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Autore: Mannu    02/08/2009    0 recensioni
"L’unica cosa che Gambrath era riuscito a fare era stato rinchiudersi nella taverna più economica che fosse riuscito a trovare, dove con una moneta al giorno mangiava e dormiva insieme alla schiava, in uno stanzino piccolo e buio, puzzolente di muffa e col soffitto basso. Si era rassegnato ad aspettare che l’ira del centurione sbollisse e, vista la gente che frequentava quelle parti, dormiva con un occhio solo col terrore di essere derubato e con il coltello sempre a portata di mano."
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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- Questa storia fa parte della serie 'I libri della grande Taliba'
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Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 12
12.

Nuvole nere di tempesta oscuravano il cielo: dopo un viaggio reso difficile dal terreno intriso d’acqua, finalmente Gambrath era giunto in vista della stazione di posta, la cui familiare sagoma scura si stagliava ormai vicina, in contrasto col grigio uniforme della terra e del cielo.
Era contento che fosse ancora in piedi e sperava ardentemente che gli scagnozzi di Skon non si fossero fatti vedere. A prima vista la costruzione bassa e lunga sembrava intatta, ma la visibilità era scarsa e la distanza eccessiva per esserne certi. Come sempre, non il più piccolo barlume era visibile dall’esterno. Con questo dubbio che gli pesava nel petto, Gambrath si avvicinò, all’erta e guardingo, anche se sapeva che se avesse incontrato gli uomini di Skon, sarebbe stata morte certa.
Invece il mercante giunse a portata di voce senza alcun incidente: vedeva un po' meglio la costruzione che sembrava davvero intatta. Nessuna bruciatura, nessun segno di danni, ma neanche un segno di vita. Gambrath si fece coraggio e raccolto un po' di fiato emise il richiamo.
Dopo pochi istanti la porta grande si aprì e il cuore del mercante si alleggerì da ogni dubbio quando vide comparire sulla soglia la nota sagoma di Cambler, l’oste. Spronò il bue bianco per accelerare un po', tale era la gioia di rivedere quell’uomo.
- Cerco rifugio, oste!
- Sei il benvenuto, mercante! - fu la cordiale risposta di Cambler. Poi questi oltrepassò la soglia per andare incontro al viaggiatore.
Si incontrarono a metà strada e Gambrath saltò giù dal carro in segno di rispetto. I due si salutarono stringendosi le mani e dandosi pacche sulle spalle.
- Vieni, Gambrath: portiamo il tuo carro nella stalla prima che cominci a piovere.
- Dovrai raccontarmi un bel po' di cose, amico mio: come ve la siete cavata? I soldati sono stati qui?
- Non avere fretta: ti racconterò tutto mentre mangerai un piatto della zuppa di Rama. A proposito: promettimi che quando partirai porterai con te la tua schiava. Una va bene, ma due sono troppe!
- Padrone! Padrone!
Gambrath si voltò e vide Lerea che correva a perdifiato verso di lui, uscita dalla porta lasciata aperta da Cambler. La vide corrergli incontro chiamandolo padrone, ansante, rischiando a ogni passo di inciampare nei veli della veste che si sporcava sempre più di fango fresco. Quando fu vicina si gettò in ginocchio nel fango ai suoi piedi, gli abbracciò le ginocchia e vi nascose il volto, singhiozzando.
- Hai speso bene le tue monete, Gambrath - commentò Cambler - nonostante la sua bruttezza, questa schiava le vale tutte.
- Non sapevo che avessi i gusti di un Candriano, Cambler.
Così dicendo afferrò Lerea per le braccia e la costrinse a sollevarsi in piedi. Osservò il giovane viso pallido e rotondo rigato di lacrime e arrossato dal pianto. Il labbro inferiore tremava leggermente.
- Tutto bene? - le chiese - Ti hanno fatto del male?
Lerea cercava di reprimere i singhiozzi e non osando parlare fece cenno di no con la testa.
- Bene. Dopo controlliamo. Adesso calmati, eh?
- Padrone… sono così felice… - disse lei riprendendo un po' di autocontrollo.
- Anch’io, Lerea… anch’io.
- Andiamo alla stalla, padrone - disse poi, osando afferrare Gambrath per un polso e tirandolo in direzione della porta della stalla, chiusa.
- Vieni, non te ne pentirai! - aggiunse.
Gambrath non ebbe altra scelta che farsi portare da Lerea fino alla stalla. Sempre incitato da lei, ebbra di gioia, aprì la porta che non era sprangata.
La stalla era piuttosto affollata: riconobbe subito il carro di Rambel’ Marè e diversi buoi e cavalli che dovevano essere sempre di sua proprietà o di Rendel Lorente, il suo ultimo datore di lavoro. Comparve il muscoloso e taciturno figlio di Cambler, con in mano una cavezza. Alla cavezza era legato un bue grigio che il mercante riconobbe in un attimo: era il vecchio Oslob, strigliato e ben pasciuto come raramente lo era stato.
Il cuore del mercante si riempì di calore e felicità: non solo i suoi amici erano salvi, ma avevano anche recuperato ciò che gli era stato tolto dai soldati della guarnigione di Taliba. Questo era importante perché Gambrath era affezionato al vecchio Oslob e perché così finalmente poteva liberarsi dei pesanti debiti nei confronti dell’amico Rambel’ Marè, in osservanza di una delle più importanti regole del mercante: mai avere debiti di nessun genere con nessuno.

Dora si guardò nel suo piccolo specchio e si accarezzò i fianchi, tornati abbondanti e morbidi; guardò il proprio ventre, molle e un po' sporgente e i seni, piccoli e flaccidi a confronto di quelli di Dora Guerriera, forte, bella e coraggiosa.
Guardò la spalla che era stata ferita durante il combattimento con quel gigante: solo osservando con attenzione era possibile vedere una cicatrice sottilissima ma lunga da far spavento.
Si sentiva stanca e demoralizzata, quasi sconfitta. Coloro i quali aveva creduto di aiutare l’avevano scacciata e trattata male. Non se lo sarebbe mai aspettato, ragion per cui ora a bruciare erano altre ferite. Ferite dentro.
- Ingrati - pensò ad alta voce, sapendo però che avevano ragione. Non riusciva a rassegnarsi a questo, ma aveva sbagliato qualcosa. Cercava di tranquillizzare la propria coscienza, ma non ci riusciva.
Guardò la parete del bagno dove si apriva il Varco: non si poteva vedere nulla di anormale ma lei sapeva che era ancora lì. Lo sentiva dentro di sé, dentro il cervello, dentro il cuore, dentro le viscere.
Uscì dal bagno chiudendosi la porta alle spalle con particolare cura: il suo monolocale non gli era mai sembrato così piccolo e angusto. Mettendosi a letto per dormire quelle poche ore che la separavano dal mattino di Apollo, una semplice formalità come altre in una vita scandita dall’illuminazione artificiale e dall’orologio di sistema che sincronizzava l’intera Stazione, pensò al Varco.
Un giorno o l’altro lo avrebbe attraversato ancora.
   
 
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