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Autore: lisitella    14/12/2019    1 recensioni
Vent'anni prima che Dawn Salisbury giungesse al castello dio Malmaynes, due giovani donne erano state orrendamente uccise da colui che la memoria popolare ricorsa come "la Belva di Malmaynes". L'assassino è morto da tempo, ma chi l'ha conosciuto non può dimenticare le sue ultime parole di minaccia e di vendetta, pronunciate durante il processo a suo carico. Dawn non conosce le tragiche vicende, Malmaynes è solo la dimora del poeta Charles Winters, un gentiluomo che ammira e che l'affascina...
Genere: Drammatico, Mistero, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 1    


 
 
Arrivai a Malmaynes una sera di Settembre del 1856, piena di timore e, nello stesso tempo, di eccitazione per la nuova vita che mi aspettava.

Da tredici anni avevo perso la mamma, uccisa insieme alle mie sorelle Carola e Rebecca, dal colera del 1842. Di mio padre conservavo appena il ricordo, poiché era morto quando io ero piccina. Ad occuparsi di me, era stato un mio zio, Salisbury Troy, che abitava in un paesino poco distante da St. Errol. Era un uomo buono e gentile d’animo, ma aveva avuto  scarso successo come avvocato, tanto che aveva abbandonato presto la professione ed era diventato, purtroppo, dedito all’alcool. Una passione questa che, certo, non lo aveva aiutato a far carriera.

E sebbene zio Troy fosse sempre stato comprensivo con me, un vero padre, io, ormai ventiquattrenne, sentivo il desiderio di volare un poco con le mie ali ed ero stanca della vita di paese. Avevo una buonissima cultura, grazie alle lunghe conversazioni con lui, e sapevo anche stenografare perché un inverno, qualche anno prima, mi ero iscritta a un corso tenuto nella borgata di St Errol da alcuni insegnanti volenterosi e abili. E proprio il fatto di essere stenografa, dovevo l’invito che mi era stato rivolto di recarmi a Malmaynes.

Da diverso tempo ero in corrispondenza con un famoso poeta di lingua inglese, Charles Winters. Gli avevo scritto la prima lettera con l’entusiasmo di una  ragazza appassionata di letteratura e d’arte, ma costretta a vivere in un ambiente ristretto, dove non aveva molte occasioni di soddisfare le sue tendenze artistiche. Ed ero rimasta estasiata nel ricevere una risposta, scritta dal segretario, ma firmata dal poeta in persona: voleva ringraziarmi per l’ammirazione che gli avevo espresso e voleva anche comunicarmi che avrei presto ricevuto, in dono, il suo ultimo libro “Riflessioni e Rimembranze.” La lettera veniva dal Belgio e doveva segnare l’inizio di un costante, se pure non fitto, scambio di missive.
Con sorpresa e gioia infatti, nell’estate di quell’anno, me ne era giunta un’altra nella quale Charles Winters mi domandava se sarei stata disposta a lasciare almeno per qualche tempo la casa dello zio, e trasferirmi presso di lui in qualità di segretaria. Il suo attuale segretario, Jean Akphonse, un belga bilingue, non poteva lasciare Bruxelles a causa di impegni familiari, mentre lui aveva deciso di stabilirsi in Inghilterra, in una proprietà di nome Malmaynes, che aveva recentemente ereditato e che si trovava sulla sponda del mare di Cornovaglia.

Avevo accettato senza esitazioni e devo dire che il mio rimorso nell’abbandonare zio Troy era stato raddolcito dalla serenità con cui la notizia della mia decisione era stata accolta.
«O presto o tardi cara Dawn ,» mi aveva detto, dovevi pur andartene, o sposandoti, o intraprendendo un lavoro.» Poi, pensieroso, aveva aggiunto: «Malmaynes… Non ci sono mai stato, ma ricordo di aver letto diverse cose al riguardo. Credo fosse nel 1835 che a Falmouth venne dibattuta una causa concernente proprio certi avvenimenti che si erano svolti a St Gawes, poco lontano da Malmaynes.» Si era alzato, era andato a prendere da uno scaffale della biblioteca un’annata della “Cronaca Giudiziaria” e aveva cominciato a sfogliare le vecchie pagine ingiallite.

«Oh, zio non disturbarti! Non occorre proprio!» avevo esclamato, ma lui non mi aveva dato retta. Aveva continuato a cercare sin che aveva trovato la pagina giusta.

«Ecco! Ecco qui! “Si è concluso oggi, dinnanzi al giudice Randall, il processo a carico Dustin Kinney, imputato di aver ucciso due donne Ruth Rannis e Emily Witham, nella parrocchia di St Gawes. L’omicida, non avendo ottenuto la clemenza invocata per insanità mentale dal suo avvocato, sconterà i suoi atroci delitti con la morte.” «Ecco,» aveva concluso lo zio, «la lugubre fine del delinquente che la fantasia popolare aveva battezzato “Belva di Malmaynes”.

«Perché, poi , Malmaynes?» avevo domandato.

«Non so. Fu un giornalista a coniare l’appellativo e la “Belva di Malmaynes” divenne celebre sotto quel nome. Morì circa ventidue anni fa, ma non sulla forca come aveva decretato il giudice. No, la sua fine fu misteriosa e insieme atroce: riuscì a fuggire dal carcere, ma venne  raggiunto presso il luogo che era stato teatro dei suoi delitti, la parrocchia di St. Gawes. Allora, piuttosto di consegnarsi alla giustizia, corse verso il dirupo a strapiombo sul mare, e si gettò nel vuoto, sfracellandosi sulla scogliera, proprio sotto Malmaines. Senza dubbio questo contribuì ad associare ancor più strettamente il nome della “Belva” con quello della proprietà di Malmaynes.

Ora, appena giunta a Malmaynes, ricordai quelle parole e provai un brivido di gelo. Tra buoni e lampi, sotto un diluvio, mi affacciai al finestrino della carrozza e vidi una lunga scala di pietra che si arrampicava verso la casa, completamente buia, tranne per una finestra illuminata. Il cocchiere prese i miei bagagli e con coraggio sfidò la salita, raggiungendo così una porta di quercia, annerita dal tempo, tempestata di grossi chiodi e rinforzata da sbarre di ferro. Il campanello non riecheggiò nelle nostre orecchie: di lì a un minuto, però, nella porta si aprì una finestrella e apparve una testa di donna, illuminata dalla luce di una candela.

«Buonasera,» dissi. «Sono Dawn Salisbury.»

«Buona sera.»

La donna mi fece entrare e mi guidò lungo un corridoio dalle pareti grigie sino a uno stanzone in cui c’era una tavola apparecchiata per una persona. Poi accese il candelabro a sei braccia in mezzo alla tavola, e finalmente potei vederla: doveva essere sula sessantina, il volto era emaciato e cinereo e gli occhi profondamente infossati nelle orbite.

Dopo avermi squadrato, salendo con lo sguardo, dai piedi al viso, disse:
«Sono la governante. Il signor Winters tornerà domani: è andato a Truro per affari. Posso servirle subito cena gradirebbe del salmone affumicato e una tazza di te?»

Annuii e lei scomparve, probabilmente diretta in cucina.

Dopo che anche il cocchiere, guardandosi attorno con rispetto, mi ebbe consegnato i bagagli e se ne fu andato, restai sola alcuni minuti. Esplorai il nuovo ambiente, sontuoso, con un soffitto splendido di legno, intarsiato e dorato, poi mi avvicinai alle finestre sul lato opposto della stanza: trattenni il respiro per il panorama impressionante che mi si presentò. Sotto di me, ai piedi di un’alta scogliera, le onde del mare flagellavano le rocce, battute dal vento e dalla pioggia.

A tavola mi servirono la governante e suo marito, ritti alla mia destra e alla mia sinistra.
«Dev’essere un gran cambiamento passare da Bruxelles a un luogo come questo, dissi a un certo momento. «Si, trova bene il signore qui?»

«Benissimo,» rispose la governante, asciutta. «È una casa grandissima, ma abbastanza facile da tenere in ordine, oltre tutto.»

«Ci saranno molti domestici,» osservai.

«Oh, no! Soltanto io e mio marito… ci chiamiamo, Grimm, signorina. E poi c’è il giardiniere.»

Guardai il piatto che avevo davanti: c’era l’impronta grassa di un dito sull’orlo.
Macchinalmente respinsi il cibo e, dichiarando di non aver appetito, mangiai pane e burro, insieme con il tè.


Mentre la governante rimase ferma al mio fianco, il marito sparecchiò prontamente la tavola. Portava gli occhiali e aveva l’aria distinta: ma gli tremavano le mani e dall’alito era facile capire che doveva aver bevuto alcool.  Appena furono usciti, poi, udii la voce rabbiosa di lei:  «Avanti, corri e metti tutto a posto! Non vogliamo aver fastidi né da questa né da altri. Possibile che non mi debba mai fidare di te?»

Poco dopo raggiunsi la mia camera, al secondo piano. C’era il fuoco acceso nel caminetto e il tepore mi ristorò dopo il freddo dei corridoi e delle scale. Ero sfinita dal viaggio e scoprii con gioia che il letto aveva lenzuola di lino, morbide coperte e un soffice materasso. Sotto le finestre, in basso, il mare continuava a battere contro gli scogli, ma ero sicura che avrei dormito profondamente, nonostante quel fragore, che tanta era la mia stanchezza.

Con la candela sul tavolino, presi un libro per leggere qualche verso prima di addormentarmi. Avevo appena scorso due righe quando, al di sopra del lontano muggito del mare, più forte degli scricchiolii della vecchia casa, attraverso+ porte e corridoi, mi giunse un suono che mi fece tremare dallo spavento.

Una risata diabolica, inumana, echeggiò nella casa. Era squillante come quella di una donna o di un ragazzo, ma con un’inflessione così disperata da agghiacciare il sangue nelle vene. Corsi alla porta, la spalancai impetuosamente e indietreggiai subito, udendo la risata avvicinarsi. Richiusi la porta, poi restai a lungo ferma, addossata alla parete, paralizzata dall’orrore. Solo dopo qualche minuto trovai l’energia necessaria per chiudere i due chiavistelli e ritornarmene a letto.

Con il capo nascosto sotto le coperte, trascorsi la notte più solitaria e terribile della mia vita, finché verso l’alba riuscii a prendere sonno.                                             
                                                        

   
 
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