12.
Nuvole nere di tempesta oscuravano il cielo:
dopo un viaggio reso difficile dal terreno intriso
d’acqua, finalmente Gambrath era giunto in vista
della stazione di posta, la cui familiare sagoma
scura si stagliava ormai vicina, in contrasto col
grigio uniforme della terra e del cielo.
Era contento che fosse ancora in piedi e
sperava ardentemente che gli scagnozzi di
Skon non si fossero fatti vedere. A prima
vista la costruzione bassa e lunga sembrava
intatta, ma la visibilità era scarsa e la distanza
eccessiva per esserne certi. Come sempre, non
il più piccolo barlume era visibile dall’esterno. Con
questo dubbio che gli pesava nel petto,
Gambrath si avvicinò, all’erta e guardingo,
anche se sapeva che se avesse incontrato gli
uomini di Skon, sarebbe stata morte certa.
Invece il mercante giunse a portata di voce senza
alcun incidente: vedeva un po' meglio la
costruzione che sembrava davvero intatta. Nessuna
bruciatura, nessun segno di danni, ma neanche un
segno di vita. Gambrath si fece coraggio e
raccolto un po' di fiato emise il richiamo.
Dopo pochi istanti la porta grande si aprì e il
cuore del mercante si alleggerì da ogni dubbio
quando vide comparire sulla soglia la nota
sagoma di Cambler, l’oste. Spronò il bue bianco
per accelerare un po', tale era la gioia di
rivedere quell’uomo.
- Cerco rifugio, oste!
- Sei il benvenuto, mercante! - fu la cordiale
risposta di Cambler. Poi questi oltrepassò la
soglia per andare incontro al viaggiatore.
Si incontrarono a metà strada e Gambrath saltò
giù dal carro in segno di rispetto. I due si
salutarono stringendosi le mani e dandosi
pacche sulle spalle.
- Vieni, Gambrath: portiamo il tuo carro nella
stalla prima che cominci a piovere.
- Dovrai raccontarmi un bel po' di cose, amico mio:
come ve la siete cavata? I soldati sono stati qui?
- Non avere fretta: ti racconterò tutto mentre mangerai
un piatto della zuppa di Rama. A proposito:
promettimi che quando partirai porterai con te
la tua schiava. Una va bene, ma due sono troppe!
- Padrone! Padrone!
Gambrath si voltò e vide Lerea che correva a
perdifiato verso di lui, uscita dalla porta
lasciata aperta da Cambler. La vide corrergli
incontro chiamandolo padrone, ansante, rischiando
a ogni passo di inciampare nei veli della veste
che si sporcava sempre più di fango fresco. Quando
fu vicina si gettò in ginocchio nel fango ai suoi
piedi, gli abbracciò le ginocchia e vi nascose
il volto, singhiozzando.
- Hai speso bene le tue monete, Gambrath - commentò
Cambler - nonostante la sua bruttezza, questa
schiava le vale tutte.
- Non sapevo che avessi i gusti di un Candriano,
Cambler.
Così dicendo afferrò Lerea per le braccia e la
costrinse a sollevarsi in piedi. Osservò il
giovane viso pallido e rotondo rigato di lacrime
e arrossato dal pianto. Il labbro inferiore
tremava leggermente.
- Tutto bene? - le chiese - Ti hanno fatto del male?
Lerea cercava di reprimere i singhiozzi e non osando
parlare fece cenno di no con la testa.
- Bene. Dopo controlliamo. Adesso calmati, eh?
- Padrone… sono così felice… - disse lei
riprendendo un po' di autocontrollo.
- Anch’io, Lerea… anch’io.
- Andiamo alla stalla, padrone - disse poi,
osando afferrare Gambrath per un polso e
tirandolo in direzione della porta della stalla,
chiusa.
- Vieni, non te ne pentirai! - aggiunse.
Gambrath non ebbe altra scelta che farsi portare
da Lerea fino alla stalla. Sempre incitato da lei,
ebbra di gioia, aprì la porta che non era sprangata.
La stalla era piuttosto affollata: riconobbe subito
il carro di Rambel’ Marè e diversi buoi e cavalli che
dovevano essere sempre di sua proprietà o di Rendel
Lorente, il suo ultimo datore di lavoro. Comparve il
muscoloso e taciturno figlio di Cambler, con in mano
una cavezza. Alla cavezza era legato un bue grigio che
il mercante riconobbe in un attimo: era il vecchio
Oslob, strigliato e ben pasciuto come raramente lo
era stato.
Il cuore del mercante si riempì di calore e felicità:
non solo i suoi amici erano salvi, ma avevano anche
recuperato ciò che gli era stato tolto dai soldati della
guarnigione di Taliba. Questo era importante perché
Gambrath era affezionato al vecchio Oslob e perché
così finalmente poteva liberarsi dei pesanti debiti
nei confronti dell’amico Rambel’ Marè, in osservanza
di una delle più importanti regole del mercante: mai
avere debiti di nessun genere con nessuno.
Dora si guardò nel suo piccolo specchio e si
accarezzò i fianchi, tornati abbondanti e morbidi;
guardò il proprio ventre, molle e un po' sporgente
e i seni, piccoli e flaccidi a confronto di quelli
di Dora Guerriera, forte, bella e coraggiosa.
Guardò la spalla che era stata ferita durante
il combattimento con quel gigante: solo osservando
con attenzione era possibile vedere una cicatrice
sottilissima ma lunga da far spavento.
Si sentiva stanca e demoralizzata, quasi sconfitta. Coloro
i quali aveva creduto di aiutare l’avevano scacciata
e trattata male. Non se lo sarebbe mai aspettato,
ragion per cui ora a bruciare erano altre
ferite. Ferite dentro.
- Ingrati - pensò ad alta voce, sapendo però che
avevano ragione. Non riusciva a rassegnarsi a
questo, ma aveva sbagliato qualcosa. Cercava di
tranquillizzare la propria coscienza, ma non ci
riusciva.
Guardò la parete del bagno dove si apriva il
Varco: non si poteva vedere nulla di anormale ma
lei sapeva che era ancora lì. Lo sentiva dentro di
sé, dentro il cervello, dentro il cuore, dentro le
viscere.
Uscì dal bagno chiudendosi la porta alle spalle con
particolare cura: il suo monolocale non gli era mai
sembrato così piccolo e angusto. Mettendosi a letto
per dormire quelle poche ore che la separavano dal
mattino di Apollo, una semplice formalità come altre
in una vita scandita dall’illuminazione artificiale
e dall’orologio di sistema che sincronizzava l’intera
Stazione, pensò al Varco.
Un giorno o l’altro lo avrebbe attraversato ancora.