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Autore: Adeia Di Elferas    13/12/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Secondo Achille Tiberti era stato un errore attirare l'attenzione dei faentini, mentre da Cesena si spostava verso il confine nord di Imola per andare alla testa dell'avanguardia dell'esercito pontificio.

In realtà quella che si era consumata appena prima dell'alba era stata a malapena una scaramuccia, e dei venticinque cavalleggeri che aveva usato per affrontare circa lo stesso numero di soldati di Astorre Manfredi, non ne era morto nemmeno uno.

Ciò che lo infastidiva era pensare che la notizia di quello scontro sarebbe arrivata probabilmente in fretta all'orecchio della Tigre e l'effetto sorpresa nell'attaccare Imola sarebbe andato in parte perduto.

Anche se, a voler essere oggettivi, anche se la Sforza avesse saputo del suo avvicinamento rapido e improvviso... Che cosa avrebbe potuto fare, impelagata nella confusione amministrativa in cui tutti la dipingevano?

L'uomo intravide finalmente, nella sottile nebbia di quel mattino, il campo dei pontifici. Sperava che tutto fosse già pronto all'attacco, perché non voleva ritardare oltre. Gli era bastato l'impiccio dei faentini, non voleva ritardare ulteriormente.

Gli era stato riferito che il Duca di Valentinois non si era ancora visto a Cantalupo, dove lo aspettavano tutti per dargli in mano il grosso dell'esercito. Nessuno sapeva che deviazione avesse fatto, nella sua discesa nel bolognese. Ad Achille non interessava molto sapere dove fosse il figlio del papa, ma voleva che fosse chiaro a tutti che Borja o non Borja, quel giorno si doveva attaccare.

Arrivato nel cuore del campo, dopo essersi fatto riconoscere, volle incontrare subito i comandanti francesi che avrebbero seguito i suoi ordini, almeno finché il Valentino non avesse preso il suo legittimo posto.

“La città andrà presa entro sera.” disse Tiberti, quando si trovò davanti gli uomini di re Luigi, che lo fissavano scettici: “Con le buone o con le cattive, vi assicuro che stasera ceneremo nel palazzo del Governatore.”

 

La mattina di quel 21 novembre Caterina si era svegliata con un brutto presentimento. Malgrado in cielo splendesse un pallido sole e facesse un po' meno freddo del solito, la donna avvertiva come una scossa nelle ossa e una sensazione di straniamento che non le piaceva per niente.

Malgrado la sera prima la corsa della piazza fosse stato un momento quasi piacevole, per quanto frettoloso, la Sforza non riusciva a levarsi di dosso l'impressione che ci fosse stato qualcosa di stonato, in quella messinscena. Aveva portato a termine senza problemi i tre giri di piazza, si era sottratta volentieri al furto del cavallo e, anche se suo figlio Ottaviano si era rifiutato di fare altrettanto, i forlivesi erano sembrati ugualmente soddisfatti e tranquillizzati.

Eppure, fino alla fine, la donna aveva avuto il sentore che qualcosa non quadrasse, e il non capire cose fosse a dare quella nota stonata le aveva resa amara anche la cena e complicata la notte.

Cercando di non pensare più a quanto accaduto la sera prima, si era preparata in fretta, era scesa nella sala dei banchetti a mettere qualcosa sotto ai denti e, proprio mentre si alzava da tavola, la brutta notizia che le sembrava inevitabile era arrivata.

“Mia signora – le aveva detto Luffo Numai, già in piena attività, malgrado l'alba fosse passata veramente da poco – sembra che gli uomini di Achille Tiberti abbiano affiancato Faenza, arrivando a scontrarsi con una pattuglia di ricognizione di Astorre Manfredi.”

Il sangue sembrava essere diventato ghiaccio, nelle vene della Leonessa. La donna si era passata la punta delle dita sugli occhi, aveva cercato di controllare il respiro e poi aveva deglutito, nella speranza di ritrovare la voce.

“La guerra è iniziata.” aveva detto, in sussurro appena udibile, ragionando in fretta su come Faenza, malgrado tutti i giochetti di Castagnino, alla fine fosse finita nelle mire del Borja esattamente quanto lei: “Devo vedere Giannotto.”

Lasciando Numai nella sala dei banchetti, la donna aveva fatto convocare il mercenario. Aveva promesso a se stessa di non sprecare uomini di Forlì nel difendere Imola, soprattutto dopo gli ultimi atti sovversivi degli imolesi. Però non poteva nemmeno aspettare di sapere Tiberti vincitore.

La rocca avrebbe retto, almeno in un primo tempo, perché Naldi sicuramente avrebbe arginato bene l'avanguardia del cesenate.

Che si trattasse solo dell'avanguardia Caterina era sicura: se fosse stato già il grosso delle truppe francesi, di certo avrebbero avuto notizie del loro avvicinamento. Quindicimila uomini non passano inosservati.

Era degli imolesi che si fidava meno. Mandando il francese assieme ai suoi quattrocento fanti immediatamente in difesa della città, forse avrebbe convinto i suoi sudditi a imbracciare le armi e provare a respingere Tiberti.

Dato ordine a Giannotto di partire immediatamente, la Tigre era tornata nelle sue stanze per ragionare. Mandando il condottiero a Imola aveva anche risolto il problema collaterale dell'insofferenza dei forlivesi nei confronti dei suoi soldati.

Alla rocca di Ravaldino tutto sembrava pronto. Certo, ora che Tiberti era alle porte di Imola, la Leonessa avrebbe dovuto prepararsi a dire davvero addio ai suoi figli, ma non era il caso di pensarci proprio quella mattina.

“Mia signora...” il castellano era entrato nella camera della Contessa senza bussare.

La donna, troppo presa dalla propria agitazione per arrabbiarsi per quella mancanza di rispetto, si voltò verso di lui e chiese: “Che c'è ancora?!”

“Il Capitano Mongardini ha arrestato il figlio di Giuntino, come vi aveva promesso. L'ha fatto portare nelle segrete.” spiegò Bernardino da Cremona.

La Sforza si era completamente dimenticata dell'ordine che aveva dato al suo Capitano. Non aveva voglia di interrogare quell'uomo. Voleva prima vedere cosa sarebbe successo a Imola e solo a quel punto avrebbe deciso che farne, del genero di Achille Tiberti.

“Va bene.” disse solo.

Il castellano rimase un momento in attesa e, quando gli occhi verdi della sua signora saettarono verso di lui, balbettò: “Avete... Avete altri ordini?”

“No.” fece la donna, ma poi, accigliandosi, chiese, con un tono quasi colloquiale: “Voi... Avete dimestichezza, giusto, con la vita del soldato?”

“Come voi, mia signora.” rispose immediatamente lui, non capendo dove la donna volesse andare a parare.

“Ecco... Credete... Credete che agli uomini di stanza qui farebbe piacere avere dei cappellani per potersi confessare?” domandò la Tigre.

“Immagino di sì.” annuì Bernardino: “Anche se possono andare quando vogliono in una chiesa qualsiasi e...”

“Sì, ma se dovessimo asserragliarci qui...” soppesò la Contessa, sbuffando: “Devo andare, adesso.”

Il castellano capì l'antifona, cercando di non irritarsi davanti ai modi scostanti della sua signora, e lasciò subito la stanza.

Con un paio di respiri profondi, Caterina si grattò il capo e poi, dicendosi che non c'era tempo da perdere, decise di andare a cercare qualche prete che fosse disposto ad andare a Ravaldino come cappellano militare. Forse era presto, ma era meglio essere previdenti.

Passò mentalmente in rassegna tutte le chiese di Forlì e l'unica in cui pensò di poter trovare qualcuno di amichevole e ben disposto fu San Girolamo. Gli stessi preti che avevano accettato di accogliere le spoglie del suo Giacomo e di Ottaviano Manfredi avrebbero di certo accettato di servirla fino alla morte. O almeno, così sperava.

Per prima cosa sarebbe quindi passata al Quartiere Militare, per ordinare un riasetto della disposizione delle truppe, in modo da accentrarle quasi tutte o a Ravaldino o al Paradiso. Dopodiché sarebbe andata in cerca di qualche prete coraggioso disposto a mettere il suo dovere di confessore davanti alla paura per la propria vita.

 

Il Cagnaccio guardò di sotto e sollevò una mano, per fermare i suoi arceri. Imola aveva chiuso tutte le sue porte alla prima avvisaglia di attacco. Il popolo, rimasto chiuso entro il perimetro della città senza preavviso, aveva fin da subito cominciato a dare problemi. L'arrivo di Giannotto e dei suoi quattrocento fanti stranieri, poi, non aveva certo migliorato la situazione.

Con il Governatore arrestato, Dionigi Naldi che non si sarebbe mosso dalla rocca, e tutti gli imolesi mossi unicamente dal terrore, Sassatelli non sapeva quanto sarebbe riuscito a tenere a freno i nemici. I contadini, soprattutto loro, non accettavano l'idea di finire chiusi in trappola come topi e, pur essendo ormai quasi tutti irreggimentati nelle file proprio del Cagnaccio, sembravano molto più propensi a unirsi ai francesi che combatterli.

Achille Tiberti si era lasciato alle spalle i suoi cinquecento cavalieri, staccandosi dall'esercito con un manipolo appena di guardie, e si era portato sotto Porta Spuviglia, proprio dove il Cagnaccio si era appostato, a rischio di essere subito ammazzato da qualche freccia raminga.

“Voglio parlare con chi comanda qui!” gridò il cesenate, puntando lo sguardo direttamente verso Sassatelli.

Il Cagnaccio, non sapendo chi potesse essere in quel momento superiore a lui in grado, a parte forse Giannotto, che però in quel momento si trovava a Porta Piolo, dove ci si era attesi il primo attacco, esclamò: “Sono io! Parla!”

“Ti chiedo la città a nome di re Luigi dei francesi.” disse Tiberti, apparentemente molto calmo, come se fosse certo di ottenere subito un sì.

“Piuttosto la morte!” ribatté il Cagnaccio.

“Vi daremo la vita salva, una buonuscita di tutto rispetto e un ingaggio nel nostro esercito, a voi e a tutti i contadini che militano per voi!” riprese allora Achille, utilizzando come meglio poteva le informazioni che aveva ottenuto dalle sue spie: “Non fatevi accoppare come bestie! La vostra Tigre non è nemmeno qui con voi! Io la conosco bene! Se le fosse importato della vita degli imolesi, sarebbe qui, a morire con voi!”

Sassatelli era deciso a non mollare, ma la voce del comandante nemico era troppo tonante. Alle sue spalle, dietro la Porta ancora chiusa, i suoi soldati vociavano e commentavano la proposta di Tiberti in modo sempre più entusiasta.

Prima che potesse ribadire la sua fedeltà alla Sforza, il Cagnaccio sentì i suoi esplodere in un grido quasi di gioia: “Luigi! Luigi! Luigi!”

Tiberti sollevò appena l'angolo della bocca e, in segno di buona disposizione, si tolse anche l'elmo e chiese: “Allora? Abbiamo un accordo?”

“Sarete di parola?” chiese Sassatelli, sentendosi sul collo i suoi indisciplinati contadini strappati ai campi forse con troppa leggerezza e da troppo poco tempo.

“Certamente!” assicurò il cesenate: “Ci servono soldati e so che quelli della Sforza sono i migliori e li vogliamo.”

Deglutendo, il Cagnaccio si guardò alle spalle, e capì che, se non avesse subito accettato, si sarebbe trovato con la testa mozzata, facendo una fine ignominiosa. L'unica alternativa era accettare e sperare di rifarsi un nome nelle file nemiche.

Con il fiato corto e la fronte che si imperlava di sudore, alla fine Sassatelli scelse la strada che gli sembrava più semplice. Con un breve cenno a uno degli arganisti, fece aprire Porta Spuviglia e poi, rendendosi conto solo in seconda battuta di quello che aveva fatto, si dovette appoggiare alla merlatura accanto a cui si trovava per non sentirsi mancare.

 

Per le strade di Forlì si poteva ancora avvertire il sentore dei fuochi che erano stati accesi quella notte. Permettere alla città di fare festa era stata, agli occhi della Tigre, un'arma a doppio taglio.

Se da un lato, infatti, con quel pretesto si era andati a distendere un clima che si stava facendo esplosivo, dall'altro si poteva vedere – benché fosse già quasi mezzogiorno – qualche giovane ancora annebbiato dal troppo vino vagare senza una meta precisa. In quel momento, se per caso fossero stati attaccati all'improvviso, sarebbe stato quasi impossibile richiamare all'ordine l'intera cittadinanza.

Caterina era appena stata al Quartiere Militare e al Paradiso. Aveva spiegato quel che aveva intenzione di fare e tanto i suoi Capitano, quanto Pirovano, le avevano assicurato che le truppe sarebbero state spostate come desiderava lei entro sera alla cittadella e entro il mattino dopo alla rocca.

Ciò che quasi la intimoriva, quel giorno, nell'addentrarsi tra le vie della sua città, era l'atmosfera immobile, quasi addormentata, che la circondava. Con tutta la fantasia del mondo, nessuno avrebbe potuto dire che Forlì era una città sull'orlo della guerra.

Passando volutamente davanti alla barberia di Andre Bernardi e trovandola incredibilmente ancora chiusa – segno, forse, che pure il sobrio Novacula la notte prima si fosse dato alla pazza gioia come tutti – la Tigre raggiunse la chiesa di San Girolamo.

Varcandone la soglia, le tornò in mente il figlio di Giuntino, che attendeva la propria sorte a Ravaldino. Era stato un collegamento infido fatto dalla sua mente, perché a ricordarle il prigioniero era stato il pensare a Giacomo e a tutti i congiurati o presunti tali che lei stessa aveva ucciso per cercare vendetta. Non voleva tornare a essere quella donna.

“Devo parlare con il vostro Padre Superiore.” disse la Contessa, appena incrociò un prete, a metà della navata centrale.

L'uomo chinò il capo e la pregò di attendere. Caterina fece un sospiro e disse che avrebbe fatto così, ma che non aveva molto tempo. Mentre il prete scalpicciava verso l'altare e poi spariva oltre il coro, la donna incrociò le braccia sul petto, guardandosi attorno. Avrebbe quasi voluto sfruttare l'attesa per andare sulla tomba di Giacomo, ma non voleva farsi trovare nella cappella dei Feo, quando il Padre Superiore fosse giunto a cercarla.

Passandosi una mano sulla manica del giubbone, alla Leonessa venne quasi da ridere. Era vestita da uomo ed era in una chiesa eppure nessuno sembrava osare riprenderla per quello che veniva considerato un peccato imperdonabile. Forse, si permise di sperare, davvero il potere del papa era inferiore al suo, entro le mura della sua Forlì.

 

Un ragazzino era riuscito a scappare da Porta Spuviglia, attarversare buona parte di Imola, e cercare Giannotto. Quello che doveva dirgli era, ai suoi occhi, di una gravità indicibile.

Il suo cuore rimbombava contro le coste, a ritmo, quasi, con le campane a martello che spandevano per tutta Imola un furioso battere e ribattere.

Quando aveva visto Sassatelli, un uomo che tutti temevano, ma che tutti ritenevano fedele alla causa, aprire la porta al rinnegato Tiberti, il giovane non aveva pensato ad altro se non ad andare a chiedere soccorso e avvertire i mercenari che presidiavano Porta Piolo.

Giannotto, però, quando se l'era visto arrivare davanti, l'aveva fatto fermare da due suoi uomini e solo quando aveva sentito, tra le grida del ragazzino, delle parole che aveva trovato interessanti, aveva dato ordine di liberarlo.

“Che cosa succede?” gli chiese, con il forte accento francese che distorceva più del solito le sue parole, la voce abbastanza forte da sentirsi anche sopra l'incessante rintocco della campane.

“Il Cagnaccio ha venduto la città! Ci ha traditi! Ha aperto Porta Spuviglia e ha fatto entrare quello di Cesena!” rispose il ragazzino, quasi alle lacrime per la paura.

Giannotto, come tutti, sapeva chi era 'quello di Cesena'. Ragionò in fretta su quello che aveva scoperto. Si disse che aveva qualche minuto buono per decidere il da farsi. In fondo dubitava che un armigero esperto come Achille Tiberti si mettesse ad attraversare la città ceduta solo a parole. Era molto più probabile che l'aggirasse, lasciando un picchetto a Porta Spuviglia e provando a prendere dall'esterno Porta Piolo, che però era murata e che, quindi, avrebbe necessitato dell'artiglieria pesante, per essere abbattuta.

La sua reazione a quella notizia, però, fu molto diversa da quella i presenti si sarebbero aspettati. Sollevando una mano guantata di ferro, chiamò a sé uno dei suoi ufficiali e cominciò a parlottare con lui in francese stretto.

Con un cenno di intesa tra i due, il colloquio si interruppe improvvisamente e poi Giannotto diede un ordine silenzioso ai suoi che, come in uno schema ben noto, cominciarono a schierarsi.

“Quando quello di Cesena arriverà – disse il condottiero, rivolgendosi al ragazzino – vedremo che avrà da dirci.”

 

“Per favore, venite con me.” disse piano il prete che aveva messo in attesa la Sforza.

L'accompagnò in silenzio fino alla canonica e lì il Padre Superiore salutò la Tigre con un sorriso e poi mandò via l'altro religioso con un cenno del capo.

“Ho una cosa importante da chiedervi.” fece Caterina, sollevando un sopracciglio e guardando con discrezione l'ambiente che la circondava.

Non era un posto elegante, ma non le dispiaceva, lo trovava molto scarno e in contrasto con lo sfarzo che aveva intravisto dietro i cori e nelle absidi di chiese come il Duomo. In un certo senso, le sembrava il posto adatto a una come lei.

“Vi ascolto.” la incoraggiò il prete, inclinando appena la testa di lato e accentuando il sorriso.

“Mi servono dei padri confessori per le mie truppe.” cominciò a spiegare la Contessa: “La guerra ormai è iniziata, ci sono già stati i primi scontri... Presto gli uomini sentiranno il bisogno di cercare il conforto della confessione... Vorranno ricevere l'eucarestia e non escludo che alcuni vorranno anche essere sposati.”

Il Padre Superiore annuì, facendosi però più serio, e commentò: “La maggior parte dei vostri soldati già si rivolge ai preti di San Girolamo, per queste cose. Vedere voi frequentare la nostra chiesa li ha già portati a preferirci a...”

“No, non avete capito.” scosse il capo la Sforza, prendendo fiato e precisando: “Voglio dei preti che vengano a stare alla rocca. Non so che ne sarà della città, ma la rocca resisterà ed è lì che voglio i padri confessori.”

Il religioso rimase in silenzio per qualche istante, poi, schiarendosi la voce, disse: “Parlo a nome di tutta la mia congregazione, quando dico che vi dobbiamo molto. La vostra netta preferenza per questa chiesa ci ha permesso di avere più fedeli e più elemosine...”

“In cambio, quando quelli del Duomo si sono rifiutati, voi avete accolto le spoglie del mio secondo marito – mise le mani avanti la Tigre, quasi a voler sollevare da ogni obbligo morale il prete, in modo che accettasse o rifiutasse con maggior libertà – cosa che, va detto, solo i Battuti Neri forse avrebbero fatto.”

Il Padre Superiore chinò appena il capo e scrollò un po' le spalle: “La nostra cura va alle anime, non alla politica.”

“Risposta saggia.” fece eco la donna.

“Tornando alla vostra richiesta, potrò fornirvi i confessori che vi servono. Il voto d'obbedienza ha ancora un valore, per noi. Se io ordino di fare quello che chiedete, lo faranno.” concluse il prete.

“Non voglio uomini costretti a stare in una rocca piena di soldati alla vigilia di una guerra.” ci tenne a precisare Caterina: “Davanti alla morte, anche un religioso si spaventa. Non ho bisogno di gente che faccia confusione. Mandatemi solo dei volontari. Se non troverete nessuno, fatemi sapere e cercherò altrove.”

Il Padre Superiore allungò una mano, stringendo con forza quella della sua signora: “Un volontario l'avete già.”

Quasi commossa dalla fermezza del prete, la Contessa lo ringraziò muovendo appena le labbra e poi ribadì: “Fate sì che chi di dovere arrivi alla rocca il prima possibile.”

L'uomo annuì e poi, dopo un brevissima esitazione, soggiunse: “Se avete intenzione di andare a chiedere anche in altre chiese, vi consiglio di cambiarvi d'abito. Dubito che in Duomo vi lascerebbero entrare, vestita a quel modo, anche se siete la signora di queste terre.”

“Già, lo credo anche io.” convenne la Leonessa, guardando gli abiti da uomo che indossa: “Infatti non ho alcuna intenzione di andare al Duomo. Fosse per me, avrei raso al suolo quella chiesa già da anni.”

“Se accettate un altro consiglio da amico – fece il Padre Superiore, con un mezzo sorriso – state attenta a come parlate, quando non siete tra persone fidate.”

“Ma adesso lo sono, no?” La Sforza sospirò e poi, ritenendo conclusa anche quella parentesi, si scusò: “Perdonatemi, ma ora devo andare... Volevo cercare mia figlia, perché devo discutere con lei di cose importanti e non ho idea di dove sia.”

“Vostra figlia è qui.” disse il prete, senza pensarci: “Da stamattina presto...”

Caterina si accigliò. Non l'aveva vista entrando. Aveva sbirciato verso la tomba di Ottaviano Manfredi, sapendo che a volte vi si recava per pregare, ma non c'era.

“Siete sicuro che sia ancora qui?” domandò, mentre assieme al religioso usciva dalla canonica.

“Se non se n'è andata adesso, la troverete ancora sulla tomba del Barone, dove si è recata stamane e dove l'ho vista anche poco fa, suppongo.” le rivelò l'uomo.

La Sforza rimase un attimo interdetta. Le suonava strano pensare che sua figlia avesse passato ore sulla tomba di Giacomo. Sotto certi aspetti l'avrebbe trovato anche un gesto ipocrita, se non fosse arrivato da Bianca.

“Grazie.” si congedò la Leonessa e, deglutendo, lasciò una volta per tutte la canonica, riattraversò il coro e andò verso la cappella dei Feo.

 

“Quindi è vero?” chiese Raffaele, gli occhi fuori dalle orbite, una mano dalle dita secche strette attorno al braccio del suo servo.

Aveva dovuto aspettare fino a quell'ora per sapere qualcosa di più certo, ma adesso che sapeva la verità, si trovava a rimpiangere l'ignoranza.

“Sì, sì, Cardinale...” rispose il ragazzo, quasi spaventato dalla paura che trapelava dalla voce e dell'espressione del suo padrone: “Questa notte li hanno arrestati. Erano due fanti, dicono, ma vestiti da contadini.”

Sansoni Riario cercava di respirare il più normalmente possibile, ma più provava a riempire d'aria i polmoni, più si sentiva soffocare. Il salone del palazzo che apparteneva a suo cugino non gli sembrava più una galleria di opere d'arte e bellezza, ma una prigione.

“E poi? Parla!” incalzò, con frenesia, il servo.

Il giovane si passò la lingua sulle labbra, indeciso se chiedere o meno al porporato di allentare la stretta sul suo braccio, perché cominciava a fargli davvero male.

Quando Raffaele lo incitò di nuovo, però, il servo lasciò perdere il proprio dolore fisico e riferì tutto quello che aveva scoperto: “Portavano con loro dei veleni, dicono, di ogni tipo e della più svariata forma. Dicono che volessero avvelenare i vestiti del Santo Padre.”

Il Cardinale restò in silenzio, la mano che finalmente lasciava il servo e correva al crocifisso, mentre le labbra sottili si muovevano frenetiche, recitando preghiere, ma senza che una sola sillaba trovasse la forza di uscire dalla sua gola.

“Dicono che siano mandati da Madonna Sforza di Forlì, che lei volesse avvelenare il papa per fermarne il figlio.” continuò il ragazzo: “Li hanno portati subito a Castel Sant'Angelo, ma non si sa se abbiano confessato o meno.”

Raffaele immaginava che non si sarebbe mai saputo davvero cosa quei due sventurati avrebbero detto, passando sotto i ferri dei loro aguzzini. Forse, e poteva essere benissimo, non era nemmeno vero che avevano con loro dei veleni. Di certo non erano mandati da Caterina. Aveva imparato abbastanza su di lei da sapere che non si sarebbe mai affidata a un piano tanto stupido.

“Va bene... Va bene...” il Cardinale Sansoni Riario boccheggiava: “Va bene...”

Sotto gli occhi del suo servo, l'uomo iniziò a scolorire, mentre le più fantasiose e tremende ipotesi si affacciavano nella sua mente. Quando si vide appeso per i piedi a una finestra di Castel Sant'Angelo, serrò con forza gli occhi e cacciò un urlo disarticolato in cui incanalò buona parte della sua paura.

“Va a chiamare il Cardinale Orsini, in gran segreto – ordinò Raffaele, ringrazio il cielo del fatto che Giovanni Battista, dopo la sua pallida ambasciata a Milano presso il re dei francesi, fosse già rientrato a Roma – e digli che ho urgenza, grande urgenza di averlo qui a pranzo, ma con discrezione.”

Il ragazzo annuì e sparì subito, veloce come una saetta. Il Cardinale si portò il crocifisso alle labbra e poi, chiedendo agli altri domestici di non essere disturbato fino all'ora di pranzo, salvo l'arrivo di qualche ospite importante, andò alle casse di preziosi che teneva nascoste nel suo studiolo.

Sinceratosi della somma di cui disponeva, tornò nei suoi alloggi personali e, messosi sull'inginocchiatoio a mani giunte, cominciò a pregare per le vita dei due prigionieri a Castel Sant'Angelo, per quella di sua cugina Caterina e, soprattutto e senza vergogna, per la propria.

 

 
 
   
 
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