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Autore: Lady R Of Rage    19/12/2019    8 recensioni
"Guarda il soffitto, il muro, il pavimento, di nuovo il soffitto, si volta in su e in giù e di lato. Nessuna posizione è comoda, fa troppo caldo sotto le coperte e troppo freddo senza di esse. Se ci fosse Monet potrebbe scaldarla con un abbraccio, rinfrescarla con una carezza del suo Neve Neve.
Ma Monet non c’è più. Che si congeli pure.
La porta cigola, qualcosa batte contro la pietra. Sarà un cameriere, venuto a raccogliere i vestiti usati o roba del genere. Farà quello che deve fare e la lascerà da sola, come di dovere. Ha gli occhi gonfi, la bocca riarsa, il volto in fiamme. Può anche essere passato un anno, continua a non importare.
Ma i camerieri, realizza, e sgrana gli occhi contro la federa del cuscino, non fanno quel rumore viscido a ogni passo. Eppure lui lo sa, che in certi posti non deve entrare. Non si permetterebbe, non adesso. Sarebbe un affronto troppo grosso persino per…
-Ne? Ne?-
"
Monet è morta – Sugar è rimasta sola, a digerire il peggior lutto immaginabile, con mille ricordi in testa che improvvisamente fanno male.
Forse, tuttavia, la persona giusta con cui sfogarsi è quella più inaspettata.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Donquijote Family, Sugar, Trébol, Violet
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'Gli Alti E I Bassi Della Famiglia Donquixiote'
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Quando C'era Monet


Quando il Padroncino sale alla Torre Ufficiali le basta guardarlo in faccia per capire.
Apre la bocca, ma Sugar è già in ginocchio, e pesta i pugni per terra ripetendo no, no no.
Vergo ci poteva stare. L’avrebbe dimenticato, come lei e Monet avevano fatto con le carogne che per anni le hanno usate. A malapena lo aveva incontrato, quello: vedere Diamante e Trebol che si tenevano per mano come se senza potessero frantumarsi era brutto, ma nulla che potesse capire.
E meno male, perché nessuno schiaffo o calcio dei padroni ha mai fatto così male.

-Vorrei stare sola, Padroncino.- sussurra contro la federa.
Le rimbocca le coperte, come se davvero avesse dieci anni, anzi meno. Sarebbe dolce, se così potesse essere. La Prima Ufficiale del famigerato Z aveva il potere di far ringiovanire le cose, o si sbaglia? Se avesse lei, quell’abilità: rimpicciolirsi sempre più, fino a non avere nemmeno più contorni. Tornare indietro fino ad essere uno zero nella pancia della sua mamma e godersi il silenzio, la pace, senza più sentirsi sul punto di spaccarsi in due.
La porta si chiude: dovrebbe andarla a chiudere a chiave, e le finestre con lei, ma le sue gambe sono rigide come pezzi di legno e non si muovono. Potrebbe usare il Contratto su sé stessa, per ricordarsi come si esiste e come ci si muove.
L’aveva abbracciata, quando si erano salutate, e nonostante il suo Frutto del Diavolo era calda come ogni abbraccio dovrebbe essere. -Continua così,- aveva detto. -La prossima volta che ci vediamo voglio un giocattolo anch’io.-
Te ne porterei dieci, cento, mille. Tutta Dressrosa deve appartenerti, se significa che rimani.
Il Padroncino non piangeva, o se lo faceva era ben nascosto dagli occhiali. Deve essere dispiaciuto, almeno un po’: è stato lui, a mandarla laggiù. E quell’infame d’un Vergo non ha fatto nulla per proteggerla con la sua famosa Ambizione? Non importa, è morto anche lui: almeno Monet non starà da sola, dovunque è finita.
Lei, da sola, vuole starci. Sparire sotto le coperte e i cuscini finché non sente e non vede più nulla. Monet ha passato metà della sua vita in quel posto di merda, senza conoscere la morbidezza di un materasso o il sollievo di una trapunta in cui avvolgersi, ed così ingiusto che le viene voglia di urlare. Serra i denti contro il cuscino e strepita, mentre le lacrime bruciano sulla sua lingua come acido.
Si sveglia una volta, due volte, forse anche dieci – che ne sa, non ci capisce niente, e al momento non importa. Magari i giocattoli che ha creato in quei dieci anni sono diventati umani, si sono ribellati e hanno preso prigioniera tutta la sua famiglia. Non importa. Le facciano quello che gli pare, non farà più male di così.
Guarda il soffitto, il muro, il pavimento, di nuovo il soffitto, si volta in su e in giù e di lato. Nessuna posizione è comoda, fa troppo caldo sotto le coperte e troppo freddo senza di esse. Se ci fosse Monet potrebbe scaldarla con un abbraccio, rinfrescarla con una carezza del suo Neve Neve.
Ma Monet non c’è più. Che si congeli pure.
La porta cigola, qualcosa batte contro la pietra. Sarà un cameriere, venuto a raccogliere i vestiti usati o roba del genere. Farà quello che deve fare e la lascerà da sola, come di dovere. Ha gli occhi gonfi, la bocca riarsa, il volto in fiamme. Può anche essere passato un anno, continua a non importare.
Ma i camerieri, realizza, e sgrana gli occhi contro la federa del cuscino, non fanno quel rumore viscido a ogni passo. Eppure lui lo sa, che in certi posti non deve entrare. Non si permetterebbe, non adesso. Sarebbe un affronto troppo grosso persino per…
-Ne? Ne?-
Lo sapevo, porco cazzo. Solleva il volto dalle braccia e lo guarda con tutto il livore che può richiamare. Non merita nemmeno che gli parli, lo schifoso. Indossa dei pantaloni neri e i consueti occhiali da sole, ma è a torso nudo come se niente fosse, e il moccio gocciola imperturbabile dalle sue narici.
-Hai finito gli acini, ragazzina.-
Le porge la sua ciotola – non puoi toccare la mia ciotola, disgustoso essere, non so quante volte te l’ho detto – colma fino all’orlo di uva rubiconda e paffuta.
-Tieni, l’ho comprata adesso. La miglior vendemmia di Dressrosa.-
Sugar non muove un muscolo. -L’avrai riempita di caccole. Tienitela.-
-Moccio, non caccole. Behehehe.-
Trebol depone la ciotola di fianco a Sugar e si assesta sul bastone d’oro e brillanti. -Non hai fame, ne?-
Sugar lo guarda in cagnesco. È così brutto, con quella bocca enorme e sdentata, quella pelle lattiginosa, e quel moccio che solo a guardarlo fa rivoltare lo stomaco, da non credere che gli sia permesso di camminare in una città come Dressrosa. E di cose brutte, Sugar ne ha viste a sufficienza per una vita ben più lunga.
-Cosa pensi me ne freghi? Fa schifo uguale! Tu fai schifo!-
Raccoglie il cuscino e glielo tira dritto in faccia. Stupida scema, ora si appiccicherà tutto con quella melma e dovrò dormirci. Solo a pensarci, Trebol le fa ancora più schifo. Trebol che è molle, flaccido, stupido e brutto – quando sua sorella era leggera come l’aria, e bella come ogni meraviglia della natura. Non ho neanche potuto dirle addio.
Si getta in avanti, contro il petto dell’Ufficiale, e lo colpisce con i pugni sempre troppo piccoli.
-Dovevi morire tu, non Monet.-
Se Trebol è offeso, da quelle parole, non lo dà a vedere. Dita ossute le carezzano i capelli, le massaggiano la nuca con fare paterno. Sugar porta una mano allo stomaco: si sente svenire.
-Ti odio! Ti odio! Fai schifo.-
Trebol le allontana i capelli dalla faccia
-Tutti moriamo, alla fine. Tranne me.- Ammicca. -Behehehe. Ci vuole altro che uno stronzetto qualunque per buttarmi giù, ne.-
-Monet valeva mille volte te!-
-Parla pure. Se ti viene sete, l’uva te l’ho portata.-
Sugar si strofina la mano sul volto, sotto il naso. Se si mettesse a smoccolare sarebbe davvero il colmo, con Trebol che la fissa come se non sapesse che dietro quel corpo minuto c’è una donna. Una donna arrabbiata, stanca, con la testa che scoppia.
Vorrebbe graffiargli la faccia, schiaffeggiarlo finché non gli si seccano le narici, urlargli che non è giusto, che Monet non doveva morire, che avrebbe dovuto almeno salutarla e tenerle le mani mentre si freddavano. Come se non lo sapesse già. È stronzo, ma non scemo, e nessuno sa leggere le persone come lui. Ad un tratto le trema il labbro, e ansiti flebili le sfuggono tra le labbra.
-Perché è dovuta morire? Perché?-
Trebol scuote la testa, tirando su col naso. La solleva da sotto le ginocchia e la porta contro il petto, a un palmo da quegli schifosi candelotti viscidi. Sugar chiude gli occhi: non ha la forza per divincolarsi. Nonostante le costole sporgenti, Trebol ha il petto morbido. La tiene da dietro la testa, con le dita ben separate. Come se avesse già tenuto in braccio qualche bambino di dieci anni.
-Ne? Non dici niente?-
Sugar si rannicchia in una palla.
-Tanto non t’importa.-
-Ma parlerai, invece. Butta fuori questo schifo che c’hai. A me puoi dire tutto, ne?-
-Posso dirti di andare a farti fottere?-
Trebol si pulisce la mano sul suo cuscino. -Magari la prossima volta, ne. Il mio dolce Diamante si è messo a letto. È molto addolorato.-
Sugar serra i pugni. Vorrebbe prenderlo a schiaffi, ma quel moccio è sempre lì. -Allora, la prossima volta che vi incontrate, anziché occupare l’ascensore a fare porcherie, chiedi a Mister Dio Del Rock And Roll di insegnarti come si fa. Non fare come se non te ne fregasse niente.-
Trebol gratta la punta del bastone contro il pavimento. Me lo rovini, viscido infame. Si toglie gli occhiali da sole, li appende alle cinghie sul petto.
-La pensi così, ne?-
Sbatte gli occhi – luccicanti come vetro, arrossati e gonfi.
Sa piangere, è la prima cosa che Sugar pensa. Realizza solo dopo di stargli accarezzando il volto, e che le dita scarne dell’Ufficiale la stringono più forte. Persino la punta del naso gocciolante è arrossata, e le guance livide.
-Tré…-
-…bol. Ne. Mi chiamano così. Significa “fiore”. Non ci somiglio?-
Avvicina la ciotola a Sugar, deponendola nel suo grembo accanto a lei.
-Avanti. Mangia, ne. Prima che diventi uva passa.-
Gocce di muco formano una pozza sul suo pavimento, sulla sua coperta, sul tappeto a forma di orsacchiotto di fianco al suo letto. Chi se ne frega, il personale di servizio esiste per un motivo, e sicuramente loro non hanno sorelle da piangere.
-Rimettiti gli occhiali.- ringhia Sugar. -Hai degli occhi bruttissimi.-
Porta alla bocca un acino: è dolce, turgido, disseta. Trebol tira di nuovo su col naso e le stringe la spalla in segno di approvazione.

-Il mio primo ricordo è lei che piange.-
Sugar si ficca in bocca due acini assieme e li schiaccia tra i denti con forza come se fossero noccioline. -Mi prende in braccio, mi culla, e mi dice che mamma e papà si sono ammazzati.-
-Mh.- dice Trebol. -Te l’ha detto con queste parole?-
-Certo che no, pezzo d’idiota. Me l’ha detto in maniera dolce, perché ero una bambina sul serio. Mi dice che c’erano dei debiti, che dobbiamo lavorare al loro posto, e che andrà tutto bene finché sarà accanto a me.-
E lo è andato. Anche se la picchiavano, anche se non la facevano mangiare, anche se tornava con gli abiti stracciati e pieni di fango, gli occhi rossi, le mani tremanti, lividi e sangue a seconda della giornata. Era uno sgabuzzino piccolo, potrebbe entrare dieci volte nella sua stanza da letto di adesso, ma quando c’era Monet aveva abbastanza spazio da mettersi a ballare.
-Ne.- Trebol acchiappa un acino, se lo lancia in bocca. Storce la faccia e se lo sputa nel cappotto mucoso. -Bleah, che porcheria. Sai che noia, sempre chiusa in quella stanza.-
-Non sprecare la mia uva, bastardo. Non stavo mica sempre chiusa lì, sarei uscita scema. Ogni tanto mi facevano fare qualcosa. Dare da mangiare alle galline, pulire qualche stanza. Sapevo leggere, imparavo a scrivere. Chissà che avevano in mente, per me.-
Trebol la lascia andare, giunge le mani in grembo attorno al bastone. Fa dondolare le gambe sotto il letto di Sugar, e le catene alle sue caviglie tintinnano.
Trebol, l’uomo più libero dei Quattro Mari. Serra i denti nel disgusto mentre ingoia un altro acino. Come se Monet avesse meno diritto ad essere libera. Come se lei stessa non avesse meritato di vivere così. Improvvisamente ha freddo, ma sulla coperta c’è il culo moscio di Trebol e non può prenderla. Si stringe nella sua mantella, e porta le ginocchia al petto.
-Tiè. Stai tremando, ne.-
Trebol si alza, sfila la coperta molla da sotto il sedere e gliela porge. Sugar la tiene tra le dita, la rivolta in modo che il moccio non la tocchi, vi sparisce come un bruco nel bozzolo. Sporge solo la mano: l’uva è sempre là, e non può farne a meno. Forse è l’unico svago che le resta.
-Allora,- ingoia un altro acino, -ti accorgi che c’è altra gente al mondo assieme a te?-
-Ne, mica sono cieco. Non mi va negli occhi, il muco. E poi sono padre, cosa credi?-
-I padri sono sopravvalutati. Se era per il mio, io e Monet morivamo nel fango.-
Invece è morta nella neve, o nel fuoco. Punk Hazard è un posto di merda, e sapere che avrebbe rincontrato Monet era un incentivo appena sufficiente per quelle visite occasionali. Persino Caesar Clown sembrava capire che non era il caso di mettersi in mezzo, quando arrivava lei. Ogni tanto trovava Vergo con dell’uva incollata alla faccia, e ne rideva assieme a sua sorella.
Andato. Tutto andato. Quei due stupidi di Baby 5 e Buffalo si sono fatti scappare Caesar, mia sorella è morta per niente. Frantuma un seme d’uva tra i denti e torna a guardare Trebol. Se il suo presente dev’essere quello – una faccia da culo col moccio al naso anziché la sua splendida, forte sorella – deve stare zitta e accettarlo per com’è.
-Una volta hanno provato a portarmi via. In un istituto, o roba del genere.-
-E lei?-
-Lei ha preso il fucile dei padroni e ha cominciato a sparare. Non ne ha beccato neanche uno. Hanno avuto culo, le carogne. Se fosse stata allenata ci sarebbero rimasti secchi. Ma io sono scappata via e mi sono nascosta tra i maiali, in mezzo al fango. Sapevo che là non mi sarebbero andati appresso.-
Trebol annuisce. -E brava, ne.-
Sugar rimescola l’uva con la punta del mignolo. -È da un po’ che non fai quella tua risata ripugnante. Hai le pile scariche?-
-Ne, se ti piace, riderò per te. Behehehe!-
Trebol, l’uomo più libero dei Quattro Mari – e anche uno dei più stronzi. Sugar rimane in stoico silenzio mentre il bastardo schizza muco contro il suo pavimento e il suo muro. Vorrebbe che fosse Trebol, il suo unico problema. Saprebbe gestirlo molto meglio.
Anche loro conoscevano Vergo da tempo, e vivevano per strada, con troppo spazio anziché troppo poco. Trebol è rachitico, gobbo, ha sulla fronte una cicatrice. Sugar giocherella con gli acini.
-E tu? Hai mai pianto?-
-Sai tenere un segreto?-
Trebol stringe le gambe al petto, come un adolescente a un pigiama party. Sta tremando, realizza Sugar: e quando raccoglie un cuscino e se lo tiene in grembo, carezzandone la superficie col pollice, è per un attimo convinta di aver davanti uno sconosciuto.
-Che ca…-
-Eravamo ragazzini. Noi tre. Io, Didi, Pica e una bella giornata di neve.-
Vergo è arrivato dopo, portando con sé la promessa di un sogno, e vivere per strada è qualcosa che Sugar non augurerebbe a nessuno. Ogni tanto nevicava, alla tenuta: Monet scaldava il tè con qualche candela e la divertiva scolpendo la neve. È così bella, rideva, e Sugar la guardava come se fosse pazza. Forse lo era davvero, ma l'importante era sopravvivere. 
-Vivevamo insieme.- continua Trebol. -Niente soldi, niente cibo, un freddo da spaccarsi le ossa e un bambino sul groppone. Un bambino bravo, buono buono, ma capisci, ne?-
-M-Mh.-
Rimarrà una manciata di acini, sul fondo della ciotola. Dovranno procurarsene altri, e sarà una bella scusa per uscire da quella stanza asfittica. Ma da seduti si parla meglio, e a Sugar non piace lasciare le cose a metà.
-Allora?-
-Ne. Una sera abbiamo raggranellato un gruzzolo decente. Un centinaio di Berry, non spettacolare, ma da mangiarci almeno qualche giorno. Mentre rientriamo nella nostra stanza – un buco in mezzo alla monnezza, ne, ma almeno stavamo al calduccio e potevamo accucciarci da brava famigliola nucleare – ci fermano dei governativi e ci chiedono il fottutissimo Tributo Celeste.-
Sugar serra le dita, e l’acino che ha in mano rimbalza sul tappeto come una biglia.
-Il Tributo Celeste? A dei bambini?-
Trebol annuisce, e dondola di nuovo le gambe. Clink, clank. La porta della rimessa faceva quel rumore, quando ce la chiudevano dentro. Una bambina inferiore avrebbe avuto paura del buio, ma lei conosceva ogni angolo e piega del legno, e poteva passare le ore a lasciare che il silenzio le si posasse addosso. Tanto Monet tornava, tornava sempre. Finché non è andata a Punk Hazard.
-Ne, sì. A quelli che gliene frega? Devono pagare i Nobili Mondiali con le loro teste a bolla del cazzo. Loro non devono assolutamente avere freddo, si fotta il resto del mondo. Noi cerchiamo di difenderci, ne. Sarà stata una delle mie prime uccisioni. Diamante era bello agile, con le mani, e Pica già tirava certi ganci da stendere un Uomo Pesce. Avresti dovuto vederci, behehehe.-
Serra il pugno, facendolo scomparire nel muco. Non è un buon attore, Trebol, e quando trema gli si scuote tutto il cappotto colloso.
-Bastardi.- sibila Sugar. -Spero gli abbiate fatto molto male.-
-Purtroppo,- sospira Trebol, -alla fine ce l’hanno fatta. Ci tocca tornare a casa a mani vuote, a leccarci i lividi e senza un pezzo di pane.-
Ci sono cinque acini, sul fondo della ciotola. Sugar ne prende uno, ma non lo porta alla bocca.
-Così rientriamo, chiudiamo a chiave. Fa un freddo che sembra sia passato Aokiji a fare la settimana bianca, e puoi solo immaginare quanto mi colasse il naso. Mettiamo Pica nel suo lettino e ci rannicchiamo a battere i denti. E D-Diamante…-
Sugar si infila l’acino in bocca. -Diamante?-
-Diamante mi guarda, ne, mi guarda, con quegli occhi pieni di fame,- prende un respiro profondo, -sai come sono fatti?-
Sugar annuisce. Ha un acino tra i denti, ma non osa mordere.
-Mi guarda, e mi chiede scusa per avermi incontrato.-
Era un altro Diamante, pensa Sugar. Una star non chiede scusa. Trebol stringe a sé il cuscino che le ha trafugato, conficcandoci dentro le unghie. Poi le mani si allentano, e si congiungono in un abbraccio sul proprio grembo. Come se avesse paura di far scappare qualcosa da dentro di sé.
Tre acini. Sugar si pulisce la bocca. Il cuscino tra le sue braccia scivola in silenzio fino al pavimento.
-E tu hai pianto?-
Trebol solleva gli occhi dalle mani giunte.
-Pianto? Behehehe, vorrai dire singhiozzato. Ero una fontana.-
Lo sei tuttora, pensa Sugar. Una schifosa fontana di moccio viscido. Trebol scivola giù dalla coperta, tambureggia sul pavimento con le dita dei piedi nudi.
-Behehehe! Adesso basta, con i ricordi brutti. Non siamo forse la Famiglia Donquixiote?-
Quel maledetto infame, che torna a ridere anche adesso che Monet è morta. Non dovrebbe ridere nessuno, non finché non ritorna a vivere come dovrebbe.
-Ne, ne. Cosa vorrebbe che facessi, tua sorella?-
Sugar mastica il penultimo acino. -Quello che pare a me.-
-È per questo che siamo qui. Noi seguiamo Doffy perché ci ha dato un sogno. Ci ha permesso di essere chi volevamo essere. Un campione acclamato dalle folle, un guerriero temuto e imbattibile, o solo…-
Allarga le braccia, gocciolando muco a cascata. -…libero. Proprio come me.-
Batte le mani, sorridendo. -Ne! Sono forte, sono ricco, sono bello. Ho un compagno delizioso e un figlio splendido. Ho la famiglia migliore del mondo. Non ho paura di niente.-
E lei deve essere coraggiosa, perché Monet lo vorrebbe. Monet che ha sanguinato nei campi e nelle cucine, tra le sue braccia, rannicchiata nella coperta o contro il muro, senza mai cadere in ginocchio, algida come la neve.
-Mi raccontava degli uccelli, la sua passione.-
Trebol stringe il bastone. -Egocentrica, considerando i fatti. Non trovi, behehehe.-
-Zitto. Non sono ancora in vena di scherzi.-
Trebol poggia l’indice sulla propria bocca. -Shh. Zip.-
Bastardo. -Aveva un libro di ornitologia, ma gliel’hanno tolto quando siamo rimaste sole. Così ripeteva a me quello che si ricordava, sera dopo sera. Se ti interessa, posso raccontarti le abitudini di corteggiamento dei gabbiani.-
Le persone muoiono quando vengono dimenticate, ma quando sono loro stesse a dimenticare, morire è anche meglio.
Ad un tratto, Sugar si sente piccola: sottile, inerme, come una delle mille e mille bambole uscite dalle sue mani. Sono stati dodici bellissimi anni, là in quella nuova casa, ma non avrebbe mai accettato la mano del Padroncino se non avesse tenuto, con l’altra, quella di Monet. È buono, il Padroncino: aveva permesso loro di dormire assieme, nel primo vero materasso della loro vita, le procurava tutta l’uva che poteva volere, la avvolgeva nel suo cappotto quando non riusciva nemmeno a capire dove fosse. Rosa, morbido, inconfondibile – come la voce di Monet, lontana e sottile, che le ricordava che era finito e che avevano trovato una famiglia nuova e vera.
Che non basta. Cazzo, non basta.
Mangia l’ultimo acino, ma l’uva è salata.
-Ne? Che c’hai adesso?-
-Mmmh…-
Si irrigidisce, mentre mani magre e molli le circondano le spalle e la tengono di nuovo stretta. C’è il petto di Trebol, nudo e tutto costole, ma pare soffice come un cuscino contro la sua guancia.
-Su, su. Lei ti adora, ne. Lo sanno tutti.-
-Mi manca tanto, Tré. Voglio che torni.-
Trebol scuote la testa, le stringe la spalla con la mano. -Neanche noi possiamo avere tutto. Va così, ragazzina. Lo sapevi già.-
-Voglio altra uva. Accompagnami in cucina. Fai la brava guardia.-
Trebol annuisce. La solleva da sotto le cosce, stringendola a un punto pulito del petto, e la culla con i suoi passi ondeggianti mentre scende le scale.

Jora veste un camice nero, e neri sono gli orecchini di perle. Stringe al petto il quaderno degli schizzi appena la vede, e lo depone contro la scrivania. I tacchi degli stivali neri tambureggiano contro il marmo mentre accorre alla porta.
-Oddio mio, Sugar…-
Trebol gliela passa senza un fiato. Sugar si lascia cullare ancora, stringere contro quei seni flaccidi che profumano di jojoba e colori ad olio. Il dito unghiuto della vecchia le solleva il mento.
-È tutto a posto, piccina. Ci siamo noi. Tua sorella ha combattuto benissimo.-
-Non c’eri,- sibila Sugar. -Che ne sai?-
-Lo dice Violet. L’ha tenuta d’occhio.- Jora si volta verso la donna più giovane. -Gliel’ha fatta vedere, a quei bastardi. È stato un malaugurato incidente, che se l’è pigliata.-
-Un orribile incidente, ma Monet è stata una guerriera esemplare.-
Anche il vestito di Violet è nero, con le maniche lunghe. Una fascia di seta nera le regge i capelli.
-Era una donna astuta, Monet. Non si poteva immaginare…-
Si avvicina a Sugar, serrando le mani allo schienale della sua sedia.
-Io vedo il tuo dolore. Lo comprendo.-
-Tienitelo per te.- mugugna Sugar. -Non m’importa niente di quella stupida Scarlett.-
-Ha ragione, Violet.- Jora pare scandalizzata. -Monet è morta combattendo, come è giusto. Non merita di essere paragonata a qualcuna che muore scappando. Dovremmo insegnarlo anche a tua nipote-zamazu.-
Violet serra le labbra, stringe la mano a un lembo dell’abito. Sugar alza gli occhi al cielo.
-Vado a fare una passeggiata. Non mi sento tanto bene. Ancora condoglianze, Sugar.-
-Non hai dieci anni, non devi dire a noi cosa fai.- Jora apre la porta della credenza e ne trae le buste del tè. All’uva, naturalmente: costa un fottio, ma non potrebbe accettare nient’altro. Viola chiude la porta alle sue spalle.
-Ignorala.- dice Trebol. -Ne, è solo gelosa che tua sorella è morta meglio della sua. Il mio splendido Diamante l’ha acchiappata al volo come le mosche, behehehe.-
-Avrei voluto vederlo.- Jora appoggia la guancia sui pugni. -“Ti prego, non mi uccidere, ho una figlia! Una scema che combatte come una poppante, ma una figlia. Sei un brutto cattivone-zamazu!”
-“Che insinui mai? Anch’io sono padre.”- sogghigna Sugar. Imita il timbro raschiato di Diamante – da rockstar, direbbe lui, ma lei lo chiamerebbe più “da bisnonno fumatore”. -“E anche da parte di mio figlio ti dico: e sticazzi?”-
Trebol solleva pollice e indice. -BANG! BEHEHEHE!-
Si alza, rattrappito sul bastone, e striscia verso il bollitore. Sugar reclina la testa contro i palmi aperti, si copre gli occhi e massaggia la fronte con le dita. Non vuole pensare alla principessina Scarlett, e la sola idea che sia paragonata a Monet le fa voltare lo stomaco. Monet non sarebbe scappata. Monet non l’avrebbe abbandonata in quel modo imbecille. Anche perché un proiettile non avrebbe potuto ucciderla, non una Logia come lei. Eppure…
-Andrà bene, Sugar. Siamo tutti qui.- Jora le carezza i capelli e le rassetta il cappuccio. -Se ti va, le posso fare un ritratto. Puoi tenerlo in camera tua.-
Non ce la vuole, una Monet finta, immobile contro le sue pareti. Fa cenno di no con la testa. È quasi un sollievo quando i passi appiccicosi di Trebol si avvicinano al tavolo, e il vassoio delle tazze viene appoggiato sul piano accanto a lei.
-Ne, ecco qua. Caldo caldo.-
Il tè all’uva fuma invitante, e accarezza dolce le narici di Sugar. Jora mescola la sua tazza zenzero e ibisco, Trebol aggiunge cucchiaini di zucchero alla sua brodaglia di corteccia. Una goccia di muco gli scivola dall’indice e galleggia nella tazza.
-Che schifo!- urla la donna-bambina. -Ti direi di morire, ma allora daresti fastidio a lei lassù.-
-Behehe, tanto non muoio. E adesso bevi quel tè o te lo verso in gola con l’imbuto.-
-Ti odio.- sussurra Sugar. Beve un sorso: è caldo, e dolce come il nome che Monet le ha dato. Si asciuga le lacrime prima che ci finiscano dentro.


A.A:
Oda ci dice che Sugar e Monet sono sorelle senza mai mostrare il loro rapporto? Screw it, una Madre Degenere non può evitare una tale opportunità di causate dolore filiale. 
Il passato di Monet e Sugar è già stato accennato in Dovunque Lei Sarà, ma per chi (bastardo!) non l'avesse letta, ecco una breve spiegazione. Non erano propriamente schiave – niente collari, e non sono state acquistate – ma erano figlie di braccianti rimaste sole dopo il suicidio dei loro genitori. Mentre a Monet veniva affidato il lavoro manuale, Sugar veniva generalmente tenuta chiusa in un ripostiglio, in attesa di servire a qualcosa. Su cosa sia preferisco glissare, non sono così degenere. 
Sono state salvate da Doflamingo e dalla sua famiglia, e diventate parte di essa avendo dimostrato la forza necessaria, e alla donna-bambina è stata affidata una guardia del corpo d'eccezione. 
Il rapporto tra Trebol e Sugar è molto freddo, in canone, ma mi piace pensare che Trebol abbia qualcosa di nascosto. A parte gli attacchi a sorpresa e la magrezza, naturalmente. Così ecco un momento tra di loro, in cui hanno qualche coccola da scambiarsi nella segretezza della stanza di Sugar. 
Sì, le implicazioni sono quelle: Trebol e Diamante hanno una cosa. Chiedetelo al povero ascensore. E sicuramente la loro relazione sarà lunga, duratura e felice
Ci vediamo presto. 
Lady R
  
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