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Autore: Shadow writer    13/12/2019    5 recensioni
Un incontro causale, dopo tanti anni, porta Noah a guardare in faccia la vita che sta vivendo a chiedersi se, dopo tutto, ne sia valsa davvero la pena.
[Partecipante al contest “Cos'è una specie di magia?" indetto da Iamamorgenstern sul forum di EFP]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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VOLTI LUNGO LA STRADA



 
Take me back to London




Noah uscì dalla porta a vetri imprecando in mezzo ai denti e Londra lo accolse con una pioggerella impalpabile e fastidiosa. Ottobre era arrivato. 
Scorse la berlina nera con il suo autista parcheggiata sul ciglio della strada, aspettò che gli aprisse la portiera e, non appena si fu seduto sul sedile in pelle, sentì il suo cellulare vibrare. Era Jones, il suo assistente.
«Aggiornami» gli disse.
«Sì signore. Ha chiamato l’avvocato per il divorzio. Ho fissato l’appuntamento domani alle 17.»
Noah alzò gli occhi al cielo: «Domani? Non sono pronto ad affrontarla così presto.»
Jones esitò e quando parlò usò quel tono che sceglieva quando doveva dire qualcosa di ragionevole, ma non voleva irritare il suo capo. Noah riusciva ad immaginarselo sfregarsi nervosamente le mani.
«Signor Bergstörm, quello è l’unico momento libero che ha nelle prossime settimane.»
Lui sospirò: «Lo so. Vai avanti.»
«La DCA si è lamentata della lentezza del nostro servizio. Mi sono scusato e ho assicurato che la prossima volta sarà lei in persona ad occuparsi di loro.» 
«Hai fatto bene. Chi era assegnato a loro?»
«Miller.»
Noah appoggiò il capo alla testiera di pelle, socchiudendo gli occhi. Rimanere tutta la mattina in ufficio non faceva bene alla sua cervicale.
«Licenzialo.»
«Ma, signor Bergstörm…» Jones era stato colto alla sprovvista, «ha appena avuto il suo secondo figlio e…»
«Potrebbe avere cento figli a carico per quel che mi importa» replicò Noah secco. «È già la seconda volta che dei clienti si lamentano di lui.»
Jones tacque per un istante, poi si rassegnò e proseguì: «La conferenza stampa di venerdì è stata posticipata alle undici.»
«Alle undici? Ma ho un appuntamento con…»
«Con la signora Tate, sì lo so» lo anticipò l’altro. «La signora ha accettato di incontrarla dopo la riunione alle diciannove dello stesso giorno.»
Mentre Jones continuava a elencargli i suoi impegni, Noah lanciò uno sguardo fuori dai finestrini oscurati.
Come al solito, neanche la pioggia impediva ai turisti di girovagare per le strade del centro simili a mandrie di animali. I suoi occhi scivolarono sui quei gruppi grigi come il cielo quel giorno. Lo sguardo dell’uomo fu attratto da una figura che spiccava tra le altre. Era una ragazza alta, con i lunghi capelli color miele che ondeggiavano al ritmo delle sue ampie falcate. Il maglioncino giallo che indossava e la sua altezza la distinguevano dal resto della folla.
«Accosta» disse Noah all’autista. «Ora. Jones ti richiamo.»
Chiuse la chiamata e scese dall’auto ancora prima che quella si fosse completamente fermata. Cercò la ragazza e non ci mise molo a individuarla. Era rimasta più indietro di lui e Noah le andò incontro.
«Belle!» chiamò.
Lei si guardò attorno, confusa, fino a che non lo trovò, fermo davanti a lei. L’uomo la vide rallentare, scrutarlo e infine i suoi occhi chiari si sgranarono, pieni di sorpresa. Erano ormai a pochi passi di distanza.
«Noah?» chiese incerta.
Lui annuì, sorridendo.
La ragazza aveva un’espressione tra l’incredulo e l’estasiato.
«Tu sei…Dio, sei davvero tu?» 
Belle pareva incapace di articolare una frase. Sbuffò, ridendo, e prese un respiro profondo. Lui notò che il suo inglese aveva ancora quella cadenza musicale che ricordava.
«Scusami, solo che…da quanti anni non ci vediamo?»
Noah sorrise: «Cinque anni».
Se possibile, lei sgranò ancora di più gli occhi.
«Be’, guardati, come sei cambiato» gli disse, indicando il completo di sartoria che l’uomo indossava.
«Anche tu» replicò lui.
Quando si erano conosciuti, cinque anni prima, Belle era una diciannovenne alta e magra, con un caschetto di capelli chiari e una predilezione per vestiti che non la facevano passare inosservata. Qualcosa era rimasto lo stesso.
Noah si guardò attorno.
«Ti va di bere qualcosa?»
Belle lanciò un’occhiata al caffè vicino a loro e lo sondò con lo sguardo. Erano nel centro della metropoli e quello sembrava il tipo di locale frequentato che chi poteva permettersi un ufficio in cima allo Shard.
Noah anticipò qualsiasi replica: «Offro io.»
Lei sorrise: «Questo posto va bene, ma non mi offrirai nulla.»
Entrarono nel caffè e presero posto su dei divanetti color carta da zucchero. L’interno era luminoso, arredato con colori chiari e lo spazio era moltiplicato dai numerosi specchi sulle pareti. Metà della sala era già occupata, ma il chiacchiericcio era solo un suono soffuso di sottofondo.
«Cosa fai a Londra?» domandò Belle, sollevando le maniche del maglioncino. L’interno era ben riscaldato e le guance della ragazza si erano già arrossate.
«Ci vivo» rispose Noah, «e lavoro.»
Belle ammiccò: «Ne hai fatta di strada, eh?»
Si erano conosciuti ad una scuola di inglese. Noah ci era andato perché aveva bisogno di un inglese fluente per potersi laureare, Belle voleva viaggiare per il mondo e aveva bisogno di una lingua franca. Erano capitati nella stessa classe, anche se Belle riusciva a sostenere le conversazioni più disparate, mentre lui incespicava ancora sulle indicazioni stradali. Faticare per ottenere qualcosa non gli capitava spesso e non aveva mai imparato ad applicarsi allo studio.
«Lavori ancora con i numeri?» gli domandò la ragazza. Aveva legato i capelli in uno chignon scomposto e alcune ciocce ribelle le incorniciavano il volto accaldato.
Lui annuì: «È quello che ci si aspetta con una laurea in Economia.»
Belle storse il naso.
In quel momento arrivò il cameriere per prendere le loro ordinazioni.
«Hai già pranzato?» domandò Noah alla ragazza. Lei scosse il capo. 
«Allora mangiamo qualcosa. Per me un toast classico.»
Belle ordinò il pranzo a sua volta.
«Quanto sei autoritario» rise poi la ragazza.
«Sono il capo ora, devo esserlo.»
Se lei ne fu impressionata non lo diede a vedere. Noah si chiese cosa pensasse dietro a quei suoi occhi cerulei. Stava scrutando il suo volto cercando le differenze con il ricordo che aveva di lui? Stava vedendo quella ruga vicino agli occhi? Le occhiaie più pronunciate del solito? Il velo di barba chiara?
Sul viso di lei si aprì un sorriso luminoso.
«E tu?» le chiese. «Non volevi fare la scrittrice?»
Lei assunse un’espressione imbarazzata: «Si, be’, voglio ancora farlo, ma per il momento non posso vivere di quello. Sono venuta a Londra per cercare ispirazione.»
«E come ti mantieni?»
Belle sbatté le palpebre e sollevò le sopracciglia. Noah si accorse della sua reazione e fece una smorfia: «Scusa, deformazione professionale.»
Lei si strinse nelle spalle: «Nessun problema. Comunque, vivo con una vecchia coppia e li aiuto nelle faccende domestiche.»
Noah non replicò. Quando aveva deciso di trasferirsi per tre mesi a Londra per studiare inglese, suo padre aveva pagato senza fare una piega. Belle invece si era pagata il viaggio con i risparmi messi da parte da lavoretti e compleanni. Noah glielo aveva sentito confessare ad un’amica nel giardino del college.
Belle non lo aveva colpito, non la prima volta che l’aveva vista. Quando lei era arrivata, Noah era alla sua quarta settimana e credeva di aver già visto abbastanza di Londra per annoiarsi nei mesi seguenti. Poi, per caso, era stati messi in coppia insieme. Aveva sei anni meno di lui e veniva dall’altro capo dell’Europa: questo bastava a Noah per trovare una distanza tra loro. Lavorando con lei, però, aveva scoperto che Belle era tranquilla e riservata, fino a che non si cominciava a parlare di qualcosa che la entusiasmava: allora i suoi occhi si accendevano e lei diventava travolgente come un uragano. Le piacevano l’arte, le piccole cose e le passeggiate notturne.
La sua allegria le conquistò le simpatie degli altri studenti. Dopo le lezioni si incontravano e girovagavano per Londra. Noah scoprì luoghi in cui non era mai stato nelle settimane precedenti né nei suoi altri viaggi a Londra. Si perdevano per le notti della città e, trasfigurati dal buio, potevano essere chi avevano paura di essere nel luogo da cui venivano. Erano liberi e felici. L’idealismo rinfrescante di Belle aveva persuaso Noah che il mondo fosse la sua ostrica. Forse anche troppo. Quando la ragazza se ne era andata, per lui era stato come piombare bruscamente nella realtà dopo un bel sogno. Non si erano più rivisti da allora.
«Mangi solo quello?» domandò Belle guardando il toast che il cameriere aveva appena portato.
Noah lanciò un’occhiata al piatto e scrollò le spalle: «È fin troppo. Di solito non ho tempo di pranzare.»
Belle gli rivolse uno sguardo scandalizzato: «Ne vale davvero la pena?»
Un profondo senso di disperazione prese Noah quando si accorse di non saperle rispondere.
Mentre mangiavano si aggiornarono a vicenda su quello che era successo in quei cinque anni. Belle era andata all’università, l’aveva finita un anno in anticipo e aveva cominciato a viaggiare. Aveva deciso di fermarsi a Londra fino a che non avesse avuto abbastanza soldi per viaggiare di nuovo. Il suo sogno era un viaggio on the road in qualche posto lontano da casa.
Noah le raccontò di cosa aveva fatto dopo la laurea. Si era trasferito quasi subito a Londra. Prima aveva lavorato per un amico di suo padre, poi l’azienda di famiglia aveva aperto un ufficio estero nella capitale inglese e in poco tempo Noah ne era diventato il capo. Non si preoccupò neanche di nascondere quanto la sua carriera fosse uno sputo alla meritocrazia. Si assicurò però di non parlare del matrimonio disastroso durato a malapena due anni. Il viso pulito e innocente di Belle, il suo sorriso, i suoi occhi brillanti gli mettevano in luce tutti i propri difetti.
Nonostante le proteste della ragazza, riuscì a offrirle il pranzo. Quando tornarono sulla strada, la pioggia era scomparsa e un sole pallido aveva fatto capolino tra le nuvole. Noah vide Belle guardare verso di lui con un sorriso gentile dipinto sul volto. Lei sapeva che lui era impegnato, gliel’aveva detto e bastava guardarlo in faccia per capire che non era neanche lontanamente vicino alle otto ore di sonno. Era un uomo occupato. La ragazza stava solo cercando un modo gentile per lasciarlo tornare alle sue faccende senza rubargli altro tempo.
Noah guardò il suo volto dolce, con le guance ancora arrossate e i capelli nuovamente sciolti sulle spalle. Improvvisamente l’idea di lasciarla andare gli fece girare la testa.
«Hai impegni?» le chiese, sorprendendo entrambi.
Belle corrugò la fronte e scosse il capo. «Non fino a stasera.»
Lui si rilassò: «Voglio andare in un posto.»
Noah ricordava che il suo autista stava ancora aspettando poco distante, ma gli mandò un messaggio per congedarlo e si diresse insieme a Belle verso la stazione della metropolitana. Non poteva fare un viaggio nei ricordi su quella berlina nera. Doveva tornare a chi era cinque anni prima.
Con sei fermate raggiunsero la Overground e poi, sfrecciando sotto il cielo chiaro, dopo altre quattro fermate scesero ad Hampstead Heath. Non appena Belle lesse il nome della stazione, il suo viso si illuminò. I suoi occhi brillavano e i suoi passi sembravano quasi dei saltelli.
I ricordi erano ancora vividi nella mente di entrambi. Hampstead Heath era un grande parco nel nord di Londra e, dalla cima della sua collina, si riuscivano a scorgere i grandi grattacieli della città. Quante sere avevano trascorso su quella sommità, scrutando il paesaggio e le luci della notte. In mezzo al parco scuro, c’erano solo loro, le loro risate e i loro discorsi in un inglese traballante.
Mentre salivano sul sentiero che portava alla cima, Noah si stupì nel constatare che ricordava ancora tutte le scorciatoie nella boscaglia. Nonostante gli anni a Londra, non era più tornato lassù dopo che tutti se n’erano andati. Aveva paura del silenzio assordante che vi avrebbe trovato e della terrificante desolazione che lo avrebbe circondato senza tutte quelle risate attorno.
Ora Belle camminava al suo fianco, guardandosi attorno affascinata, quasi inebriata da quello che vedeva.
Benché l’estate fosse ormai finita, il parco era ancora affollato e quando arrivarono sulla cima, trovarono tutte le panchine occupate. Senza pensarci due volte, Belle prese posto sull’erba e Noah la imitò. 
“Fanculo il completo” pensò.
Davanti a loro, incorniciato dagli alberi più alti, si apriva il panorama della City. Durante il giorno, non era altro che un insieme di grattacieli più grigi del cielo, ma entrambi avevano stampata negli occhi della mente la stessa scena di notte. Non avevano bisogno di parlare per sintonizzarsi sugli stessi pensieri. I ricordi fluivano coinvolgendo i loro sensi: il vetro della bottiglia di birra sulle loro labbra, il profumo dell’erba umida tutt’intorno, la musica soffusa di qualche cassa portatile.
Noah si voltò verso la ragazza e lei gli sorrise.
Cinque anni prima, si era accorto che Belle aveva una cotta per lui. Prima ancora che il loro amico francese glielo dicesse, ne aveva avuto il sospetto dal modo in cui lei lo guardava, da come gli parlava, da come le sue guance si arrossavano se per caso si sfioravano.
Lo aveva ignorato a lungo, incapace di spiegarsi come ad una come lei, incarnazione dell’entusiasmo e della gioia di vivere, della voglia di ingoiare il mondo tutto intero, potesse piacere un noioso studente di economia, freddo come le terre scandinave da cui veniva.
E poi avevano sei anni di differenza, lui era prossimo alla laurea e al lavoro e a una famiglia. Belle parlava di fare i bagagli e partire, senza scadenze, senza piani. La ragazza gli stava simpatica, ma Noah si assicurò di non darle mai l’impressione sbagliata. Essere distaccato, d’altro canto, gli veniva naturale. Dopo che Belle se ne andò, la cosa più triste fu constatare quanto lei gli mancasse. Era rimasta un mese a Londra e in quei trenta giorni Noah si era sentito più vivo che mai. 
Nel suo completo splendente, l’uomo continuò a guardare Belle, chiedendosi quali fossero ora i sentimenti della ragazza nei suoi confronti. C’era ancora qualcosa che l’attirava verso di lui? E, soprattutto, lui in cosa sperava?
«Vorrei poter tornare a Londra» le disse, allungando le gambe davanti a sé.
Belle si voltò a guardarlo, con la fronte corrugata.
«Cosa stai dicendo? Noi siamo a Londra.»
Noah scosse il capo, con una smorfia.
«Non sto parlando di questa città grigia, ma di Londra, la nostra Londra. Quella che assaporavamo ogni notte, quella di cui coglievamo ogni attimo. Non voglio gli uffici splendenti, voglio le strade piene di musica e i parchi vivi di gente che balla.»
Belle rise e ribaltò il capo indietro, facendo ondeggiare i capelli sciolti sulla schiena.
«Noah» gli disse, accennando con un gesto al paesaggio, «guarda davanti a te. La città non è cambiata.»
Lui fece una smorfia. Quelle parole gli provocarono dolore perché sapeva quale fosse la soluzione che Belle aveva dato al suo dilemma. Londra non era cambiata, ma lui sì.
«Forza».
Belle si alzò in piedi e gli tese una mano.
«Oggi mi hai portata qui e questo significa che c’è ancora una scintilla dentro di te. Non è troppo tardi.»
Dal basso, Noah la guardò stagliarsi contro il cielo, solenne come una statua greca. Era bella di una bellezza pura e naturale.
«Andiamo a riprenderci Londra, cosa ne dici?» 
Noah ci pensò un attimo. Quella frase implicava molto più di quanto sembrasse. 
Studiò ancora per un istante Belle, poi sorrise e accettò la sua mano.
 
   
 
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