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Autore: D a k o t a    11/12/2019    4 recensioni
In cui Conrad ha la febbre e Nic fa di tutto per prendersi cura di lui, anche se è tutto fuorché un ottimo paziente.
"Era Conrad e l’essere medico per lui era una categoria della spirito, più che una mera professione: l’essere medico stava nel suo prendersi cura degli altri, senza lasciare che fossero gli altri a prendere cura di lui. Non le aveva mai parlato dell'Afghanistan, mai. Era tipico – troppo tipico – : era il dottor Hawkins, ancora prima di essere Conrad."
[Storia scritta per l’Advent Calendar del gruppo fb Hurt/comfort italia - Fanfiction&Fanart Italia]
[prompt 108:cure forzate]
[ “Storia partecipante alla ‘Challenge delle domande scomode’ indetto da LiHuan.85"]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Conrad Hawkins, Nic Nevin
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Doctors are the worst patients

"Sei impazzito se pensi che ti lascerò andare al lavoro così!"

Conrad non poté fare a meno di scuotere la testa a quelle parole di Nic che, di ritorno dal suo turno notturno, l'aveva trovato sul divano, tremante, mentre si teneva la testa fra le mani. Ora, non è che non avesse alcuna sopportazione del dolore, no, è che era abituato ad aiutare gli altri, non ad essere lui, il malato. Era imbarazzante. Insomma, era pur sempre un dottore.

"Starò bene per domani, Nic" disse lui, scuotendo la testa, mentre l’infermiera piegò le labbra in una smorfia di disapprovazione, sfiorandogli delicatamente la fronte; a quel gesto lui non aveva potuto fare a meno di chiudere gli occhi, esausto. Scottava.

"Nic, smettila" la ammonì, ritraendosi e cercando di mettersi a sedere. "Ho solo mal di testa. Può essere legato allo stress..."

"Scotti. E sei un diagnosta troppo bravo per credere davvero che questa febbre dipenda dallo stress" lo interruppe lei, senza sentire ragioni, con vaga aria apprensiva – Conrad si lasciò scappare un brontolio: colpito e affondato.

Ora: non è che lei non fosse abituata a vedere i suoi pazienti malati, era pur sempre un'infermiera professionista, ma era Conrad ed era la prima volta in cinque anni di relazione che si ammalava. Quel pensiero non poteva non provocarle un brivido di preoccupazione. Non dopo Jessie, dopo aver perso il bambino, dopo tutto ciò che era successo.

"Vado a prendere il termometro. Tu vai nel letto. Ora."

Erano stati i primi freddi di dicembre, Conrad ne era sicuro. Nic glielo aveva detto di riguardarsi, ma a lui andare in Ospedale in bici era sempre piaciuto e non voleva, non voleva rinunciare solo per il freddo. E poi era un dottore, no? Non c’era bisogno che Nic gli dicesse come comportarsi. Era stato persino medico dell’esercito, in Afghanistan. Sapeva prendersi cura di sé stesso.

Si infilò nel letto, preoccupato – ma non per sé stesso. L’unico pensiero che aveva era che non poteva assentarsi tanto dal lavoro. Non poteva permettere alla Red Rock di prendere più terreno, né lasciare i suoi pazienti in balia di altri. In ospedale le vittorie erano rare – anzi:rarissime -, ma ogni volta che vi entrava, non poteva fare a meno di trovare una nuova sfida, un nuovo stimolo – non era uno che si rassegnava facilmente, nonostante i muri che il sistema gli poneva davanti; e davvero, ogni paziente salvato, ogni rottura necessaria del protocollo ne valeva la pena. Non è che non si fidasse degli altri medici, è che essere costretto a letto non poteva fare a meno di farlo sentire impotente e inutile. Specialmente quando Nic comparì sulla soglia della porta con termometro e una tachipirina – il giovane non poté che trattenere una smorfia, a cui l’infermiera rispose scuotendo la testa e piegando le labbra in un sorriso rassicurante.

“Stai provando ad umiliarmi, Nic?” disse Conrad, mentre l’ombra di un sorriso ironico gli balenava sulle labbra.

“Sto provando a prendermi cura di te” lo rimbeccò lei, con dolcezza, guardandolo negli occhi. “Sdraiati. Non c’è nulla di cui vergognarsi nello stare male, Conrad. Tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro”

Il giovane obbedì, lasciandosi andare sul cuscino, seppur con qualche riluttanza. Nic si sedette sul lato del letto matrimoniale, lasciando la compressa di paracetamolo sciogliersi in un bicchiere, mentre si avvicinava al dottore con un termometro, che Conrad le prese rapidamente dalle mani.

“Faccio io” rispose lui, cercando di non suonare brusco o diffidente.

Nic annuì, senza sembrare offesa, mantenendosi tranquilla. Era giusto lasciargli i suoi spazi – e sapeva benissimo che se c’era una persona a cui quel paziente recalcitrante che aveva davanti avrebbe affidato la sua vita, quella sarebbe stata lei. Ma era Conrad. Era semplicemente Conrad e quello era il suo modo di intendere l’esistenza, di intendere tutto: quando avevano perso il bambino, lui si era preso cura di lei, come se fosse stata l’unica ad averlo perso – come se la cosa non lo avesse dilaniato nel modo in cui aveva dilaniato lei. Era Conrad e l’essere medico per lui era una categoria della spirito, più che una mera professione: l’essere medico stava nel suo prendersi cura degli altri, senza lasciare che fossero gli altri a prendere cura di lui. Non le aveva mai parlato dell' Afghanistan, mai. Era tipico – troppo tipico – : era il dottor Hawkins, ancora prima di essere Conrad.

Il termometro suonò – e fu questo a distoglierla da quei pensieri. Si scambiò uno sguardo con Conrad, che si era irrigidito, quasi a chiedergli silenziosamente il permesso di controllarlo, di accertare che stesse bene. Fu solo dopo aver estorto una scocciatissima ed esasperatissima occhiata di assenso, che la ragazza decise di prendere il termometro dall’ascella del giovane.

“Segna 38.2, Conrad” disse, lanciandogli un’occhiata preoccupata, che era anche di ammonimento. “Perché non hai chiamato un…?”

Si interruppe, quando vide le sue sopracciglia alzarsi e l’aria scioccata che aveva, come se avesse detto la peggiore fra le blasfemie – e in un certo senso, nella testa di Conrad l’aveva detta davvero. Insomma, era stato capace di prelevarsi autonomamente il sangue per una donazione in una situazione estrema – davanti all’espressione fra l’indignato e il cauto di Mina e sotto l’ammirazione di AJ –, chi mai avrebbe dovuto chiamare?

“Chiamare chi? Un dottore? Devon?” le disse, alzando un sopraciglio e sorridendo appena, mentre appoggiava la testa sul cuscino. Era un dottore, non Superman: odiava ammetterlo e non l’avrebbe detto neanche a Nic, ma si sentiva affaticato. “Notizia flash: io sono il dottore. Ero un dottore, l’ultima volta che ho controllato”

Nic scosse la testa, sistemandosi una ciocca di capelli biondi, mentre prendeva il bicchiere dove la compressa effervescente di paracetamolo si era ormai dissolta. Glielo porse e lui accettò, con riluttanza. Si stava agitando troppo – e sapeva che non gli avrebbe fatto alcun bene.

“Bevi lentamente” gli disse semplicemente, passandogli delicatamente una mano fra i capelli biondi, con un gesto vagamente protettivo.

“Spero che funzioni” disse Conrad, lasciandosi andare di nuovo sul letto, con aria un po’ abbattuta, dopo averle passato il bicchiere vuoto. Dannazione, l’ultima volta che si era ammalato era stato un raffreddore e aveva sette anni – non ricordava quanto fosse fastidioso. “Ho una visita con Henry domani. Ha avuto un altro attacco epilettico. Sua madre è spaventata a morte”

Nic sospirò davanti a quell’ammissione. Ecco il problema. Era sempre stata difficile, con Conrad, soprattutto per lei: lei era ugualmente e naturalmente portata a prendersi cura delle persone – di sua madre e di Jessie, più di chiunque altro. Ed era stato estenuante e difficile e persino soffocante a volte, eppure desiderava più di qualsiasi altra cosa che Conrad le permettesse di prendersi cura di lui, almeno di tanto in tanto. Che non si chiudesse in sé, che non si isolasse dal dolore. Era un dottore – ed era un atteggiamento tipico dei dottori, no? Si chiudevano a riccio e si isolavano dalla sofferenza, perché come diavolo potevano sopravvivere al vedere un bambino soffrire sotto i loro occhi e al non aver altro da suggerire ai suoi genitori oltre alle cure palliative, altrimenti? O annunciare un decesso ai familiari di un paziente? Nic lo sapeva e Conrad qualche volta, in vena di confidenze, mentre si toccava il polso destro all’altezza del tatuaggio “Annabeth” in maniera distratta (Nic si era spesso chiesta se quel gesto fosse una falla, un foro, un qualcosa di non elaborato nei suoi nervi saldissimi), glielo aveva detto: ci sono cose che non ti insegnano a Medicina. E quelle erano solo alcune delle cose – e nemmeno le più improbabili - che lo specializzando si era trovato a fronteggiare.

“Senti, Conrad” gli disse, quando il giovane le porse il bicchiere vuoto. “Io lo capisco. Mi rendo conto che ciò che vuoi fare è nobile, ma così non sei di aiuto a nessuno. Non puoi andare in ospedale. Se vai in ospedale così, rischi di mettere solamente in pericolo qualcuno. So che non è questo che tu vuoi”

Conrad chiuse gli occhi, sconfitto. Niente da fare: sapeva che questa volta Nic aveva ragione – e mettere in pericolo Henry, dopo tutto ciò che avevano passato lui e sua madre dopo la morte di Jasper, era qualcosa che non si sarebbe mai perdonato.

“Mi sento inutile” ammise infine il giovane, sconsolato, chiudendo gli occhi. Era vero: lontano dall’ospedale, senza essere attivo, e confinato in quel letto con un mal di testa assordante, si sentiva davvero inutile.

“Non lo sei e lo sai” disse, baciandogli teneramente la fronte. Il dottore – o il paziente? - emise un gemito, senza aprire gli occhi. “Ma avresti dovuto ascoltarmi, quando ti ho detto che correre in ospedale in bicicletta in pieno dicembre non era una buona idea”

Conrad sorrise appena, mantenendo gli occhi chiusi, ma l’occhio esperto di Nic non poteva fare a meno di notare come fosse rabbrividito, al contatto delle sue labbra con la sua fronte. Non stava migliorando, anzi.

Nic sapeva che era meglio aspettare un pochino per vedere l’effetto del paracetamolo, prima di provvedere ad una spugnatura, ma Conrad, che ormai non si ribellava più alle cure, e che sembrava dormire di un sonno irrequieto, la stava preoccupando. Decise di attendere venti minuti, che passò tenendolo per mano, prima di accorgersi che il giovane dottore stava sudando copiosamente e che non vi era altro da fare se non procedere con una spugnatura. Prima di andare a prendere l’occorrente, decise di assicurarsi che Conrad fosse adeguatamente idratato.

“Conrad?” disse, toccandolo piano, con delicatezza, sulla spalla. Nell’altra mano aveva una bottiglietta d’acqua fra le mani.

“Nic?” chiese lui, sfiorandole la mano. Aveva aperto solo un occhio e la sua voce sembrava molto più debole, molto più fievole rispetto al tono che aveva tenuto fino a una mezz’oretta prima.

“Bevi” disse, avvicinandosi piano, aiutandolo. Aveva il totale controllo della situazione ed era prontissima a procedere ad una spugnatura, l’aveva fatto decine di volte, ma l’idea che il volto provato che aveva davanti fosse davvero Conrad la destabilizzava. Non disse nulla, non voleva agitare il giovane medico e sapeva che non sarebbe stato d’accordo, ma era più che convinta che, se la situazione dopo la spugnatura non fosse migliorata, avrebbe chiamato Devon.

Lo aiutò a togliersi la maglia, prima di recarsi a prendere il necessario per una spugnatura. Immerse un panno nell’ acqua tiepida, pensierosa. Era strano e devastante vedere Conrad così vulnerabile, fragile e perso – vederlo come lo stava vedendo in quel momento, dopo essere rientrata in camera.

Strizzò il panno, prima di passarlo sopra la mano destra del giovane, esercitando una leggera frizione. Il giovane reagì con un mugolio. Conrad - Nic lo vedeva mentre passava a frizionare il collo - aveva tutti i muscoli in tensione.

Spalancò gli occhi di scatto: il suo sguardo era appannato e si ritrasse mentre Nic si stava occupando del braccio sinistro. Lei si allungò a prendergli la mano, mentre lui continuava a guardare fisso, alle sue spalle, verso la televisione.

“Nic?” la chiamò nuovamente, cercando di allontanarsi dalla televisione e di avvicinarsi il più possibile alla sponda del letto. “Nic, ci stanno per sparare? Dobbiamo scappare...Nic...”

Fu in quel momento, vedendolo così vulnerabile, che l’infermiera capì cos’era a turbarlo e gli lasciò la mano.

La spia rossa del televisore. Era già successo un’altra volta, ma non aveva dato peso all’episodio. Aveva pensato ad un incubo, ma adesso che Conrad la menzionava di nuovo e la fissava così – oh, no. In un baleno staccò la spina del televisore, per poi risedersi sul letto, proprio accanto a lui.

“Sono qui, Conrad” gli disse, avvicinandosi con cautela, senza toccarlo. “Non sta succedendo nulla. Siamo a casa e sei al sicuro. Nessuno ti sta facendo del male. Respira profondamente. Guardati intorno. Ti ricordi cosa c’è fuori?”

La risposta si fece attendere qualche secondo. Nic voleva abbracciarlo più di qualsiasi cosa al mondo, ma sapeva che sarebbe stato un errore. Sapevo che se Conrad si sentiva in trappola, quello avrebbe potuto farlo sentire ulteriormente minacciato.

“I polli” rispose il giovane dottore, senza smettere di tremare. “Il pollaio”

Conrad cercò di respirare profondamente. Prese un respiro e cercò di calmarsi. Era il 2019. Era nella sua stanza della sua nuova casa – quella con i polli, quella che aveva tanto voluto. Era al sicuro. Era al sicuro. Era al sicuro. Conrad cercò di rilassarsi, mentre la canna dell’arma di un cecchino spariva e la televisione e le pareti blu di quella casa sembravano ricomparire. Era tutto in ordine. Nic riprese fiato, non aveva mai visto Conrad così. Mai.

“Esatto. I polli” rispose, sollevata. Fu solo quando il giovane si avvicinò alla sua mano, come in cerca di conforto, che lei strinse la sua.

“Nic, io...” disse, ed era quasi di nuovo Conrad, un Conrad che aveva ancora la febbre ma aveva già quell’aria lucida, razionale e misurata che Nic conosceva bene. E stava per giustificarsi.

“Non adesso” disse la ragazza, sistemandogli un ciuffo di capelli bagnati di sudore. La temperatura sembrava migliorare, ma i suoi occhi erano ancora appannati e il ragazzo aveva sicuramente bisogno di dormire. “Adesso devi riposare”


 

***

Passarono due giorni, due giorni durante i quali Nic aveva dormito pochissimo e l’aveva controllato a vista – si era presa due giorni di riposo dall’ospedale apposta per farlo. Sapeva che, se non l’avesse controllato, Conrad avrebbe finito per trascurarsi. Era meglio sottoporlo a delle cure forzate, almeno per la febbre.

Una parte di lei era tormentata da quella domanda flebile, da quel “Nic, ci stanno per sparare” sussurrato, eppure quando Conrad era migliorato non aveva fatto nessuna domanda. C’era stata e basta – e sperava che a lui bastasse questo. Beh, in realtà una domanda l’aveva fatta Conrad – ed era la stessa che stava facendo in quel momento.

“Oggi torno al lavoro?” le aveva detto, incominciando a vestirsi e dirigendosi in salotto.

“Nemmeno per sogno” lo aveva rimbeccato lei, riconducendolo sul letto. “Ti ho detto che rientreremo domani. La tua temperatura sarà normale, ma sei ancora debole e lo sai”

“Dovrebbe essere nel diritto del paziente dimettersi contro il parere medico” la prese in giro lui, guadagnandosi un’occhiataccia. “A maggior ragione se il medico sono io”

Conrad brontolò lievemente, davanti allo sguardo inflessibile di Nic. Non sarebbe mai riuscito a corromperla, era chiaro. Ma aveva così tanta voglia di tornare in ospedale, ne aveva bisogno come ne aveva bisogno ogni fibra del suo corpo. Se, come aveva letto in Socrate, fare il bene era esercitare la virtù, allora Conrad ne era sicuro: lui poteva farlo, poteva esercitarla solo fra le mure del Chastain. Era come il concetto di atto e potenza nella Metafisica: Conrad era in atto solo quando indossava il camice e lo stetoscopio. Fu sottratto da questi pensieri solo quando vide la spina staccata del televisore. Qualcosa gli tornò in mente.

“Nic, ho detto qualcosa che ti ha turbata l’altra sera?” le chiese, sedendosi sul letto accanto a lei. Succedeva raramente – non succedeva mai in ospedale. Ma a volte l’orrore dell’Afghanistan, l’odore caratteristico della terra sembrava sopraffarlo. “Vuoi chiedermi qualcosa?”

Nic lo guardò. Ovviamente voleva chiedergli qualcosa. Ovviamente era preoccupata per Conrad – ora che lo rivedeva in piedi, mentre fremeva perché qualcuno lo chiamasse nuovamente Dr. Hawkins, era difficile riconoscerlo in quella sagoma tremante, piccola come non mai, che aveva visto l’altra sera. Era preoccupata, ma sapeva che mettendogli fretta lui si sarebbe chiuso a riccio; e anche nel caso in cui non l’avrebbe fatto, lei non voleva forzarlo. Non se non era pronto. Lui non gli aveva dato un ultimatum, quando lei gli aveva chiesto del tempo, prima di andare a vivere insieme. Nemmeno lei lo avrebbe fatto.

“Ascolta. Ci ho pensato” gli disse, cercando le parole giuste. “Per rispondere alla tua domanda, sì. Ovviamente vorrei che tu mi parlassi di ciò che ti tormenta, dell’Afghanistan e dei ricordi che hai. Vorrei che tu mi spiegassi come posso aiutarti, se posso aiutarti. Ma ti conosco. So quanto sia difficile per te anche solo parlare della tua famiglia. Quindi non voglio che tu lo faccia adesso, e nemmeno domani… Voglio che tu cominci a farlo quando vuoi farlo, gradualmente. Con i tuoi tempi, solo se e quando ti sentirai pronto...”

Per tutto il tempo che durò il breve discorso, Nic restò seduta sul letto, guardando in basso e tormentandosi una ciocca di capelli. Sperava che avesse capito – almeno quanto lui aveva capito lei, tanti mesi prima. E sperava di non aver invaso i suoi spazi, di non averlo in alcun modo ferito.

“Okay, guardami” disse il giovane, dopo una breve pausa di silenzio, cercando il suo sguardo. Abbozzò un sorriso. Stava parlando della cosa, dell’aspetto più intimo, più riservato al mondo del suo essere, ma sapeva che era difficile anche per lei. C’erano cassetti che non era pronto ad aprire, cassetti che solo il dedicarsi totalmente agli altri lo aiutava a tenere chiusi. Era un’altra cosa da Conrad: trarre conforto dal dare conforto. Solo quando lei lo guardò, lui le accarezzò dolcemente una guancia, prima di dire semplicemente “Grazie”.

Non era molto. Ma quel giorno era abbastanza – abbastanza per entrambi. Lui la baciò delicatamente le labbra e fu lei ad approfondire il bacio, a trasmettere ciò che con le parole non riusciva ancora a trasmetterle.

Fu lo squillo di un telefono ad interrompere l’atmosfera .

Il display del telefono di Nic si illuminò e Conrad alzò gli occhi al cielo quando vide il nome, e ancora più quando rispose. La ragazza uscì dalla stanza, per rispondere.

“Era Devon. Voleva sapere come stavi” lo informò poi, tornando. Conrad alzò gli occhi al cielo – lui e Devon ultimamente litigavano come cani: a volte non poteva fare a meno di pensare che proprio per questo, il giovane tirocinante meritasse il suo rispetto; aveva imparato da lui tutto ciò che da lui poteva imparare e poi l’aveva declinato a sua immagine, mettendo in discussione ciò con cui non era d’accordo, come fa un ottimo allievo con un ottimo insegnante. “E mi ha anche detto che sei l’esempio lampante del fatto che è vero ciò che si dice sui dottori ”

Conrad alzò un sopracciglio, perplesso. A cosa si riferiva?

“Ovvero?” le chiese, sospettoso.

Nic si strinse le spalle, sorridendo, sull’uscio della porta.

“Che siano i peggiori pazienti” sorrise appena e a Conrad tornò in mente quella volta in cui Devon si era occupato della sua distorsiome alla caviglia. Scosse la testa e aprì bocca, come per parlare, ma Nic lo anticipò, concludendo “E che tu sia il peggior paziente fra i dottori”

NDA.
Secondo tentativo nel fandom. Ringrazio il gruppo: Hurt/Comfort - Fanfiction & Fanart per il bellissimo Calendario dell'Avvento. 

 


 

   
 
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