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Autore: clarityclarity    11/12/2019    0 recensioni
[Il cardellino]
Boris e Theo si ritrovano, come accade alla fine del romanzo, nella casa di Boris ad Anversa. Tra una bottiglia di birra e un bicchiere di vodka, i due si scoprono e si riscoprono, abbassando le difese rese già deboli dall'ebrezza dell'alcool e ricreando la sintonia intima e familiare che ha il sapore dell'infanzia condivisa a Las Vegas molti anni prima.
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le luci di Anversa scintillavano come i vetri Tiffany nel negozio di Hobie, lucciole invernali che sfarfallavano briose nella notte immobile. Le case di mattoni rossi sembravano addormentate, ma la finestra illuminata di un calore aranciato al quinto piano di Rasmeer Street sussurrava ai pochi passanti di fiabe quotidiane, avventurose esperienze di vita cicatrizzate sulla pelle chiara di Boris.
“Perché, Potter, cioè. Cazzo, voglio dire che è stato proprio difficile sottrarmi alle grinfie di quell’orso polacco, tutto muscoli e niente cervello, certo. Ma quando ti trovi davanti un bestione di tre metri – no, no, Potter, ascoltami, tre metri ti dico! – beh, puoi avere cervello finché vuoi, ma se quello ti tira un ceffone ti spedisce all’altro mondo”. Si allungò oltre il mio braccio per prendere una sigaretta dal pacchetto Marlboro mezzo vuoto – prendine una Potter, il pacchetto è mezzo pieno! – per poi risistemarsi sul divano di pelle bianca, le gambe distese e i piedi accavallati, una posa strafottente e byroniana. Ci accendemmo comicamente le sigarette a vicenda e, dopo un silenzio di un minuto buono, mi venne voglia di parlare. “Ti sei accorto che arrivi sempre prima che io cada nel baratro?”. Era una domanda, ma aveva il tono di un’affermazione. Boris ridacchiò lanciandomi un’occhiata veloce prima di tornare a guardare lo schermo (Twisted Nerves e l’infermiera con la benda sull’occhio che ancheggiava letale sui tacchi a spillo). “Parli del baratro di noia nel quale qualunque figlio di puttana annegherebbe senza un Boris nella sua vita? E dai, che sono la persona più divertente che tu abbia mai incontrato!”. Sorrisi: era vero. Ricordavo fin troppo bene le giornate a Las Vegas, quando il silenzio immacolato e innaturale del deserto rimbombava delle nostre risate (La risata è la luce, la luce è la risata!). “Coglione”, risposi amichevolmente. “Intendo dire che quando sto per morire, quando tutto sembra . . . immobile e al contempo così . . . cazzo, così incredibilmente veloce, la mia vita come un vuoto pericoloso che mi inghiotte piano piano come se venissi masticato e ingoiato lentamente da una cazzo di anaconda. Quando sento che sta per succedere tu arrivi come un bolide, come se fossi sempre stato lì e, sì insomma, mi svegli, mi tiri fuori dalla gola del serpente. E anche se poi mi ficchi in qualche casino che, beh, non stiamo nemmeno a parlarne, mi sento come se mi avessi  rimesso in circolo, come se quel vuoto si riempisse di esperienze, di vortici di pensieri e cose da fare che mi danno adrenalina” – il Cardellino che mi scivola dalle mani, la camicia sporca di sangue, il secondo-me-era-un-Corot, gli arazzi e la pessima conservazione dei dipinti nella catapecchia di Horst, i soldi, il sollievo, la gratitudine, un senso di pace e il braccio di Boris che mi controlla, che mi sostiene, che cinge le mie spalle anche con un proiettile ficcato nella carne (è solo una bruciatura tu vai in albergo e restaci).
“Sembra quasi che tu te ne stia in agguato dietro a un angolo e appena le cose si fanno strane, stranamente morfiniche, tu arrivi e mi prendi e mi porti a fare delle cose, lì fuori nel mondo”. Non lo stavo guardando ma percepivo il suo sguardo attento trafiggermi la testa. Non capivo perché ma da quando l’avevo rivisto avevo fatto fatica a parlargli, ad aprirmi a lui con le parole come facevamo un tempo. Ero stato algido, gelido nei suoi confronti, mentre lui era lo stesso Boris di sempre, un uomo esperto delle cose del mondo, un cavaliere del caos, ma con un’ingenuità e una dolcezza spaventosamente autentiche quando si trattava delle emozioni, del bene nei miei confronti, come quando mi aveva guardato con gli occhi spauriti e vuoti nella piscina (Basta) o come quando metteva le mani davanti alla faccia in segno di supplica per chiedermi di perdonarlo, per capire se ero arrabbiato con lui perché non lo avrebbe sopportato. E io ero stato gelido nel mio esprimermi a lui, nel mio mettermi nelle sue mani, come a preservare l’apparenza dell’età adulta, di una sobrietà emotiva che però non mi apparteneva, come a coprire la spontaneità del ragazzino che ero stato, le mani veloci su Boris e la sua risata che sapeva di vodka, stringere il petto smunto del mio amico come fosse un salvagente nel bel mezzo del nulla, come se fosse l’unica cosa solida in un vuoto liquido che scioglieva le mie emozioni come acido nitrico. Ma adesso, ad Anversa, con Kill Bill alla televisione e Boris che qualche volta bestemmiava in russo per i motivi più stupidi, io mi sentivo a casa, in una congiunzione perfetta fra passato e presente.
Guardai il mio amico, che aveva cambiato posizione girandosi verso di me a fronteggiare il mio sguardo. Aveva un’espressione in viso che gli avevo già visto quando si preparava a spiegarmi un passaggio di Dostoevskij che gli era particolarmente piaciuto e che non vedeva l’ora di condividere con me, un misto di tenerezza e attenzione riflessiva. Quando parlò lo fece come un padre che insegna qualcosa a un figlio. “Tu lo sai che io ti ho sempre voluto bene, vero? Io credo che sia anche perché, insomma, hai questa cosa, tu, questo potere di stabilizzare la mia vita, di calmare tutto quanto, tutto quello che sono e tutto quello che faccio. Io credo, Theo, che, nonostante l’effetto che abbiamo l’uno sull’altro sia opposto, il risultato è sempre lo stesso perché, vedi, ma sì non sono mai stato bravo con le metafore ma questa ce l’ho in testa da più o meno tutta la vita, credo che tu per me sia la barca e io, forse, per te posso essere il mare: tu sei qualcosa che mi tiene ancorato alla sanità mentale e io qualcosa che ti fa nuotare e andare e fare e scoprire, magari anche sbloccarti, non lo so, dimmelo tu”.
Silenzio. L’odore di erba danzava nel salotto alle tre di notte; le bottiglie di rum sul pavimento che tintinnavano ogni volta che Boris si alzava a prendere altro alcool. Decisi che era il momento di smorzare la malinconia che io stesso avevo creato.
“Uh, ma sentilo il sentimentalone, vuoi anche un bacetto?” dissi, sorridendo, ma segretamente commosso da quello che aveva appena detto.
Boris mi colpì la spalla con le nocche – Ah sì eh, io il sentimentalone, adesso vediamo – e mi si buttò addosso braccandomi con le ginocchia. “Stupido cazzone, guarda che dicevo la verità, vediamo quando sei simpatico se ti riduco in polvere – dai Potter, è questo il tuo modo di schivare i pugni? Combatti proprio da antiquario, sai?”
“Vaffanculo” urlai ridendo. Le nostre lotte nel cuore della notte mi riportarono indietro nel tempo, e a un tratto avevo ancora 15 anni, Boris con i capelli sporchi, Boris come un guerriero indiano che ululava alla luna pestandomi per gioco, un grido che era un vaffanculo al mondo, a tutto ciò che non eravamo noi.
“Stai zitto cazzo” urlai dimenandomi fra le mie risate alcoliche, la pancia che mi faceva male per lo sforzo di ridere.
“Ma se non ho parlato, idiota” rispose lui immobilizzandomi i polsi, ridendo ancora più forte e scoprendo i denti bianchi.
Ad un tratto, senza capire come, eravamo molto vicini, i nasi che quasi si toccavano e il suo respiro che mi spostava i capelli dalla fronte. Era successo altre volte, quando eravamo fatti o ubriachi, due viaggiatori persi nel regno della droga. Questo, lo sapevo, era il preludio di qualcos’altro, qualcosa che ricordavo e non ricordavo. Ma era diverso, allora. Era confuso e divertente perdersi nel corpo di Boris senza farsi domande sulla natura di ciò che stava per succedere, che stava succedendo (Siamo noi, questi? Questi che si accarezzano lottando? Ha importanza? No, non ce l’ha perché siamo entrambi soli) ma adesso? Eravamo fatti ma non così fatti da poter evitare di prenderci la responsabilità delle nostre azioni. Lo sapevo io, lo sapeva Boris.
Lo guardavo e lui mi guardava in silenzio, l’ombra delle nostre brigate infantili stampata sul suo volto. Sentivo un’energia strana che preferivo ignorare.
“Ehi, non starai mica diventando tu, quello sentimentale, Potter!” berciò contento, una piccola rivincita sulla mia accusa di sentimentalismo.
“Non sono io quello che mi sta sopra bloccandomi i polsi” risposi dopo un istante, dando il tempo alla mia mente di uscire dalla malinconia viscosa nella quale mi impantanavo ogni volta che ripensavo alle notti a Las Vegas. Nonostante avessi cercato di suonare beffardo, la mia voce uscì fuori instabile, una lieve nota di imbarazzo che danzava nello spazio fra le nostre facce.
I suoi occhi mi apparivano più grandi, ma forse era solo l’effetto del rum, o forse erano solo troppo vicini ai miei. Ad un tratto mi sentii allegro, di quell’allegria che ti prende corpo e mente quando ancora non sei ubriaco e, con un sentore profetico, sai che tutto nella tua vita non potrà che andare bene.
“Ah, se gli sguardi potessero uccidere”, dissi divertito, il nero delle sue pupille era talmente vivo che sembrava si muovesse come un liquido. Svampito, gli toccai il naso con un dito e lui si mise a ridere talmente forte che quasi mi spaventai e ritrassi il dito di scatto.
“Potter, Potter, tutti questi anni e la tua resistenza all’alcool è sempre mediocre”
“Ma sta zitto, idiota! Che cos’è questo brillio negli occhi eh? Questo perenne sorriso ebete sulla bocca? Chi altri è brillo in questa stanza?” dissi felice. “In questa cazzo di stanza!” ripetei, questa volta urlando, Boris, sopra di me, si lasciava scappare un’altra risata.
“Non sono ubriaco, Potter! Solo un po’. . .” si portò l’indice alla tempia.
Non ci eravamo mossi di un centimetro e questo era incredibilmente strano. Svaccati sul divano di pelle, Boris sopra di me, le ginocchia che mi artigliavano le cosce per gioco, i polsi premuti contro il cuscino, stretti nella sua presa, la rosa con le spine appena visibile dalla manica della camicia leggermente arrotolata sul braccio buono.
Lo sentivo, anche da brillo. C’eravamo solo noi due, come prima, come sempre; la certezza di trovare sollievo in lui era inconfutabile, la consapevolezza di voler annegare la quieta disperazione della mia vita in un suo abbraccio arrivò forte come un pugno.
“Sai cosa dicono i tuoi occhi, caro il mio Potter?”. Un groppo alla gola, il sangue che mi colorava le guance, anche dopo tutto quel tempo, anche se conosceva tutti i miei sguardi ed era dunque impossibile scampargli.
“dicono “scopami””. Lo disse ridendo con la bocca ma trafiggendomi con uno sguardo serio, scrutatore.
“oh, ma dai Boris, io . . .” ma non feci in tempo a finire la frase che le labbra del mio migliore amico – di mio fratello – erano premute sulle mie. Mi stava baciando. E io lo stavo ricambiando. Prima goffamente, come se ci fossimo dimenticati come si faceva, poi le mie labbra si adattarono alle sue e in un istante era come se non avessimo fatto altro per tutta la vita.
Voilà, il danno è fatto, fottuto, fottuto, sono fottuto, siamo fottuti, ho ancora 15 anni, mio Dio, la stanza di Las Vegas con i vetri che riflettevano il blu artificiale della piscina. Fottuti.
“Boris”, sussurrai sulle sue labbra, allarmato ma non veramente.
“Lasciami fare, Theo, lasciami fare ti prego”, disse togliendosi la camicia già mezza sbottonata. Il tono era quello di una versione più giovane di lui che mi rivelava dolcemente la sua presenza nella notte, borbottando qualcosa in polacco mentre mi rimetteva a letto dopo un brutto sogno su mia madre.
Mi baciò la bocca, le guance, la linea del mento, il collo; strofinò il naso contro il mio orecchio come fosse un cane che ne annusa un altro cercando di conoscerlo.
“Sarà diverso, questa volta”, dissi cauto mentre si staccava per riprendere fiato e guardarmi in faccia, quasi a misurare la faccenda così, ad occhio e croce (Ad occhio e croce sto baciando Theo, ad occhio e croce voglio buttarmici addosso e, e. . .). “Diverso dalle altre volte”, ribadii con il tono di un arbitro alla sua ultima ammonizione.
“Ricorderemo, questa volta. Domani mattina sarà. . .”
“Lo so”, mi interruppe semplicemente, come se anche lui stesse contemplando le possibilità di quella situazione ai limiti del reale eppure così familiare. “Lo so”, ripeté ancora; e le luci di Anversa entrarono tutte in quella stanza, e il suo viso era contratto mentre gli accarezzavo il ventre e poi giù, ancora un po’ più giù; e la pelle di un pallore lunare mi fece mancare la terra sotto ai piedi e annullò il tempo, e annullò lo spazio.
 
 
   
 
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