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Autore: CHAOSevangeline    18/12/2019    2 recensioni
{ Orione/Artemide }
"Non c’era ragione di preoccuparsi dell’amore, perché Artemide non gli avrebbe mai permesso di ferirla.
Ma ormai anche se correva fra le file di alberi, nel fitto della foresta e attraversava un terreno sterrato più rapida del suono non c’era angolo di quell’isola dove le sue ansie non la trovassero. Per la prima volta i suoi pensieri erano veloci quanto lei e correre, rotolarsi nell’erba e porre sul loro cammino ostacoli come tronchi d’albero che lei scavalcava rapida come una cerbiatta non gli impediva di raggiungerla."
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Apollo, Artemide, Orione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Asulòs
 



I.
Luna nuova
 

 
Un arco che si tende, per un cacciatore, produce un suono di pura adrenalina; l’orecchio è allenato al punto da percepire la flessione delle fibre di legno, il rumore della corda che promette di vibrare rapida quando la freccia sarà fuggita dalla cocca insieme al respiro dell’arciere.
Un cacciatore respira con il suo arco e smette di respirare con esso fra le dita, se il destino vuole graziarlo con un simile onore. Un cacciatore respira con la preda perché non lo scopra.
Ma se è lui, la preda, l’eccitante suono di ogni parte dell’arma perde il suo fascino.
Orione sentì il legno flettersi e spalancò gli occhi. Vide la punta acuminata di una freccia puntata dritta verso il suo viso; pareva brillare di una luce argentata, come se fosse stata imbevuta in acque lunari.
«È il tuo nuovo modo di darmi il buongiorno?» domandò, un sorriso sghembo e assonnato sulle labbra.
«È il mio modo di dare il buongiorno ai clandestini, sì.»
«Clandestino, io?»
Orione scostò di lato arco e freccia con il braccio, ma la ragazza che torreggiava su di lui non glielo rese facile irrigidendo le braccia.
«Non mi hai annunciato il tuo arrivo, quindi lo sei.»
«Sono arrivato stanotte, ho pensato di non disturbare.»
«È mio fratello che si occupa del giorno, dovresti saperlo. La notte è mia.»
«So anche che la notte a te piace russare.»
«Brutto…!»
Orione approfittò di quell’attimo: un piede saettò fra le caviglie della giovane e la fece rovinare a terra in un singulto di sorpresa. La bloccò sulla sabbia di Delo e la guardò divertito.
«Buongiorno, Artemide.»
La salutò come se si stesse annunciando, come se ce ne fosse bisogno.
I capelli castani di lei erano composti nel laccio di cuoio con cui li teneva legati e gli occhi d’argento intenti a trapassarlo da parte a parte, simili alla freccia con cui avrebbe potuto trafiggerlo ma che ora giaceva a terra insieme al suo arco. Erano rigidi anche dopo tutto quel trambusto.
La leggeva bene, Orione: conosceva mille modi per innervosirla e li usava per creare una crepa da cui infiltrarsi, insidioso come la sabbia.
«Sono arrivato stanotte da…»
Ma aveva i riflessi rallentati dal sonno.
Una ginocchiata sullo sterno gli fece trattenere il fiato prima di rovinare di lato, i capelli di mogano sciolti e scarmigliati per la notte in mezzo ai granelli di sabbia che facevano da zavorra alle pieghe di stoffa del chitone di Artemide.
«Cafone», lo liquidò lei.
Dal fondo della spiaggia si udì abbaiare e poi lo scalpiccio di zampe esagitate sul bagnasciuga.
«Grazie Sirio, con più calma la prossima volta…» esalò Orione tenendosi lo stomaco.
Il segugio grigio appena giunto gli leccò il viso, poi raggiunse Artemide. La dea gli diede una grattata dietro le orecchie e sistemò la fronte contro la sua mentre il cane scodinzolava.
Smise di sorridere e si fece torva solo per rimproverare Orione.
«Non dare la colpa a Sirio per la tua negligenza.»
«La mia negligenza sta a dormire?»
«Esattamente», lo rimbeccò. «Sulla mia isola non si abbassa mai la guardia.»
Delo era sempre «la mia isola», per Artemide: lì era nata, lì cacciava e lì viveva.
Quando Orione alzò gli occhi, Artemide era seduta e lo guardava; non era arrabbiata, nonostante la ginocchiata in pieno stomaco, e questo avrebbe dovuto spaventarlo: infuriandosi Artemide avrebbe potuto fare molto peggio.
La giovane si distrasse scompigliando ancora il pelo di Sirio che agitava gaudente la coda. Accorgendosi che Orione non aveva smesso di fissarla si arrestò.
«Che c’è?»
«Niente», rispose. «È bello tornare a casa.»
«Oh», fece lei canzonatoria. «Scusa, è vero: dovevo chiamare la tua bella Eos per accoglierti.» Il suo viso fu teatro di puro disgusto. «Magari precederla con un corteo di fanciulle che gettassero fiori al suo passaggio.»
Orione fece una smorfia. Artemide pensò fosse per l’idea sdolcinata e anche per il modo denigratorio con cui aveva parlato di lei.
«Lasciamo perdere Eos.»
Artemide rispose nel modo peggiore possibile a quell’informazione celata. Un sorriso comparve sulle labbra della dea: non era cattivo, solo furbo.
«Problemi in paradiso?»
«Diciamo.»
Artemide fu sul punto di chiedere, e lei non lo faceva mai. Non per timore d’essere invadente o di turbare il proprio interlocutore: Artemide non chiedeva perché il più delle volte non le interessava e non voleva conoscere i problemi degli altri. Era comunque conscia che prima o poi sarebbe stata costretta ad ascoltare qualcuno e che una buona dose di turbe l’aveva raggiunta. Il più delle volte si trattava di Apollo. Era un’eccezione, lui: Artemide aveva sempre un orecchio da prestare al fratello per le sue lamentele, le sue sciocchezze, l’amore della sua vita o ancora altre idiozie. Non le dispiaceva nemmeno.
Orione però era diverso. Orione era tutto fatti e poche parole; parlava solo per punzecchiarla, per il resto si sarebbero volentieri espressi a grugniti entrambi.
Però allora sì, scoprire che Orione ed Eos non se la stavano passando così felicemente la colpì come la colpiva a mo’ di ceffone la loro gioia ogni volta che la sfoggiavano passeggiando per le vie soleggiate di Delo.
Era egoista perché con Eos, Orione era felice. Ma Artemide non aveva mai fatto nulla per ostacolarli; se la sua arma erano solo delle battute taglienti per difendersi non avrebbe smesso di usarle per nulla al mondo. Prima doveva pensare a difendere sé stessa.
«Vuoi…?» azzardò lei.
Orione la fissò.
«… Parlarne?»
«… Sì?»
«Risparmiami.»
Artemide alzò un sopracciglio.
«Scusa se ho chiesto.»
Si alzò in piedi, scrollandosi la sabbia dalle pieghe del chitone che lasciava scoperte le gambe snelle ma allenate dalle continue corse fra la boscaglia e le pianure.
Orione la fermò. Era stato brusco così come Artemide era stata brusca con lui. Le prese una mano.
«Aspetta», disse, sperando fosse sufficiente.
E sperando che Artemide non lo colpisse con l’arco, o la faretra, o con i pugni: le sue mani erano piccole in confronto a quelle di Orione, che in proporzione alla stazza della dea aveva delle mani enormi. Eppure i pugnetti di Artemide parevano appartenere alla progenie delle clave.
Uno «scusa» era più di quanto il cacciatore potesse riuscire ad articolare, ma doveva proseguire in fretta per non vedere Artemide fuggire: si erano toccati sempre e solo per fare la lotta, di tanto in tanto, o per trattenersi in caso di pericolo.
Una mano che prendeva la sua era fin troppo e intimarle di aspettare era stato più utile a giustificare il proprio gesto che a trattenerla.
«Non mi va di parlarne», bofonchiò Orione. «E poi ora qui ci sei tu, non vedo perché parlare di Eos.»
Artemide ancora non aveva afferrato il proprio arco, o avrebbe corso il rischio di lasciarlo cadere a terra senza alcun ritegno per la sorpresa data da tali parole.
«È la normalità sentirti parlare di Eos», ribatté velenosa Artemide. «Eos qui, Eos lì.»
Mimò un conato di vomito e benché lo stesse apertamente prendendo in giro, Orione rise perché in fondo aveva ragione. Era proprio la gemella di Apollo, con quegli sprazzi di teatralità.
«Sei tu che ispiri fiducia.»
Artemide lo prese come un complimento, ma fece finta di nulla e ostentò anzi il contrario.
«Già, bella scusa», esalò facendo spallucce. «Eracle ha avuto le sue dodici fatiche da compiere, io ho le mie a quanto pare.»
Le dita della dea erano ancora strette fra quelle di Orione; s’era preoccupato tanto della sua reazione, ma non si era anche affrettato a lasciarle.
«Dunque, hai ancora intenzione di andartene?»
Artemide scosse il capo, fulminea.
«Ero venuta a chiederti di andare a caccia. Ho dovuto attraversare l’isola per venire fin qui, non mi va di andarmene a mani vuote», rispose. «Voglio portare almeno Sirio con me.»
«Ah, solo Sirio?»
La donna si liberò solo allora la mano, puntando i pugni sui fianchi.
«Catturerebbe di certo più prede di te.»
«È una sfida?»
Orione percepì l’estasi che precede la caccia, il cuore palpitare per l’adrenalina di doversi nascondere, di non farsi udire da nessun animale designato come preda.
«Se vuoi rischiare allora sì.»
«Devi dirmi se c’è un premio, altrimenti una sfida non ha senso.»
«Niente consolatori “l’importante è partecipare”?» chiese tagliente lei.
«Non se so di poter vincere.»
Sulle labbra di Artemide sbocciò di nuovo uno dei suoi sorrisi: forgiato nella furbizia più fredda e disegnato con le ombre per sfiorare l’inquietante. Più che una giovane donna felice per l’imminente pomeriggio di passatempi pareva una ragazzina inconsapevole pronta alle peggiori follie pur di stringere fra gli artigli una vittoria.
«Non giocare con il fuoco, mortale», lo rimbeccò. «Stai parlando con una delle figlie di Zeus.»
Ma Orione sapeva che aver timore d’Artemide, per lui, era sciocco e inutile, così si permise anche d’alzare gli occhi al cielo.
«Certo mia signora, Artemide Basileia[1]
La giovane recuperò arco e frecce e gli mostrò il palmo di una mano all’altezza del volto per accennargli di stare zitto; dovette stendere quasi del tutto il braccio per riuscire nell’intento mentre lo superava.
«Fammi il favore.»
Dopo averlo oltrepassato di qualche passo parve rendersi conto di qualcosa. Si voltò e allungò le dita verso il viso di Orione. Sfiorò le cicatrici accanto ai suoi occhi.
«È stato un viaggio fruttuoso? A Lemno, intendo.»
Lì si era diretto Orione e da lì era tornato.
Era stato strano per lui rimettervi piede senza essere inseguito da un re furioso per le attenzioni riservate alla figlia.
Il cacciatore annuì.
«Efesto è stato cortese.»
«Li ha riparati?»
Gli occhi di Orione non erano più gli stessi da molti anni, ormai; la cupidigia di quand’era ragazzo, sfumante nell’inconsapevolezza che l’aveva spinto a sottovalutare la crudeltà dei provvedimenti di un sovrano s’erano estinte come la sua vista aveva fatto per quasi due volte. Aveva dovuto abbandonare Delo settimane prima per raggiungere Lemno, nella speranza che Efesto riparasse quegli occhi artificiali forgiati solo per lui: l’impalcatura dorata insisteva sulla pelle e sorreggeva quelle che sembravano due gemme sfaccettate, più azzurre del cielo terso. Artemide ricordava ancora l’angoscia di averlo visto attaccare da un puma; Orione si era liberato da solo, ma era svenuto prima che lei riuscisse a raggiungerlo. Era stata l’ultima volta che aveva visitato il palazzo di Eos. Poi Orione si era svegliato e, con un occhio scheggiato e privo del proprio bagliore vitale aveva insistito per raggiungere Lemno da solo.
Ma ora sembrava stare bene, non più cupo come quando aveva creduto di aver perso di nuovo parte di quel dono ormai divino.
Artemide non sapeva cosa vedesse Orione, né come lo vedesse.
Grazie al cielo il fabbro degli dei aveva scelto d’essere misericordioso una seconda volta e le crepe su quei due gioielli erano sparite. Erano tornati ad essere brillantemente inquietanti. Artemide diceva solo che a lei parevano belli. Un momento, forse l’aveva sempre e solo pensato, non detto.
«Vedo i bersagli, se è questo che ti preoccupa.»
Orione rispose con un sorriso beffardo, perché in qualche modo doveva pur gestire il contatto delle dita di Artemide con il proprio viso.
La dea le ritrasse in fretta.
«Mi preoccupava stessi bene», lo liquidò. «Andiamo? Elio non aspetterà noi per far tramontare il sole.»
Era sempre Artemide: caustica e frettolosa, incapace di soffermarsi sui propri sentimenti per più di qualche istante. Rapida come una freccia scoccata dal suo arco infallibile.
Ma ad Orione, Artemide piaceva anche per questo.
Soprattutto per questo.
 
 
«Ti sei davvero offesa per non aver vinto?»
«Mi sono offesa perché era diventato gioco di squadra e se tu non ti fossi deconcentrato avremmo preso quel cinghiale.»
Orione le camminava accanto con gli occhi puntati alle fronde degli alberi come alternativa al cielo che da lì, lo scrosciare del ruscello poco lontano, non poteva vedere.
Avrebbe ribattuto ricordandole che di cinghiali ne aveva catturati a centinaia durante la sua intera vita di cacciatrice, ma lui era come Artemide: quando un animale diveniva preda non era ammesso perderlo, si trattava di una questione di principio. Un lieve senso d’irritazione solleticava anche lui, per l’errore compiuto distraendosi; cacciare con Artemide significava cacciare a un livello superiore a quello dei comuni mortali. E lui lo era, un comune mortale: brillante, abile e scaltro. Ma era pur sempre un mortale che giocava nella categoria fuoriserie degli dei, e spesso non era facile.
Così incassò la critica di Artemide e restò in silenzio.
Quando un animale diviene preda, vederlo fuggire è un’onta, una spina avvelenata dritta nell’orgoglio. E Artemide d’orgoglio ne aveva da vendere.
«Prenderemo il prossimo», oppure «La prossima volta andrà meglio». Palliativi inutili che sulla dea della caccia non sortivano alcun effetto. Non ci sarebbero riusciti nemmeno se Orione ne fosse stato convinto – e ne era convinto, che quella stessa notte la loro battuta sarebbe andata meglio –, figurarsi se era il primo a non pronunciare con certezza quelle parole perché il fastidio di Artemide era il suo.
Erano diretti al ruscello per dissetarsi, il fiato corto ormai risanato in entrambi. Le clavicole di Artemide, lasciate scoperte dal chitone che ricordava un drappo di marmo per la sua compostezza nonostante la corsa nel fitto sottobosco, erano imperlate di sudore così come il viso della dea.
Quel cinghiale l’aveva davvero messa a dura prova.
A Orione l’immagine scomposta di Artemide non dispiaceva: il volto corrucciato, le labbra serrate in una linea che puntava pericolosamente verso il basso. I capelli erano ancora stretti nella morsa del suo laccio di cuoio; chiedeva pietà dopo la fatica di mantenere unite le ciocche durante la corsa.
Sembrava più umana, così. O più che umana, meno inarrivabile di quanto normalmente non fosse.
Una volta giunti sui ciottoli che facevano da confine al ruscello, Artemide abbandonò arco e faretra su un masso alto fino alle sue ginocchia. Si slacciò i sandali e senza troppe preoccupazioni mosse qualche passo fra le correnti fresche. Le bagnavano a malapena le cosce.
Raccolse una coppa d’acqua con le mani e si bagnò il viso prima di bere qualche sorsata.
Orione preferì dissetarsi a bordo del rio.
«Devo voltarmi dall’altra parte?» fece Orione.
Artemide si sollevò e fece un cenno in sua direzione, l’espressione confusa ma di certo allietata dal sollievo dato dall’acqua: stava dimenticando la caccia infruttuosa.
«Sbaglio o hai fatto fuori qualcuno che ti aveva vista fare le tue abluzioni?»
La dea fece una smorfia.
«Non hai occhi che per Eos», gli fece notare. «Non credo di dovermi preoccupare di te.»
Artemide percepì un moto di fastidio tanto forte da non essere nemmeno sfiorata dal pensiero che quello stesso pungolo potesse averlo provato Orione alle sue parole. Lui però sorrideva.
Artemide era certa di doversi preoccupare di più per sé, che non per lui.
Era lei ad essere terribilmente confusa, a sentirsi tremendamente strana. E a sentirsi spaventosamente stupida: Orione era innamorato di Eos. Lei era la sua compagna di caccia, una sua amica. Solo questo sarebbe rimasta, per una serie di questioni tanto spirituali quanto burocratiche: una dea vergine che viene meno ai suoi voti non è esattamente un buon esempio; le ragazzine d’Atene avrebbero smesso di essere inviate al suo tempio perché nessuno le avrebbe affidate alla protezione di una dea voltafaccia. C’era già Afrodite per quel ruolo.
Quando Artemide stava con Orione si sentiva confusa. Confusa dalla sua voce, dalle sue parole. Quel mattino quando l’aveva visto addormentato sulla spiaggia per poco non era inciampata sui propri stessi passi.
Orione le faceva uno strano effetto. Un effetto che ad Artemide capitava di rado di provare; lo sentiva raccontare da Apollo, che si accalorava per uno sguardo o una parola e non faceva che parlarne.
Artemide non era così. Artemide era distaccata, molto più posata circa i sentimenti di quanto non fosse il gemello. Lei stava a compostezza come lui stava a trasporto e trovarsi nella condizione contraria la agitava quanto e forse più di quando sentiva Orione parlare di Eos.
Udì un diverso scrosciare dell’acqua e si accorse che anche Orione era entrato nel ruscello.
«Ti dovresti rilassare.»
Perché fosse tanto in sintonia con lui poi, che aveva proprio l’aria di un bonaccione tutto battute, caccia e poco altro, Artemide non lo capiva. Forse perché erano accomunati da quella che era la sua passione più grande. Forse perché era gentile. E forse perché era una delle poche persone da cui non sentiva l’esigenza di allontanarsi, perché sapeva condividere il silenzio.
Ma Artemide era diretta e chiara: non le piaceva essere confusa e se qualcosa la confondeva la rifuggiva, s’allontanava. Significava mancanza di compatibilità e non vedeva ragioni per perderci tempo.
Forse in fondo era masochista. O curiosa di capire.
«Pensi di poter dare consigli a una dea?»
«Non mi è mai parso tu volessi essere trattata come una dea.»
Artemide sorrise sorniona.
«È terribilmente noioso. Ci sono mille cose che non puoi fare se sei una dea.»
«Del tipo?»
Artemide allargò le braccia; sembrava volesse invitare l’intera isola a raccogliersi contro il suo petto perché era l’unico modo per farle comprendere che era quanto di più caro avesse al mondo.
«Tutto questo» rispose. «Quante dee credi si divertano a cacciare? O a starsene a piedi scalzi in mezzo all’erba? O a preferire gli animali ai templi venerati dagli uomini?»
«Una di certo», fece Orione. «Tu, Artemide. Tu tutto questo lo fai ogni giorno.»
Ancora quella scomoda sensazione, martellante e furiosa com’era il fiume più in alto, rapido e inesorabile.
«Infatti sull’Olimpo dicono che sono una selvaggia.»
«Chi lo dice?»
«Afrodite», fece lei. L’ombra di un sorriso inquietante. «Ha detto anche che sono un maschiaccio. Subito dopo ho scoccato una freccia che le ha portato via una ciocca di capelli.» Rise. «Ha strillato per ore.»
Sembrava andarne orgogliosa e Orione ridacchiò con lei, anche se pregò qualche istante che la dea dell’amore non lo udisse pensando bene di punirlo: ne aveva già passate abbastanza.
«Non sei un maschiaccio, sei divertente.»
«Davvero?»
Lo chiese con un’espressione di genuina sorpresa ad arcuarle le sopracciglia. Le labbra erano arrotondate per lo stupore, appena schiuse.
«Davvero», le rispose l’uomo. «Con nessun’altra dea potrei fare questo.»
Artemide si chiese cosa intendesse, ma fu un secondo perché subito dopo uno spruzzo d’acqua le bagnò i vestiti.
Tutti parlavano di Orione descrivendolo come un gigante leggendario; dicevano che la sua ombra oscurava campi e città e che la sua testa riusciva a fare capolino tra le cime degli alberi più alti. In realtà era solo un uomo particolarmente alto e nerboruto persino in confronto ad Artemide, che non era esattamente la più minuta fra gli olimpi.
Ma le leggende, si sa, vengono da mille e più persone diverse e ancora da nessuna.
Se c’è un fatto di certo più concreto di una leggenda, questo è che da grandi stazze derivano grandi quantità d’acqua raccolte con le dita: Artemide si ritrovò colpita da quella che le parve una secchiata.
Il chitone le aderì al corpo, ma non ebbe il tempo per notarlo.
«Brutto…!»
Imitò Orione, colpendolo agli occhi con uno spruzzo. Ben presto quella lotta a distanza si trasformò in una rissa ben più scomposta e confusa: Artemide gli si aggrappò a un braccio e tentò di farlo rovinare nella corrente del ruscello, ma avrebbe dovuto immaginare che la meglio non sarebbe spettata a lei, non se Orione non intendeva farla vincere. Con lui avrebbe dovuto usare l’astuzia, non la mera forza bruta che la vedeva in notevole svantaggio.
Orione la disarcionò dalle proprie spalle e con un tonfo Artemide cadde in acqua. Venne inghiottita dai flutti e nonostante il suo corpo fosse ben visibile attraverso le pieghe incessanti della superficie non si mosse subito.
Riemerse poco dopo, fradicia e scomposta, gli occhi sgranati per quella che Orione non seppe se definire sorpresa, rabbia o forse dolore.
Gli fu inevitabile preoccuparsi, almeno un poco.
«Oh Dei… Artemide, ti ho fatto male?» Le porse la mano. «Non volevo.»
Più che di una saetta dal padre degli dei o una freccia in mezzo agli occhi, Orione sembrava genuinamente preoccupato solo per lei. Artemide si sarebbe potuta sentire in colpa, ma l’avrebbe fatto dopo: prese la sua mano e lo strattonò. Orione poteva essere forte, ma opporre resistenza a un attacco imprevisto sarebbe stato impossibile anche per lui.
Così anche se questo costò ad Artemide un secondo tuffo nell’acqua che ormai poco poteva nuocerle, ottenne la propria infantile vittoria.
Orione riemerse con i capelli di mogano incollati al viso. Lei sorrise.
«Mai abbassare la guardia, mio prode cacciatore.»
«Sei seria? Io ero preoccupato», annaspò dopo aver sputato l’acqua che aveva bevuto.
Si guardarono qualche istante, poi scoppiarono a ridere.
Artemide s’accorse solo allora di quanto Orione fosse vicino, un ginocchio fra le sue cosce per sorreggersi e il viso a un palmo dal suo. E solo allora Orione realizzò quanto Artemide fosse scomposta, il laccio di cuoio ormai in fuga tra le rapide del ruscello; aveva i lunghi capelli castani sciolti sulle spalle, fradici e arricciati a causa dell’acqua. Persino la sua tunica bianca e immacolata aveva smesso d’essere perfetta: così zuppa le aderiva al corpo e seguiva la linea del seno e della vita. Era vestita, eppure era quanto più vulnerabile Orione l’avesse mai vista.
Un cacciatore è istintivo, fiuta l’aria e i minimi cambiamenti nei suoni. Valuta il momento giusto e agisce, rapido e fulmineo. Persino allora né Orione né Artemide riuscirono a scordarsi cos’erano tutti i giorni: due predatori che quel giorno avevano fallito già una volta.
Artemide portò le dita sotto il suo mento ispido di un accenno di barba e gli fece alzare il viso.
«È più di quanto qualsiasi uomo abbia mai visto.»
Orione sentì l’esigenza di aprire la mano a ventaglio dietro la sua schiena, quasi avesse bisogno di essere sorretta.
«Dunque cosa vuoi fare ora?» le chiese. «Cavarmi gli occhi anche tu o farmi inseguire da qualche bestia feroce?»
Artemide sbuffò una risata nonostante quella battuta macabra.
«Pensavo di lasciarti continuare a guardare», rispose, sfiorando la spilla che sorreggeva il suo chitone.
Se l’avesse schiusa la corrente si sarebbe portata via la stoffa.
Si avvicinò alle labbra del cacciatore e Orione, dal canto suo, fece altrettanto. Le portò una mano sul viso, le dita fra i capelli e le parve tutto così naturale, così semplice da domandarsi perché tanto a lungo se lo fosse negata.
«Non dovremmo.»
«Per i miei voti?» fece lei.
«E per Eos.»
Artemide si arrestò e lo guardò negli occhi. Si era scordata di lei o era almeno riuscita a fingere di riuscirci.
«Eri furioso con Eos.»
«Sono furioso con Eos», ripeté. «Ma non posso stare con te. Non sarebbe giusto.»
«Pensi ai miei o ai suoi sentimenti quando lo dici?»
«A quelli di entrambe.»
Artemide si sfilò da sotto di lui, si mise in piedi e fece il possibile per scollare la stoffa dalla pelle. Pregò in cuor suo che il sole asciugasse i suoi vestiti in fretta, ma non ce ne sarebbe stato motivo: se Elio l’avesse graziata Apollo avrebbe saputo. E si vergognava abbastanza da sola, senza che ciò accadesse.
«Aspetta, puoi usare la mia pelliccia per coprirti.»
Artemide conosceva mille storie su quella pelliccia e alcune coinvolgevano anche lei. Allora l’ultima cosa che voleva era un aiuto da parte di Orione, seppure quell’intera situazione fosse colpa sua. Averla creata la costringeva a stringersi nelle spalle e a desiderare di sparire.
«Non ho bisogno della tua pelliccia», lo liquidò. «Non ho ragione di nascondermi.»
Invece ne aveva fin troppe.
Ma non restò abbastanza a lungo per dirglielo.


[1] Uno degli epiteti di Artemide. Significa “sovrana”.



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Volevo scrivere questa storia da davvero tanto tempo, perché Artemide è un personaggio della mitologia greca che mi affascina molto. La settimana scorsa, infine, sono riuscita ad avere l'ispirazione necessaria per questa mini-long composta da quattro capitoli.
Non voglio dilungarmi troppo, in realtà nemmeno sul titolo di cui svelerò il significato con l'ultimo capitolo perché, pur essendo in effetti un altro epiteto di Artemide, potrebbe spoilerare un po' la direzione della storia.
Voglio solo dire che la storia non seguirà una versione specifica: ne ho lette diverse e da altrettante ho preso spunto, seguendo la logica del "se sono state narrate, un fondo di verità starà un po' in ognuna!"
Conto di aspettare qualche parere prima di pubblicare il seguito, ma la storia è comunque già conclusa.
Ringrazio chiunque sia giunto fin qui e spero vogliate farmi sapere cosa ne pensate!
Alla prossima! ~

 
   
 
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