CINQUE
Contai cinque
autobloccanti e poi saltai su quello giusto.
Poi lo feci ancora. Alla terza volta finii contro un bambino che
mangiava il
gelato e si sporcò la camicia: sua madre mi
guardò male e poi sgridò il figlio.
Li guardai e poi
mi girai per contare ancora. Uno. Due. Tre.
Quattro. Cinque. Salto.
Quando arrivai
davanti alla porta della tabaccheria l’entrata
era chiusa e io non ero abbastanza vicino per aprirla. Guardai gli
autobloccanti per terra e li contai: quello su cui avrei dovuto saltare
per
poter aprire la porta con facilità era il quarto nella fila
davanti a me. Ma il
quattro era il male. Non andava bene. Il cinque sì, il
cinque era un numero
buono. Era tondo e sorridente e io lo adoravo. Mi faceva sentire al
sicuro e
sapevo che con lui tutto sarebbe andato bene.
Il quattro
invece era brutto, con linee dritte e dure, non
sorrideva mai.
Se avessi
saltato sulla quinta mattonella non sarei riuscito
ad aprire la porta, ma niente sarebbe mai riuscito a farmi saltare
sulla
quarta. Niente. Poteva succedere qualcosa di brutto se lo avessi fatto.
Anche
qualcosa di molto brutto.
Mi guardai
intorno: non c’era nessuno. Possibile che nessuno
avesse bisogno di andare in tabaccheria? Vendevano le sigarette,
lì dentro. Le
vendevano in pacchetti da venti che è un numero divisibile
per cinque. Ma è
anche divisibile per quattro, infatti io non fumavo.
Aspettai davanti
alla porta della tabaccheria finché un uomo
mi passò vicino e aprì la porta per entrare.
Prima che la porta si richiudesse
dietro di lui, saltai sul quinto autobloccante e poi saltai dentro il
negozio.
Per fortuna era
un negozio che conoscevo e sapevo che per
terra non ci sarebbero state mattonelle. Camminai fino al bancone e
guardai
l’espositore di caramelle: i miei dolci preferiti, le
Goleador alla liquirizia,
erano caramelle confezionate una per una in una scatola di cartone.
Notai che
erano quasi finite, infatti ce n’erano solo cinque. Sorrisi:
cinque andavano
bene.
Purtroppo la
mano di un bambino mi precedette e ne prese due,
posandole sul bancone insieme a una moneta da venti centesimi. Cavolo!
Mi aveva
rubato due caramelle!
Guardai
sconsolato il bambino che usciva dal negozio
mangiando una liquirizia e tornai a guardare la scatola. Cavolo.
Cavolo. Volevo
una caramella. No, ne volevo cinque.
“Vuole
delle caramelle?” mi chiese il tabaccaio dietro il
bancone. Annuii e gli chiesi se ne avesse anche un’altra
scatola da aprire. Lui
guardò quella mezza vuota e mi disse che sarebbe andato a
prenderla.
Quando
tornò, aprì la scatola nuova e prese anche quella
vecchia, per sostituirle. “Quante ne voleva?” mi
domandò. Io gli feci vedere la
mano aperta e lui annuì, allineando le Goleador sul vetro
del bancone. Quando
ne aggiunse un’altra e sul bancone ce ne furono quattro, io
guardai da un’altra
parte e, finché non sentii la quinta caramella raggiungere
le altre, non posai
lo sguardo sul bancone. Non volevo vederne quattro.
Quando tutte e
cinque furono sul bancone chiesi anche un
biglietto per l’autobus: dovevo andare a trovare mia madre e
per farlo dovevo
prendere i mezzi. Purtroppo non avrei preso il numero cinque,
perché non passava
dalla strada dove abitavo io, ma avrei preso il dieci barrato, che
andava bene,
perché il dieci era come un doppio cinque. Io lo avrei
diviso e i due cinque avrebbero
sorriso.
Chiesi di non
darmi il primo biglietto del blocchetto e il tabaccaio
mi guardò stranito. Gli spiegai allora di contare cinque
biglietti e di darmi
il quinto, ma lui non capì.
La donna anziana
dietro al bancone si avvicinò e prese il
blocchetto: lei mi conosceva e già sapeva cosa volevo.
Spiegò a quello che
sembrava suo figlio che io volevo il quinto biglietto del blocchetto e
iniziò a
girarli uno per uno contando fino a cinque. Quando arrivò al
numero che avevo
richiesto, quello giusto, lo staccò e mi sorrise,
porgendomelo.
Mentre pagavo
sentii che spiegava al giovane tabaccaio di
come io avessi una mania per i numeri. Una mania! La sentii anche dire
‘fissazione’. Sì, certo, fissazione,
ma
se loro avessero saputo tutto quello che sapevo io…
Il signore che
era entrato prima di me mi guardò con uno
sguardo strano e rise battendo la mano sul bancone. “Che
storia divertente! E
cosa succede se prendi un altro biglietto, ragazzo?” mi
chiese, ma non capii la
sua domanda.
“Perché
prendi il quinto biglietto, allora?” domandò
ancora.
Gli spiegai che il quinto andava bene, mentre gli altri numeri non
erano
proprio adatti. Gli spiegai anche il fatto del numero quattro. Il
quattro che
era il male.
Lui rise
più forte e disse al giovane tabaccaio: “Dammi il
biglietto prima del suo, il numero quattro!”
Gli chiesi se
dovesse prendere l’autobus anche lui e sperai
dentro di me che non dovesse prendere il numero quattro, ma lui scosse
la testa
e disse che lo faceva solo per divertirsi. Ancora non capii e lasciai
perdere.
Uscii dalla
tabaccheria e l’uomo mi seguì. Rise ancora quando
sulle strisce pedonali cercai di non pestare i rettangoli bianchi. Si
mise a
ridere più forte e continuò a seguirmi. Rideva
veramente tanto. Mi girai a
guardarlo quando arrivai all’altro marciapiede e notai il suo
viso rosso. Forse
stava ridendo troppo.
Quando si
accasciò per terra e tutta la gente si accalcò su
di lui, alzai le spalle e mi diressi verso la fermata
dell’autobus. Sentii la
sirena dell’ambulanza mentre salivo sul bus.
Io lo avevo
detto e lui non mi aveva creduto: il quattro era
il male.
***Eccomi con un altro contest su traccia. Questa volta 'I limiti' e in particolare quelli della mente. 1000 parole