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Autore: KaterinaVipera    18/12/2019    1 recensioni
Amira si reca in un piccolo villaggio sperduto nella campagna inglese a trovare la cugina, in cerca di un posto dove iniziare la sua nuova vita, lontana da casa e da tutte quelle persone che le hanno voltato le spalle quando ne aveva più bisogno.
Ciò che cerca è la possibilità di ripartire e, soprattutto, la tranquillità che negli ultimi mesi le è stata negata.
Ma, la vita, ha in serbo per lei tutt'altro e fin da subito si ritrova in una realtà che non sapeva esistesse; le persone che, all'inizio le sembrano solo strane si riveleranno per quello che sono veramente: creature straordinarie che credeva fossero solo fantasia e lei dovrà decidere se essere solo lei, una semplice ragazza, o, al contrario, farne parte ed accettare ciò che le dice il suo cuore: lei appartiene a lui, è sua, solo che ancora non lo sa.
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho provato a seguire il consiglio di Garreth e a rilassarmi, prendendomi il mio tempo, ma è più forte di me il senso di disagio e di disturbo nel dovermi lavare in casa di altri, che siano amici, lupi o dell’alfa.
Sopratutto se questo pare essere diventato un vizio… un po' come quello di cacciarsi nei guai e salvare lupi.
Come mi aveva chiesto, gli ho fatto trovare i miei abiti fuori e nel giro di qualche minuto l’ho sentito tornare.

“Non ti spaventare, non sto entrando.” sono state le sue prima parole, non appena ha aperto uno spiraglio della porta. “Ti ho solo portato un cambio per la notte.” lascia le cose in un angolo e sparisce.

È durato così poco che non ho avuto modo nemmeno di spaventarmi o di dirgli grazie.

E così, mi ritrovo con un paio di boxer suoi, avvampando come una dannata alla sola idea di doverli indossare, dei pantaloni grigi della tuta ai quali ho dovuto ripiegare l’orlo perché troppo lunghi e una maglia a mezze maniche, che mi arrivano al gomito.
Mi asciugo i capelli con l’altro asciugamano e timidamente, a piedi scalzi, esco e mi dirigo in cucina.
Mentre scendo le scale, non so se sperare di trovare Ellie o il figlio, ma credo che la madre sia già andata a dormire, dal momento che deve essere molto tardi, quindi credo di sapere con chi avrò l’onore di avere a che fare.
Lo trovo, infatti, seduto su uno sgabello, immerso nei suoi pensieri e passano alcuni secondi prima che si accorga di me.
Appena mi vede, o più probabilmente, mi fiuta, mi si avvicina silenzioso come sempre, toccandomi una ciocca di capelli ancora umida.

“Dovresti usare il phon.” un ordine travestito da consiglio, non smettendo di attorcigliarsi i capelli tra le dita.

“Non so dove sia, avevo paura di svegliare i tuoi e poi, non mi piace frugare in una casa che non è mia.” bisbiglio, come se qualcuno stesse dormendo proprio nella stanza con noi.

Mi guarda con occhi profondi, impenetrabili, che per un momento bello lungo mi dimentico che lo sto fissando e di quello che stavamo dicendo.
Sospira pesantemente e dopo avermi detto di seguirlo, torniamo in bagno per farmi vedere dove si trova l’utensile che mi serve; anche se con il caldo che c’è in casa, potrei benissimo lasciarli bagnati, ma sono convinta che questa non sia un’opzione di Garreth.
Usciamo dalla stanza e lo seguo in un’altra ancora, una camera da letto, dove può attaccare il phon alla presa della corrente, invitandomi ad iniziare ad asciugarmi i capelli.
Ormai mi sono tornati del mio colore naturale, non c’è più nessuna traccia di tutte le vecchie tinte che mi sono fatta, nemmeno quella blu fatta a casa di Judy.
Quando ho finito, cercando di essere silenziosa ma anche veloce, mi giro verso di lui, trovandolo seduto sul bordo del letto, intento a fissarmi. Almeno è quello che sembra, data la poca luce presente nella stanza.
Mi siedo anche io sul bordo, non troppo vicina a lui, spinta da un’irrimediabile stanchezza, dando uno sguardo a giro e immaginando che questa sia la sua camera da letto.
Spaziosa, dal mobilio classico, scuro e minimale, con pochissimi libro e nessuna foto.

“Sei stata avventata, ancora.” dice più arreso al fatto che non lo ascolti, che arrabbiato.

Credo che abbia perso le speranze con me.

“Non potevo stare ferma.” dico con un filo di voce, adocchiando nella sua direzione.

“Potevi venire da me, tornare a casa e fine della storia.” fa notare, in maniera ovvia, leggermente seccato.

Mi scoccia ammetterlo, ma non ha tutti i torti.

“Dovevo agire, mi volevo rendere utile.” gli confesso, non capendo perché mi debba sempre giustificare quando si tratta di parlare con lui.

“Ma non capisci che mi sei più utile quando so dove sei?” un ringhio bisbigliato il suo, carico di apprensione mal nascosta.

O forse vuole solo comandare.

“Ti ripeto, Garreth,” dico cercando di mantenere tutta la calma del mondo, perché non ho la forza – né la voglia – di discutere. “non sei il mio alfa, perché non faccio parte del tuo branco. Sono solo un’ospite che se ne andrà via. Rispetto te e le tue regole, mantengo la parola data e tutto il resto.” riprendo fiato e smetto di guardarlo perché quello che sto per dire mi fa male. “Ma non puoi darmi ordini, né aspettarti che io le esegua, perché non sono niente per te.”

Mi distendo, sentendo la stanchezza farsi sempre più prepotente, rannicchiando le gambe e piegando un braccio sotto la testa per usarlo come cuscino.
Sono vicina ad addormentarmi, ma lo spostamento del materasso, mi fa tornare vigile, mantenendo comunque gli occhi chiusi.

“Mi hai fatto prendere un bello spavento questa sera… e non solo stasera.” è un sussurro, forse sperava di non essere udito.

“Non è successo niente e poi sei arrivato tu.” biascico, mezza addormentata.

“Sarebbe potuto accaderti qualcosa e io potevo non arrivare in tempo. La prossima volta potrei non farcela...”

“E cosa importa? Lo sai come stanno le cose.”

“Io sono responsabile dell’incolumità di tutti. Anche della tua… sopratutto della tua.” puntualizza.

“Che vuoi dire?” apro gli occhi, trovandolo disteso accanto a me, pericolosamente vicino, così tanto che che riesco a percepire il suo fiato sul viso ed il suo calore.

Mi mette una ciocca di capelli dietro l’orecchio, affogando il suo sguardo nel mio, senza distoglierlo un attimo. Ed io ho come l’impressione che, nella sua mente, mi stia rispondendo, senza avere il coraggio di dare voce alle parole.

“Devi dormire. Buonanotte.” mi bacia la fronte.

Un gesto tenero, dolce e del tutto innocente, che è stato in grado di farmi sciogliere le membra, bearmi del tocco delle sue labbra morbide e calde, desiderosa di averne un altro e un altro ancora.
Magari sulle labbra.

“Buonanotte a te, Garreth.” è un sussurro flebile il mio, mi sporgo verso di lui baciandogli la guancia ruvida di barba, per poi chiudere gli occhi per non vedere la sua reazione e cercare di dormire un poco.

L’ultima cosa che sento – o mi sembra di sentire – è una frase, per me, senza molto significato.

“Dea Luna, aiutami. Lei è mia.”

 

Mi risveglio che ormai è mattina inoltrata, ritrovandomi sotto le coperte, ma da sola.
Sono sollevata di esserlo, in questo modo posso riflettere a quanto ci siamo detti ieri sera e di quello che è accaduto, ma dopo una quantità di tempo indefinito a pensare al come ed al perché lui mi abbia detto quelle cose, non vengo a capo di niente, solo che non riuscirò a capirlo mai.
Quindi, dopo essermi stiracchiata ed aver mugolato come un gatto, prendo la saggia decisione di alzarmi e togliere il disturbo.
Trovo il mio telefono sopra il cassettone, ricordandomi solo adesso di non aver avvertito Edoardo che non sarei tornata a dormire a casa. Lo prendo per accertarmi che ci siano messaggi da parte sue e per rassicurarlo che sto bene e che presto tornerò, ma con mia grande sorpresa, ne trovo solo uno.

 

‘Voglio sapere tutti i dettagli :)’

 

Divento rossa come un pomodoro maturo se penso a quello che sicuramente avrà pensato Edoardo ieri sera quando mi ha scritto, andando totalmente fuori rotta. Evito persino di rispondere, se negassi non mi crederebbe, ed io ho ancora troppo sonno per dilungarmi in spiegazioni, mentre non posso evitare di rispondere al messaggi di Anna, ricevuti qualche giorno fa, dicendole in maniera concisa che va tutto bene.
Va tutto bene. È un parolone.
Speriamo.
Mi dirigo in cucina, dove trovo il padrone di casa alle prese con la colazione, benché farei meglio a dire pranzo, data l’ora che segna l’orologio.

“Ciao.” lo saluto con la voce ancora arrochita dal sonno, avvicinandomi con cautela.

“Ciao a te.” ricambia con un mezzo sorriso sulle labbra, guardandomi per un attimo, ritornando poi subito dopo concentrato ai fornelli e alla pancetta che frigge nella padella.

Mi sporgo di lato e sbircio oltre il corpo per vedere che oltre alla carne, ormai la cucina è invasa dall’odore, ha cucinato anche le uova, tostato il pane e solo in un secondo momento noto che sulla penisola sono state apparecchiate altre cose buone da mangiare.
Più che un pranzo per tre persone, pare abbia cucinato per la cena di Natale.
E messa di fronte a questo ben di Dio, non riesco ad impedire al mio stomaco di lamentarsi e farsi sentire anche dal licantropo, che ghigna soddisfatto.

“Siamo affamate.” anche se mi è di spalle, lo sento sorridere, non perdendo la concentrazione.

“Sì, beh… un po' .” cerco di giustificare questo rumore molesto.

“Si direbbe che tu abbia una fame da lupi...”

Ridacchiamo insieme per la sua battuta, ma poi torniamo seri, come se anche lui percepisse quest’aria carica di tensione.
Non vorrei davvero doverlo salutare. È una cosa che sto iniziando a detestare, ma so che non si può fare altrimenti e che i nostri posti non sono l’uno al fianco dell’altro.

“Meglio se vado adesso, ma avrei bisogno delle scarpe.” dico guardandomi i piedi e iniziando a dondolare per scaricare un po' di nervosismo.

“Avrai ciò che ti serve, ma solo dopo che avrai mangiato.”

Sto per replicare, ma rimango a bocca aperta, senza dire niente, quando vedo tutta la roba che mi sta mettendo sul piatto.
Se la mangiassi tutta esploderei, non credo che abbia ben presente la differenza tra il mio stomaco e il suo. Il mio ha fame, ma anche una fine, al contrario del suo a quanto pare.

“I tuoi non ci sono?” mi guardo intorno, notando solo adesso che siamo soli e che la casa è stranamente silenziosa.

“Sono qui in visita e si sono uniti al branco.” conciso, ma se non altro mi ha risposto e non è stato brusco.

Un punto per me.

“Tu hai già mangiato?”

“Non ho fame.” taglia corto, indurendo lo sguardo.

Cosa? Che ho detto stavolta?

“Siediti.” allunga il braccio per spostarmi una sedia e farmi mettere seduta.

Non lo ascolto e dopo aver rovistato tra gli scaffali e gli sportelli della sua cucina, non senza il suo dissenso e i suoi mugugni di disapprovazione, trovo un altro piatto, mettendolo accanto al mio e dividendo il cibo.
Garreth mi guarda perplesso, non capendo il motivo di tale mio gesto.

“Mangerò solo se lo farai anche tu.” posiziono i piatti accanto e gli faccio segno di accomodarsi.

Mi guarda male, ma stranamente fa quello che gli ho chiesto e si siede accanto a me.

“Come sta il nuovo paziente?” domando in un misto di interesse e voglia di spezzare il silenzio creato.

“Si riprenderà. Eric gli ha tolto i due proiettili, nell’arco di un paio di giorni sarà come nuovo.”

“Siete tutti veloci a recuperare le forze?”

“Sì, se sono fortunati di trovare in tempo una persona come te.”

Arrossisco, senza sapere bene il motivo.

“Tu sei mai stato ferito?” a tale domanda, mi nasce un brivido di terrore del tutto incontrollato.

“Non molte, ma troppe comunque per parlarne.” taglia corto, irrigidendosi e prendendo nuovamente le distanze.

Okay, argomento non gradito.
Immagino che non si riferisca solo alle ferite di arma da fuoco od a quelle di altri lupi. A giudicare dallo sguardo, ci deve essere stato qualcosa che lo ha ferito ancora più in profondità; perché io la riconosco quella luce che si sta spegnendo negli occhi, dando posto alla tristezza e alla sfiducia.

“Ti capisco.” esordisco, continuando a mangiare, per far sembrare la cosa banale, anche se non lo è. Per nessuno dei due. “E’ successo anche a me.”

Mi guarda in attesa che vada avanti, senza fare altre domande per non forzarmi a parlare.

“Mi sono fidata delle persone sbagliate e mi hanno tradita quando avevo bisogno di loro.” faccio spallucce, a sminuire l’accaduto.

“Anche io… solo che lei mi ha proprio sparato.” è un sorriso triste il suo.

“Mi dispiace.” gli dico, seriamente coinvolta nel suo dolore, perché posso immaginare cosa sia successo e non deve essere stato facile.

Forse è per questa ragione che è così chiuso in se stesso, che non si fida e non si lascia avvicinare dagli altri. Sopratutto se femmine, specialmente se umane.

“E’ stato tanto tempo fa.”

“A me piace avere ancora fiducia nelle persone, e sperare...”

“Sei una sognatrice che deve crescere e capire come va il mondo.” ribatte cinico.

Alla sua frase mi indigno oltremodo, ma cerco di non darglielo a vedere e ribatto alla sua frase con più calma che posso.

“Non c’è neanche una persona, Garreth, che ti abbia fatto cambiare idea? Che ti abbia fatto tornare anche solo per un minuto, la speranza?” gli chiedo accorata, speranzosa.

Si volta verso di me, guardandomi intensamente, tanto da farmi credere che non mi abbia sentito o che non voglia rispondermi.

“Sì, una c’è.” mi dice in tono solenne, puntando i suoi occhi profondi nei miei.

Per un breve, fugace, intenso attimo, tutto in lui mi ha fatto credere – sperare – che si riferisse a me.
Vorrei potergli chiedere qualcosa in più, avere finalmente le risposte alle mille domande che mi assillano la mente e non mi lasciano tregua; vorrei avere il coraggio di dare voce ai pensieri, ai dubbi, alle conclusioni che sono stata costretta a tirare perché lui non mi dice niente, lascia tutto in sospeso, ma non ne ho la forza. Le parole rimangono schiacciate nella trachea dalla paura e dall’arrendevolezza.
Per togliermi da questa situazione, mi schiarisco la gola, mi alzo, iniziando a sistemare tutto nel lavello.

“Che stai facendo?”

“Ti sto aiutando. Forza, io lavo e tu asciughi.”

C’è poco da pulire e nell’arco di un quarto d’ora, abbiamo quasi finito. Gli passo l’ultimo bicchiere e senza farlo a posta, le nostre dita si sfiorano per un solo attimo, sufficiente a farci fermare, consapevoli di una nuova e strana tensione tra di noi.
Garreth posa il bicchiere per prendere la mia mano, iniziando a sfiorarne la pelle, mentre l’altra la porta all’attaccatura dei capelli, sulla nuca, iniziando a massaggiare delicatamente.
Il cuore perde colpi, inizia a battere in maniera irregolare, gli occhi si fanno lucidi e sento le guance andare a fuoco. Sono convinta che anche lui possa sentire, percepire, questo mutamento nel mio corpo perché rinsalda la presa, avvicinandomi di più, mettendomi così di fronte a lui.
Lo guardo dritto negli occhi, i suoi sono ardenti braci vive, le pupille dilatate e profondi abissi in cui mi vorrei perdere. E non mi faccio più alcuna remora a nascondere ciò che il mio corpo sta urlando; che veda l’emozione nei miei occhi, che senta pure il cuore che batte furioso nel petto, non importa, voglio che sappia che per me, lui, ormai non è più un semplice licantropo.
Mi inumidisco le labbra e questo gesto sembra risvegliare qualcosa di più bestiale, poiché il respiro gli diventa pesante, le narici si allargano e la presa diventa adamantina.
Si china verso di me, ed io mi sporgo verso di lui, reclinando la testa ed alzandomi sulla punta dei piedi per guadagnare qualche centimetro. Poso le mani sul suo petto per avere maggiore equilibrio, percependo il suo calore, nonostante la maglietta.

“Garreth.” è un bisbiglio appena accennato, esalato con la gola asciutta e gli occhi liquidi.

Passa il pollice sul contorno delle labbra, guardandone e studiandone il profilo, procurandomi un leggero solletico che cerco di tenere a bada; i nostri nasi si sfiorano e i respiri accelerati si confondono.
Chiudo gli occhi, incapace di respirare regolarmente, credendo di morire soffocata, quando percepisco le sue labbra vicinissime alle mie.
Non ci siamo ancora sfiorati quando la porta sbatte con violenza ed entra un Eric trafelato e a dir poco allarmato.

“Abbiamo un grosso problema!” grida, con lo sguardo stralunato, fermandosi però sulla soglia della cucina, ancora più confuso e allucinato di prima.

“Oh...”

Immediatamente ci stacchiamo, evito di guardarlo negli occhi, di rivolgergli la parola o quello che stavamo per fare sarebbe ancora più palese di quanto non lo sia, e finisco per asciugare un bicchiere già asciutto, fingendo che non sia accaduto niente.

“Oh, scusate… io…” il poveretto non sa che dire.

Non ho il coraggio di voltarmi, ma immagino che sia in imbarazzo anche più di noi.

“Che c’è Eric? Avanti, parla!” lo esorta poco gentilmente Garreth.

Solo adesso oso lanciare una sbirciatina ai due, interessata a cosa si devono dire.

“I cacciatori hanno appiccato il fuoco al villaggio di Josh. Il branco sta fuggendo e credo che stiano venendo qua.” dice grave.

Segue un attimo di silenzio che pare lungo come una vita, durante il quale non vola una mosca. Anche io, mi sono fermata, smettendo di respirare, attonita davanti a tale notizia e in attesa di sentire cosa dirà l’alfa.

“Tu e altri due assicuratevi che il branco non venga seguito e scortateli fino a qui.” dice autoritario, poi si rivolge verso di me e la cosa non mi piace per nulla.

“Tu rimani qui e vedi di non uscire per nessuna ragione.” mi punta un dito contro, perdendo tutto ciò che di dolce aveva fino a qualche attimo fa.

“Ma io voglio aiutare.” mi lamento, passando oltre la penisola quasi a corsa ed affiancandolo.

“Lo farai stando in casa, chiusa dentro, ferma e buona.”

“No, non è vero. E lo sai anche tu!” mi impunto.

“Eric, vai sbrigati!” gli ordina.

Il licantropo annuisce con la testa e sparisce, lasciandomi nuovamente sola con l’alfa ma sono sicura che questa volta non mi piacerà per niente.

“E’ una cosa pericolosa questa Amira, non posso neanche pensare di metterti in pericolo.” sembra molto più preoccupato di Eric.

“E non lo sarò.” lo rassicuro, con un mezzo sorriso. “Ma non ho intenzione di starmene rinchiusa qui, come una tua prigioniera.”

Sospira pesantemente e sta per ribattere, ma lo fermo.

“Se lo farai, io scapperò, come ho fatto con Eric. Abbi fiducia in me, Garreth, ti prego.” gli accarezzo una guancia, per infondergli quella consapevolezza che gli manca.

“Bene, ma stammi vicino. Mettiti queste.” mi porge le scarpe che mi ero tolta ieri sera e che erano state abbandonate vicino all’ingresso. “Adesso vieni, mi stanno chiamando.”

Mi prende per mano e mi trascina fuori, dove ad attenderlo c’è quasi tutto il villaggio radunato, in attesa che gli venga spiegata la situazione.

“Che succede, alfa?”

“E’ vero quello che si dice in paese?”

“Anche a Burnside gira voce di un incendio! Sono stati i cacciatori?”

“Verranno anche da noi!”

Vedo la preoccupazione stampata nei loro volti, grondare dai loro occhi mista ad un odio e ad una rabbia smisurata, incommensurabile per quegli esseri immondi che stanno distruggendo le loro vite.
Una madre tiene stretto il proprio figlio, come se glielo stessero per portare via da un momento ad un altro. Mi si stringe il cuore a questa scena e solo ora mi rendo davvero conto che Garreth aveva ragione: io non posso esser d’aiuto, non questa volta.

“No, non lo faranno. Troveremo una soluzione.” gli rassicura, avvicinandosi al gruppo e cercando di infonderli la calma.

“E lei che ci fa qui?” domanda uno di loro, indicandomi.

Il mio sguardo preoccupato si sposta subito sull’alfa e lui, come percependo la mia iniziale paura e il disagio, si frappone tra me e le persone che stanno cambiando atteggiamento.

“Chi ci dice che non sia sua la colpa?” domanda un altro licantropo, dando man forte al primo.

Rimango a bocca aperta, sconcertata dalla sua accusa.
Tra la folla vedo anche Beth, senza i figli però.

“Taci, razza di idiota! Lei è dalla nostra parte. Ti ricordo che ha salvato me ed i miei piccoli.” interviene la donna, alzando il tono di voce più che può per farsi sentire, per sovrastare il mormori crescente degli altri, guardando il tipo che ha parlato e preparandosi a fronteggiarlo di nuovo.

“Lo può avere fatto per farvi cadere nella sua trappola.” da man forte un altro, sorpassando alcune persone per avvicinarsi al compare e alla donna.

Qui per me si sta mettendo davvero male.
Rimango in silenzio, spaventata da come si stanno scagliando contro di me, sapendo che non esisterebbe parola o discorso ben fatto per convincerli del contrario.

“Ha portato con se un altro umano.” l’intervento di Julia è decisivo per far scattare la furia degli altri, che si avvicinano con intenzioni davvero poco amichevoli. “Per quanto ne sappiamo, possono essere due infiltrati dei cacciatori!” getta altra benzina sul fuoco, i licantropi sembrano esplodere e la pazzia inizia a dilagare tra di loro.

Si fanno vicini, ma non tanto perché Garreth è sempre frapposto tra me e gli altri, le urla, le minacce si sovrastano, c’è chi suggerisce addirittura di uccidermi.
Sento il sangue evaporare dal corpo.
Vorrei andarmene via da qui, lontano.
Forse adesso inizio a capire cosa voleva dire Garreth con i discorsi di ieri sera, sulla paura, l’odiare tutti indistintamente.
Io sto cercando di non temerli, perché so che non tutti mi vogliono morta, ma in questo momento vorrei davvero tanto non essere qui, in mezzo ad un branco di bestie senza lucidità, ma a casa mia. Quella in Italia, molto lontano da questo posto e da loro.

“Lei è la cugina di Anna ed Anna è la compagna del beta del nostro alfa. Il tuo, tuo e anche il tuo!” grida furiosa Elizabeth, indicando con l’indice i miei accusatori, senza ottenere un grande risultato. “Mettere in discussione la lealtà e la fiducia di Amira, vuol dire farlo con il nostro leader stesso. State, forse, cercando di mettere in discussione le scelte del vostro alfa?!”

C’è un momento di silenzio, in cui le sue parole sembrano aver attecchito, ma i due uomini partono nuovamente alla carica, iniziando ad offendere anche lei, dicendole che dovrebbe fare la mia stessa fine.
Sono così sconvolta che non mi accorgo del lamento che mi esce dalle labbra, ed solo in un secondo tempo, per un fugace momento mi accorgo che Garreth stava adocchiando nella mia direzione, notando gli occhi spalancati dal terrore.

“Silenzio!”

E’ bastata una semplice parola e le mani strette a pugno per far ammutolire tutti e fargli fare un passo indietro.
Non parla più nessuno adesso, guardano il loro capo e si vede dagli sguardi che ne avrebbero ancora tante di cose da dire, ma non osano contraddire un ordine del loro alfa. Nell’aria vibra una carica densa ed elettrostatica, da Garreth proviene un forte e prepotente odore di bosco che si sta spandendo tutto intorno, così forte che persino io lo sento e mi verrebbe da chinare la testa come stanno facendo alcuni più vigliacchi.
Garreth si gira verso di me e in quello sguardo scuro, severo, profondo, vi leggo l’odio e la rabbia, arretro di un passo spaventata che abbia creduto alle bugie che hanno sputato gratuitamente.

“Garreth, non è vero… io non ho mai...” le parole bisbigliate mi muoiono in gola, intrappolate nella trachea e devo sforzarmi per non mettermi a piangere come una bambina che si è persa e grida per cercare la mamma.

In lontananza adocchio Julia che sorride cattiva, sperando di aver fatto centro con le sue accuse.

“Lo so.” addolcisce lo sguardo, cercando di rassicurarmi senza usare le parole per non farsi sentire. “Ora però torna a casa e chiuditi a chiave. Non uscire per nessuna ragione, intesi?”

Non dico niente, continuo solo a fissarlo piena di panico.

“Fallo per me, ti prego.”

“Va bene.”

Si assicura che entri in casa e guardando da uno spiraglio della finestra, lo vedo dirigersi con tutto il resto del branco lontano da casa sua.
Immagino che adesso andranno nella stanza delle riunioni; ed è stato un bene che, quella volta con Edoardo, ci abbia visti Garreth e non un’altra persona o per noi sarebbe stata la fine.
A tal proposito, salgo di corsa le scale per tornare nella sua camera e inviare un messaggio ad Edo, breve e conciso, per dirgli – imporgli – di non uscire per nessuna ragione di casa.
Dal canto mio, me ne sto buona sul divano, in attesa di notizie, sperando che davvero non mi condannino a morte.
Mi alzo per prendere un bicchiere d’acqua e me ritorno seduta. Cambio posizione svariate volte, arrivando alla conclusione che starò bene solo quando lo vedrò sbucare da questa porta.
È passata un’ora circa, minuto più o minuto meno, quando il mio telefono squilla, facendomi fare un balzo sui cuscini.
Guardo lo schermo, sperando di leggere quella lettera, ma non è lui.

Edoardo.

Forse vorrà solo fare due chiacchiere, dal momento che siamo entrambi barricati in casa, divisi.
Poverino, ha scelto proprio il momento migliore per venirmi a trovare e lo stesso vale per me, con mia cugina.

“Anche tu ti stai annoiando?” gli domando, guardando il suo volto attraverso lo schermo, che, però, di annoiato non ha proprio niente.

“Mira, che succedere?” domanda, guardandomi intensamente, gli occhi dilatati leggermente… sembra paura.

Ma di cosa?
Lui non è a conoscenza di niente, dovrebbe essere tranquillo. Magari arrabbiato, ma tranquillo.

“C’è un incendio nel villaggio vicino e gli sfollati verranno alloggiati qui. Vogliono che stiamo in casa così che non ci accada niente. È per la nostra incolumità.” mento fino ad un certo punto.

Lo vedo guardarsi intorno, circospetto, spostarsi da una stanza ad un’altra e sbirciare fuori dalla finestra, come per accertarsi che non ci sia nessuno.

“Anche tu hai dei brutti ceffi che ti fanno la posta e girano intorno per casa? È così che si assicurano la nostra sicurezza?” bisbiglia così a voce bassa, che ogni tanto mi perdo qualche parola e devo andare ad intuito.

Colpa del segnale.

La sua affermazione mi fa gelare il sangue nelle vene e non ci metto molto prima di capire che qualcosa non sta andando per il verso giusto.
Pure io mi sporgo dalla finestra, ma da queste parte pare non ci sia nessuno che fa la guardia.

“Fammeli vedere.” parlo a bassa voce a mia volta, come se quelli fuori casa fossero in grado di sentirmi, ma è sempre bene essere previdenti con esseri come loro.

Edoardo si avvicina con cautela alla prima finestra e sporge il telefono per farmi vedere, o per meglio dire, intravedere, gli uomini che girano intorno alla porta d’ingresso.

“Ci sono solo loro?” domando stupita, senza riconoscere però i soggetti.

“No, ce ne sono due in giardino e uno che si fa tutto il giro della casa.” Edo sposta il display per guardarmi, ed è spaventato.

Ha già capito che c’è qualcosa sotto, di molto più grave di un semplice incendio o di una protezione. “Chi sono e che cosa vogliono?” si guarda in giro, come se temesse che qualcuno sfondi la porta da un momento ad un altro.
Appoggio la schiena alla parete, lasciandomi scivolare sul pavimento, scoraggiata da una situazione davvero più grande di me.

“Diciamo che non ci siamo fatti amici proprio in tutto il villaggio.” dico con un filo di voce, affranta, pentendomi di non averlo spedito a casa quando ancora ne avevo la possibilità.

L’unica soluzione è quella di farlo uscire di casa, ma come?!

“Edoardo, vai al piano superiore, entra in tutte le stanze, stacci per qualche secondo e che ne so… fai un giro, lascia il tuo odore ovunque, tende, coperte, mobili… dopo apri la finestra e chiudi le porte. Quando avrai fatto ciò, entra nell’ultima stanza a destra e chiuditi a chiave.”

Il mio cervello è un piccolo motore in azione, alla ricerca della soluzione giusta.

“Perché devo fare tutto questo?”

“Loro hanno… dei segugi, ecco… e noi dobbiamo… depistarli...”

“Amira, mi vuoi dire che cazzo sta succedendo?” il mio amico è fuori di sé dalla paura e dall’incomprensione.

“Siamo in un grosso guaio.” gli confido, sapendo che non posso più tergiversare o fare finta di niente. “Cerco di salvarti da quei pazzi, ma tu devi avere fiducia in me, chiaro?” lo supplico, perché sono consapevole che da quando è arrivato qui, non è andata una per il verso giusto.

“Che cosa vogliono, me lo dici?!” sbotta infine, iniziando a salire le scale.

“Farti la pelle.”

“Perché?” il suo è un grido bisbigliato, mentre lo vedo entrare in camera mia, accucciato per non farsi vedere dalla finestra, e fare quello che gli ho detto.

“Non te lo posso dire, si tratta di un segreto. Devi solo avere fiducia in me.” mi massaggio le tempie, sentendo montarmi un terribile mal di testa.

E ho anche lasciato da Anna le mie medicine.

“Forse so chi ci può aiutare, ma devo riattaccare. Tu fai esattamente quello che ti ho detto e mi raccomando, non fare un fiato.” mi assicuro.

“Come fanno a sentirmi se sono a metri di distanza?!” mi fa notare con fare ovvio.

“Allora perché stai bisbigliando?” gli domando a mia volta.

Nonostante la situazione, non abbiamo perso l’abitudine di bisticciare.

“Ti richiamo tra poco. Tu cerca di resistere.”

“Va bene.”

Sto per chiudere la conversazione, poi ci ripenso.

“Ah, Edo… ti voglio bene.”

“Anche io, piccola.”

Chiudo.

Non so perché, ma ho come avuto l’impressione che fosse un addio.
L’emicrania mi sta giocando un brutto scherzo. Decisamente.
Scorro nella rubrica alla ricerca di un altro nome, essenziale, che sicuramente ci salverà da questa situazione.
Quando lo trovo, premo il tasto verde ma subito il dispositivo mi rimanda la voce metallica ed atona del suo operatore telefonico, che mi avvisa che non è raggiungibile.

Merda!

Ci riprovo ma il risultato non cambia, Garreth non risponde.
Gli lascio un messaggio, sperando che almeno questo gli arrivi e che lo possa leggere in tempo, ma so che dovrò sbrigarmela da sola se voglio salvare il mio amico.
Chiamo Edoardo che, nel frattempo, si è nascosto nel ripostiglio, proprio come gli avevo ordinato di fare.

“Ehi, come va?” gli domando, non potendo vedere il suo volto, mi chiedo che espressione abbia, se dopo tutta questa storia mi vorrà ancora bene e come sua amica, o mi manderà al diavolo, tornandosene in Italia e dimenticandosi di me.

A questa idea, mi viene da piangere.

“Sono stato meglio, Amira. E poi qui è stretto.” si lamenta, cercando però di mantenere la calma.

Soffre di claustrofobia e non è stato bello quello che l’ho costretto a fare.

“Lo so, tesoro, ma vedrai che ci dovrai stare poco. Cerca di resistere, trova un modo per barricarti all’interno. Io sto arrivando.”

Attacco la chiamata e dopo essermi assicurata che non ci sia nessuno che fa la posta anche a me, esco veloce come un fulmine, fiondandomi nel bosco e costeggiando il villaggio fino ad arrivare fino a casa di Anna.
È vero che avevo detto, avevo dato la mia parola a Garreth che non sarei uscita, che non mi sarei cacciata in altri guai, ma questo non lo avevo previsto ed ora il mio migliore amico ha bisogno di me, ora più che mai, per una colpa non sua.
Mi avvicino alla staccionata, stando attenta a non farmi fiutare, girando intorno alla casa, fino a ritrovarmi dalla parte opposta dei licantropi, proprio sotto la finestrella dalla quale dovrà scendere Edo.

 

‘Apri la finestra.’

 

Nel giro di qualche istante, lo vedo affacciarsi e aprire bocca ma con un gesto secco e perentorio lo faccio tacere e gli indico il telefono per comunicare.

 

‘Adesso che facciamo?’

 

‘Tu salti. Io li distraggo.’

 

Edo mi fa il gesto per dirmi che sono pazza; probabilmente ha ragione, ma non vedo altre soluzioni.

 

‘Zitto e salta.’

 

Ripongo il telefono in tasca e dopo esseri avvicinata ai quattro uomini, che adesso sono tutti davanti alla porta d’ingresso, inizio a tirare sassolini e rametti verso il giardino e grazie a qualche tiro fortunato, riesco a buttarli oltre la staccionata ed a fargli credere che stiamo fuggendo da lì.
Ritorno nel punto dove il mio amico mi sta aspettando, trafelato e leggermente shockato dalla discesa che gli ho fatto fare: dalla finestra alle tettoia, un salto sul ramo dell’albero e poi un altro sul terreno.

“Forza, dobbiamo correre.” lo prendo per mano e scappiamo via.

Non mi volto indietro, sicura che il peggio sia passato, di averla fatta franca ingannando superbamente i quattro tizi, ma ecco che davanti al nostro cammino, la stessa strada che ho percorso io per venire fin qui, ne vediamo spuntare un quinto, fermo a braccia conserte, come se ci stesse aspettando.
Mi serve una frazione di secondo per capire che anche lui fa parte di questo gioco malato, che era tutto architettato nei minimi particolari per farci fuggire e inseguire, come piace a loro.
Non aspetto oltre e cambio traiettoria, continuando a correre più veloce di prima, più disperata e più determinata che mai ad arrivare alla strada principale del paese.
Adesso non c’è davvero bisogno di voltarsi per sapere che ci stanno inseguendo, sentiamo i loro passi subito dietro i nostri, i loro respiri molto meno affannosi dei nostri e i loro insulti.
Casa di Garreth, in questo momento, sembra così lontana.
Tento un ultimo, disperato tentativo, e provo a richiamare il licantropo, sperando che adesso sia in un punto in cui il segnale prende, che mi possa rispondere e venire a salvare.
La sua paura si sta avverando: ho bisogno di lui più che mai e non è qui per potermi salvare. Non questa volta.
Mi si forma un groppo amaro in gola, che cerco però di scacciare e di infondermi coraggio e speranza.
Afferro il telefono dalla tasca e nella fretta di cercare il numero, non vedo la radice rialzata di un arbusto, inciampando e perdendo la presa con la mano di Edo.
Batto le ginocchia e le mani, salvando il extremis il viso, perdendo così il cellulare.

“Mira! Mira, stai bene?” vengo aiutata ad alzarmi, si accerta che stia bene e che siano solo graffi superficiali.

“Non abbiamo molto tempo. Dov’è?!” mi sposto una ciocca di capelli dal viso, guardando il suolo coperto di foglie alla ricerca del…

“Stavi forse cercando questo?” mi domanda sarcastico, il quinto di loro, quello che ha l’aria di essere il capo della banda, avvicinandosi per accerchiarci insieme agli altri.

Sventola in aria il mio cellulare per poi riporlo in tasca con aria di vittoria.

“Marcus ci ha detto di fare una cosa veloce. Quindi, da chi siete stati assoldati?” ci domanda, facendosi scricchiolare le dita.

“Lui si sbaglia! Noi non siamo coinvolti in questa storia.” urlo inviperita, stanca di dovermi sempre giustificare per una colpa non nostra.

“Ragazzina, siete due contro cinque, non farei la furba, fossi in te.”

Gli altri quattro se la ridono, muovendo qualche passo sempre più vicino a noi, ghignando maligni ed eccitati di avere le loro prede in trappola.

“Sto dicendo la verità. Il vostro alfa si fida, dovreste farlo anche voi!”

“Lui non ci vuole credere… lui non ci vuole ascoltare. Dice che siete solo due innocui umani e che non vi si deve per nessuna ragione torcere un solo capello. Sopratutto a te, ragazzina. Mah, chissà perché poi…” alza le spalle, non capendo. “Ma lo aiuteremo noi a farlo ragionare, a fargli aprire gli occhi… uccidendovi. Ragazzi!”

“A-Amira...” è il richiamo a dir poco disperato, angosciato, detto a fil di voce di Edoardo, al mio fianco, che mi stringe la mano come se volesse stritolarmi ogni singolo osso.

Quando mi volto nella stessa direzione in cui sta guardando lui, capisco, con mio grande orrore, cos’è che lo rende così spaventato da avergli fatto perdere colorito.
Il rumore di ossa spezzate, di lamenti e rantolii, seguito dall’inconfondibile latrato dei lupi.
Ha appena visto quattro uomini trasformarsi in enormi e feroci belve.
Chiudo gli occhi per non perdere il senno e scoppiare a piangere, vedendo tutti i miei tentativi di salvarlo, di proteggerlo dalla verità, trasformarsi in fumo.

Perfetto.

Siamo capitati dalla padella alla brace.










* Angolinettino mio personale *

Salve a tutti :-) 
Mi scuso per il ritardo ma i mesi sono volati e io nemmeno me ne sono accorta.
Spero che il capitolo vi piaccia, fatemi sapere i vostri pareri.
Un abbraccio 
Buone feste a tutte ragazze!!! :*

Besos

  
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