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Autore: Fannie Fiffi    15/12/2019    1 recensioni
A volte l’idea di avere una tazza di tè fra le mani è talmente rassicurante, talmente solida, da non lasciare spazio ad altro. Neanche all’atto di avere effettivamente una tazza di tè fra le mani.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Perfect Symmetry



Seduta su una sedia più comoda di quanto vorrebbe, circondata dal placido e soltanto occasionalmente insistente rumore di sottofondo delle voci, mentre stringe una tazza fumante di qualcosa che è un tè o una tisana – non ha mai pienamente capito la differenza, o non si è mai sforzata abbastanza di impararla – guarda fuori dalla finestra.
È domenica, ma le automobili ancora viaggiano per le strade scivolose di umidità. La pioggia scroscia sui vetri delle finestre del locale.
No, in realtà non piove.
Potrebbe piovere, e questo renderebbe il momento più sdolcinatamente malinconico di quanto sia.
In realtà non ha niente tra le mani.
Le persone non chiacchierano.
Nessuno parla più, al giorno d’oggi. Quando lo fa, nessuno ascolta. Se si ascoltano, c’è un ricavo dietro. Probabilmente soldi. Probabilmente sesso. Forme diverse di potere, ma comunque potere.
Fra le mani non ha niente. A volte pensa che il pensiero di avere una tazza di tè fra le mani sia sufficiente, e che non debba necessariamente avere davvero una tazza di tè fra le mani. O tisana.
Il locale non ha luci calde, ma una penombra che sa di solitudine.
Ma nessuno è mai solo veramente. No, non guardate in alto. Guardate in basso, nel palmo della mano. Sì, oppure nella tasca dei pantaloni. Il telefono. Esattamente. Toglietelo, donatevi all’arte.
Donatevi all’arte. Che razza di stronzata. Dove l’ha letto? Un cartellone, una pubblicità online, un’immagine sul piccolo monitor della metropolitana; non lo ricorda più. Tutto scorre così velocemente: fotogrammi, flash, colori, forme, tutto in un battito di ciglia, impellente, veloce, recalcitrante, inarrestabile, multiforme, cangiante, soffocante.
Guarda lo schermo del telefono illuminarsi con un certo ritmo regolare, perciò lo rovescia sul tavolo. Altri messaggi continuano ad arrivare, lei continua ad ignorarli.
Poi il suo sguardo corre di nuovo fuori.
Una tazza di tè? Le chiede una voce.
Lei non risponde.
Ehm.
Lei non risponde.
“Signorina, posso portarle una tazza di tè?”
Oh, non lo stava immaginando. È reale. È una persona reale che le sta rivolgendo la parola.
A volte l’idea di avere una tazza di tè fra le mani è talmente rassicurante, talmente solida, da non lasciare spazio ad altro. Neanche all’atto di avere effettivamente una tazza di tè fra le mani.
“No, grazie.” Mormora con un sorriso e un’occhiata di sfuggita.
Il ragazzo le volta le spalle. Riesce ad allontanarsi di un metro, forse meno.
“A dire il vero, sì. La gradirei. Grazie.”
Le persone non sanno più dire grazie. Per favore, quello riesce meglio. Ma grazie. Oh, com’è difficile.
Grazie per avermi riaccompagnato a casa.
Grazie per essere venuto.
Grazie di avermi ascoltato.
Grazie di avermi messo al mondo, anche se non te l’ho mai chiesto, anche se è la cosa peggiore che potessi mai farmi, papà. Ops.
Le tornano in mente le parole che ha detto poco prima.
Quanto vorrebbe incolpare i suoi genitori. Quanto vorrebbe imputar loro la colpa di essere quello che è. Quanto vorrebbe disonorarli con l’accusa di essere stati dei negligenti alcolizzati, o dei violenti gridatori, o dei pessimi e disattenti sordo-muti. Dei cagasotto emotivi. Degli stitici emotivi. Dei tremendi, colpevoli, spregevoli genitori.
La verità è che la sua è una famiglia normale, come tante altre. Nessun trauma particolare. Qualche funerale, qualche matrimonio, qualche disputa, qualche piccolo battibecco, qualche assenza, qualche lontano cugino bastardo, qualche vecchia prozia disattenta.
Nessuna grande tragedia.
Nessuna patetica, inutile, travolgente, incandescente tragedia cui attribuire alcunché. Nessun divorzio. Niente povertà eccessiva – se non quella durata poco più di un anno, quella che ancora le fa battere il cuore un po’ più forte davanti alla busta di carta di una bolletta – niente abusi.
Si passa la mano tra i capelli, sono sporchi. Non sporchi da dover indossare un cappello per nascondere la cute grassa, ma sufficientemente sporchi. Sporchi da dover fare la doccia una volta arrivata a casa.
I suoi genitori sono normali. Più o meno con le stesse disfunzioni di tutti gli altri.
Sua madre ha avuto difficoltà ad alzarsi dal letto, di tanto in tanto, ma sono passati anni e acconciature a sufficienza da poterlo ritenere un momento concluso. Suo padre, il suo chiacchierone, rumoroso, infaticabile padre non ha parlato per tre giorni di fila quando suo fratello è morto, ma è andato tutto bene.
Vorrebbe, a questo punto, poter incolpare i ragazzi della sua vita.
Quel ragazzo indifferente al liceo.
Quel finto principe azzurro dopo di lui.
Lui.
La realtà, la triste, inconcludente, banale, assolutamente mediocre realtà è che non è successo nulla di che. Nessuno l’ha amata. Nessuno l’ha desiderata tanto da voler restare. Nessuna storia travagliata, nessun amore travolgente, nessun sentimento irrevocabilmente forte da corsa all’aeroporto, discorso sotto la pioggia o apparizione inaspettata sotto il portone di casa.
Neanche loro hanno colpe. Hanno sbagliato, ma forse non più di quanto abbia sbagliato lei.
Il colpevole va trovato altrove.
Proprio in quel momento, il cameriere arriva con la famigerata tazza di tè.
Vuoi essere tu il mio colpevole?
“Ecco qui.”
Le sorride. Le sorride in quella maniera vuota in cui si è costretti a sorridere a qualcuno per poter avere un pasto caldo ogni giorno e un tetto sopra la testa. Ma, alla fine dei conti, è sempre un sorriso, e lei ricambia.
Gli rende i soldi. “Grazie”.
Dici troppe volte grazie, le ha detto spesso il finto principe azzurro. Ora è suo amico. C’è voluto tanto, ma forse è uno dei pochi amici sinceri che le sono rimasti.
Forse sono loro. Eccoli, i colpevoli. Quelle stupide empie oche senza interessi particolari o personalità sufficientemente scoppiettanti da meritarsi la sua preziosa stima.
Sono loro le colpevoli?
Tutti soffrono. Non puoi incolpare gli altri. Non puoi. Non puoi aspettarti che qualcuno raccolga la tua merda per te. È tua. È solo tua, nel bene e nel male.
No, non sono loro.
Stringe la tazza calda e fumante con entrambe le mani, ma non l’avvicina alla bocca. Neanche al naso, per sentirne il profumo.
Potrebbero essere i professori, la scuola, il sistema scolastico e accademico di cui per decenni ha fatto parte? Potrebbero essere loro i maledetti, fottuti, tremendi e sciatti responsabili?
Non darti troppe arie, dolcezza. Eri solo un numero in mezzo a un miliardo di altri numeri.
Quella sconosciuta che è appena entrata dalla porta principale, forse?
Il paese in cui è nata?
Lo Stato?
L’industria della moda?
L’industria porno?
La Chiesa?
Si volta di nuovo verso la finestra. Non riesce a vedere altro che il riflesso del proprio volto.
Abbassa lo sguardo verso la tazza piena e fumante che stringe fra le mani. La stringe un’ultima volta.
Afferra il telefono, lo spinge in fondo alla tasca del cappotto senza prestare attenzione allo schermo, fa fastidiosamente strisciare le gambe della sedia contro il pavimento in legno.
Poi si alza.
Cammina verso la porta del locale.
Se ne va.
La tazza fumante resta a guardarla sfilare davanti a quella stessa finestra e poi sparire.
 
 
 
  
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