessere le prime ombre dei legami che li tengono ancorati l'uno all'altro. Tra le mie invenzioni figurano sicuramente Juliette, accompagnata da tutti i retroscena relativi al suo ritorno a Parigi (di cui parleremo più avanti) e Metis. Ho intenzione di concentrare la storia principalmente sulla famiglia Agreste, sugli scheletri negli armadi che ogni membro custodisce gelosamente, sui segreti che sembrano celarsi tra le lucenti pareti dorate della villa.
Spero di avervi incuriosito almeno un po' e, soprattutto, spero di riuscire ad aggiornare al più presto, in modo da poter delineare ancora meglio il filo conduttore della storia. Per qualsiasi dubbio o curiosità non esitate a farmi sapere.
Alla prossima!

 
   
 
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