Serie TV > Shadowhunters
Ricorda la storia  |       
Autore: Roscoe24    20/12/2019    1 recensioni
Le tre storie presenti in questa raccolta sono state scritte per il contest di novembre "Regalami un sogno" indetto dal gruppo Facebook Fanfiction Shadowhunter Ita
Genere: Azione, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ciao a tutti! Come già accennato nell’anteprima della raccolta, ognuna di queste storie è stata scritta per il contest “Regalami un sogno” indetto dal gruppo Facebook Fanfiction Shadowhunters Ita.
Per questa prima OS, le parole da usare in questa storia erano: aria, aeroporto, mentre la canzone era Lemon di Kenshi Yonezu, di cui ne trovate un frammento tradotto contrassegnato con (1)
Ringrazio Rurijo sama per avermi chiesto di partecipare a questo contest, il primo per me in assoluto, e ringrazio chiunque abbia deciso di leggere questa storia.  
Lo apprezzo tantissimo! Un abbraccio! <3



                                                                             


                                                  Isabelle rimane bloccata in aeroporto.


La sua vita era una continua corsa frenetica. Erano anni ormai che viveva negli aeroporti, in attesa dei voli che l’avrebbero portata nel posto successivo. Quando aveva scelto quella carriera, Isabelle non avrebbe immaginato che sarebbe stato così stancante.
Isabelle Lightwood era una fotografa di alta moda ed era molto richiesta. Chi lavorava con lei la definiva professionale e puntuale, precisa e piena di talento. Il segreto era che Izzy aveva coltivato la passione per la moda fin dalla tenera età. All’inizio il suo desiderio era quello di diventare una famosa stilista, ma poi il suo sogno di bambina era stato distrutto dalla realtà: era negata per il cucito e non sapeva disegnare. E se questa realizzazione aveva portato con sé un amaro periodo di tristezza e autocommiserazione, ben presto quelle emozioni erano state surclassate dalla sua determinazione intrinseca e dal fatto che aveva capito quale fosse il suo vero talento: la fotografia. Attraverso l’obiettivo riusciva a mostrare le cose sotto un punto di vista totalmente nuovo, diverso. Le sue fotografie erano vive e coglievano sempre l’aspetto migliore del soggetto, una sfumatura che sfuggiva sempre a chiunque, tranne che a lei. O almeno, questo era quello che le ripeteva sempre suo fratello Alec, che l’aveva sempre incoraggiata e sostenuta, anche quando lei stessa non sapeva come fare per sostenersi da sola.
Tu potrai anche dubitare di te stessa, ma io non lo farò mai. Devi solo ricordarti di vederti come ti vedo io, Iz.
E, di norma, Isabelle tendeva a non dubitare di se stessa, ma come qualsiasi essere umano anche lei era sottoposta a periodi di debolezza, dove le insicurezze si insinuavano nella sua mente e nel suo cuore. Ed era in quelle specifiche occasioni che le parole di suo fratello le risuonavano nelle orecchie e l’aiutavano a ritrovare la sua autostima, momentaneamente assopita.
Isabelle voleva davvero tanto bene a suo fratello. E lui ne voleva a lei. Si fidava della sua cara sorellina, tanto che le aveva chiesto di essere la fotografa al suo matrimonio.
Per questo adesso Isabelle si trovava all’aeroporto Charles De Gauelle di Parigi. Il suo volo per New York sarebbe partito a breve e lei avrebbe finalmente fatto ritorno a casa dopo tre settimane passate in Francia a fare servizi fotografici.
Era esausta. Per arrivare in tempo aveva fatto una corsa, era carica di almeno tre valige – una delle quali era enorme perché doveva contenere tutta la sua attrezzatura – e nell’aria c’era un forte odore di chiuso, misto a caffè stantio e cibo fritto, che le faceva girare la testa. Aveva un gran bisogno di dormire e l’unica cosa che non la stava facendo impazzire era la consapevolezza che nel giro di due ore sarebbe stata su un aereo diretta a casa, dalla sua famiglia.
“Posso farcela,” si disse, mentre trascinava i suoi bagagli verso l’area del check-in. Si sistemò in fila – una fila infinita – e rimase pazientemente in attesa, fino a quando lo schermo piazzato sopra alla testa dell’addetto al check-in non si illuminò, mostrando una serie di ritardi e voli cancellati.
“No-no-no-no-no, ti prego!” Mormorò tra sé, ma le sue preghiere furono inutili perché al suo volo furono attribuite quattro ore di ritardo. “Oh, ma andiamo! Che palle!” Sbuffò, sonoramente, facendo ridacchiare un ragazzo alle sue spalle. Lei si voltò immediatamente, poco in vena di essere oggetto di scherno. Era stanca, irritata, e l’ultima cosa che le serviva era un estraneo che si prendeva gioco di lei.
“Cosa ti fa tanto ridere, scusa?” domandò, voltandosi verso l’interessato.
“Nulla,” rispose quello con un’alzata di spalle, “Mi hai solo tolto le parole di bocca e ho trovato divertente la coincidenza.”
Lei lo guardò un attimo. Era carino, pensò. Una bellezza semplice, stampata su un viso che trasmetteva dolcezza. Grandi occhi castani, molto espressivi, e capelli dello stesso colore, un po’ disordinati, ma che comunque aiutavano a dare una piacevole aria sbarazzina al suo interlocutore.
Il ragazzo le sorrise con fare amichevole, mostrando una serie di denti bianchi e perfetti. “Non volevo offenderti.”
“Ci vuole ben altro per offendermi.” Commentò la ragazza, “Ciò non toglie che non si ride delle disgrazie altrui.”
“Però se sono condivise, una risata può aiutare a vedere il lato positivo della cosa.”
Izzy aggrottò le sopracciglia. “Vai anche tu a New York?” E solo in quel momento il suo cervello stanco le fece notare che fino ad adesso non avevano dialogato in francese e quindi era molto probabile che il ragazzo fosse americano.
Il ragazzo annuì.
“E dimmi, cosa ci sarebbe di positivo in quattro ore di ritardo?”
Il suo interlocutore fece spallucce. “Non lo so, forse che ci siamo incontrati? Forse il destino ha avuto pietà di me e mi ha fatto incrociare un’americana con cui poter finalmente parlare la mia lingua!”
Isabelle ridacchiò e il suo malumore dovuto al ritardo si smussò un poco. “È difficile dialogare con i francesi, se non hai una buona pronuncia.”
“Lo so!” Concordò il ragazzo, come se si sentisse capito in pieno. “Sono giorni che mi esprimo a gesti come un uomo preistorico!”
Isabelle si lasciò andare ad una risata, il suo malumore sempre più distante. “Sono Isabelle, comunque.” Gli tese la mano e il ragazzo l’afferrò, ricambiando la stretta.
“Piacere Isabelle, io sono Simon.”
“Piacere mio, uomo preistorico.”
Simon ridacchiò e dopo qualche istante, decisero di mettersi in fila insieme, uno accanto all’altra, chiacchierando per far passare il tempo mentre aspettavano il loro turno. Durante l’attesa scoprirono che il destino ci aveva messo sul serio lo zampino, facendoli persino finire l’uno accanto all’altra sull’aereo. La coincidenza fece sorridere Simon, che si scoprì ben felice di quella piacevole scoperta.
Isabelle era molto carina, ma soprattutto, sembrava una persona gentile. E se doveva passare più di sette ore in un aereo con qualcuno, era felice che quel qualcuno fosse una persona solare come sembrava la ragazza.
“Ok,” Cominciò Isabelle, mettendosi le mani sui fianchi, “Le nostre valige sono sistemate, nella speranza che non le perdano. Vuoi mangiare?”
“Sì, d’accordo.”
“Pizza?”
“Amo la pizza.”
Izzy sorrise. “Allora pizza sia.”



Mangiarono un pezzo di pizza in un bar abbastanza affollato. Seduti una di fronte all’altro e affamati come se non mangiassero da giorni, entrambi si gettarono sul loro cibo, scoprendo a loro spese quanto in realtà non fosse per nulla buono. Dopo il primo boccone, Simon fece una smorfia, come se avesse mangiato una cipolla cruda a morsi.
“Rettifico: amo la pizza, ma non questa!”
“Sì, non è molto buona.” Concordò Isabelle, inghiottendo a forza il suo primo boccone. “Anche se, se dovessi sentire i miei fratelli, ti direbbero che io la faccio anche peggio!”
Simon si lasciò scappare un sorriso, ma non rise – non voleva rischiare di offenderla. “Quanti fratelli hai?” Le chiese, per evitare di pronunciarsi sulle sue mancanti doti culinarie.
“Tre, due maggiori e uno minore. Tu, invece?”
“Io ho una sorella maggiore, Becky. Quando eravamo piccoli mi chiamava sempre bombolotto e mi usava come un Cicciobello umano. Mi prendeva in braccio e mi portava per tutta casa. Una volta mi ha fatto persino cadere, ma ha comprato il mio silenzio con cinque biscotti.” Simon giochicchiò con la sua pizza, prima di prenderne coraggiosamente un altro morso. La fame era più grande del cattivo sapore di quel cibo. “Mia madre è ancora all’oscuro di tutto e sono passati anni, ormai.”  
Isabelle rise piano. “Lo facevo anche io con Max, il più piccolo. Me lo portavo in giro per casa, mentre Alec, il maggiore di tutti, mi seguiva dicendomi di fare attenzione, o l’avrei fatto cadere.”
“E ti è mai caduto?”
“Fortunatamente no.”
“Questo è un bene.”
Izzy annuì e bevve un sorso d’acqua per tentare di scacciare via il saporaccio della pizza. Mancavano ancora tre ore al loro volo ed erano appena le otto e mezza di sera. Avrebbero passato ancora molto tempo insieme e ad Isabelle l’idea piaceva. Non sapeva come mai, dal momento che Simon era poco più che uno sconosciuto, ma si trovava bene con lui. Le trasmetteva un’aura positiva che la faceva sentire a proprio agio, quasi come se, in realtà, si conoscessero da sempre.
Lo osservò mentre, con coraggio, si calava di nuovo sulla sua pizza e ne prendeva un morso. Il suo viso si accartocciò in un’espressione quasi disgustata e allora Isabelle ebbe un’idea.
“Basta mangiare questa orribile pizza! Se con il salato non siamo stati fortunati, tenteremo con il dolce!”
Simon sorrise, trovandosi pienamente d’accordo, e si alzò dal tavolo, seguito da Isabelle. Pagarono entrambi la loro triste consumazione, prima di uscire da quel bar e gettarsi alla ricerca di qualcosa che servisse dolci.
“Di cosa hai voglia?” domandò Simon, mentre camminavano e si guardavano intorno.
Isabelle ci pensò su. Non aveva qualcosa di particolare, in mente. I dolci, in generale, le piacevano tutti, quindi decise di far scegliere al ragazzo.
“Decidi tu, per me va bene tutto.”
“Muffin? Crostata? Ciambelle? C’è così tanto da scegliere. È uno dei miei problemi: non so mai decidere che cosa prendere da mangiare.”
“E poi finisci sempre a mangiare la stessa cosa che prendi da anni perché non hai saputo scegliere?”
Simon la guardò con comprensione. “Esatto! Anche tu?”
Izzy annuì. “Una volta, io e Jace, l’altro mio fratello, siamo andati a fare colazione insieme. Ha ordinato lui e io mi sono così arrabbiata. Gli ho detto che non poteva scegliere per me e lui, con tutta la serietà e tranquillità del mondo, mi ha fissata dritta negli occhi e mi ha detto Izzy, tanto prendi sempre le stesse cose. Non me la sono sentita di negare, o di continuare ad essere arrabbiata, perché era la pura verità!”
Simon ridacchiò. “Allora dimmi, Isabelle, cosa prendi di solito?”
“Muffin al cioccolato e caffè alla nocciola.”
Simon la guardò con gli occhi luminosi, come se le sue iridi fossero state improvvisamente coperte di tante piccole stelline. “Io adoro il caffè alla nocciola. E i muffin,” si affrettò ad aggiungere, quasi non volesse ferire i sentimenti di quei dolcetti, “Ma il caffè alla nocciola… lo prendo sempre e tutte le volte, i miei amici mi dicono è troppo dolce, Simon, come diavolo fai a berlo?”
“Ma in realtà non sanno che si perdono.”
“Parole sante. Il caffè alla nocciola è un dono del Cielo.”
“Pura ambrosia.” Aggiunse Isabelle, con un sorriso, che Simon ricambiò. Le sembrava una cosa così sciocca, perché una situazione simile poteva essere degna solo di un film romantico, o di una di quelle commedie natalizie dove un fortuito imprevisto porta a qualcosa di speciale, ma… Simon le piaceva. Era simpatico, con un umorismo strano tutto suo, e il suo modo di gesticolare quando parlava lo rendeva adorabile.
“Cerchiamo qualcuno che ce lo faccia?” domandò Simon, davanti al silenzio di Isabelle. La ragazza annuì e continuarono la loro ricerca.
Mentre camminavano, Isabelle non poté fare a meno di pensare che era strano che di tutti i posti a NY in cui il destino avrebbe potuto farli incontrare, si erano conosciuti in un aeroporto parigino. Forse Simon non era di NY, forse era solo di passaggio in quella città. Decise di chiederglielo.
“Cosa ci vai a fare a New York?”
“Oh, torno a casa. Sai, dalla mia famiglia, i miei amici, la mia band.”
“Hai una band?”
Simon annuì. “I Rock Solid Panda.” Alzò un indice, come a volerla bloccare sul nascere, “Non ridere del nome.”
Izzy alzò le mani in segno di resa. “Non rido,” anche se una parte di lei avrebbe voluto farlo, non lo fece per rispetto di Simon, “Ammetti però che è un nome molto particolare.”
“Lo è, infatti. L’abbiamo scelto di proposito: più un nome è strano, più rimane in mente.”
“Teoria interessante.” Commentò, “E cosa ci facevi qui a Parigi?”
“Uno scopritore di talenti ha visto uno dei nostri video su YouTube, ha detto che gli siamo piaciuti e possiamo avere del potenziale. Voleva parlare con uno di noi e quindi abbiamo scritto i nostri nomi sui foglietti e ne abbiamo estratto uno a caso. Indovina chi è uscito!” Simon indicò se stesso con entrambi i pollici ed Isabelle ridacchiò.
“E com’è andata?”
Simon fece spallucce. “Abbastanza bene, credo. Ha detto che verrà a New York per sentirci dal vivo, quindi ci dobbiamo preparare.”
“In quanti siete?” Chiese Isabelle, sempre più interessata e curiosa.
“In quattro: io, Jordan, Clary e Maia. Jordan alla batteria, Clary canta, e Maia al basso. Io suono la chitarra e un po’ il piano, ma principalmente chitarra.”
Isabelle, a quelle parole, ebbe un’idea. “Perché non suoni qualcosa? Ho visto un pianoforte, vicino al bar dove eravamo prima.”
Simon arrossì. “Oh, n-non lo so, i-io non sono molto bravo al piano, sto imparando…”
Isabelle si mise davanti a lui, bloccandogli la strada. Gli afferrò d’istinto le mani, stringendole nelle sue. “Dai, per favore!”
Simon sussultò per quel contatto improvviso e una piccola scossa elettrica attraversò il suo corpo. Le mani di Isabelle, piccole rispetto alle sue, erano calde e curate. La pelle era liscia e molto chiara, le unghie erano corte, ma precise, ed erano colorate di nero. Simon notò anche un piccolo anello, un semplice cerchietto d’argento molto fine, al dito medio della mano destra.
Quando rialzò lo sguardo sul viso di Isabelle, trovò i suoi occhi che lo guardavano in modo incoraggiante. Isabelle aveva degli occhi bellissimi e lui lo notava solo adesso. Se ad una prima occhiata le era sembrata carina, guardandola meglio si rese conto di quanto in realtà fosse bella. Isabelle aveva un viso affusolato, i suoi occhi erano neri e profondi, leggermente truccati e dalla forma allungata come una cerbiatta; le ciglia lunghe e scure si incurvavano verso l’alto e Simon non sapeva dire se fosse un effetto del mascara o fossero così di natura. Aveva un bel naso, dritto la cui punta si alzava leggermente, e labbra piene e rosse di rossetto.
“D’accordo, suonerò.”
Isabelle lasciò le sue mani per riuscire ad applaudire con le proprie. “Grazie!”
E detto questo, accantonarono momentaneamente l’idea del caffè per dirigersi verso il pianoforte.


Simon non era mai stato spaventato da uno strumento musicale come in quel momento. Amava la musica – si poteva dire che fosse la sua scelta di vita. Ricorda ancora le discussioni infinite, quando aveva finito il liceo e aveva confessato a sua mamma che voleva studiare al conservatorio e non economia. Era stata una battaglia tosta, far valere le sue ragioni non era stato facile perché ad ogni argomento che lui avanzava, sua madre rispondeva sempre con la musica non ti darà da mangiare, Simon.
La musica non era una certezza, Simon se l’era sentito ripetere un sacco di volte. Gli artisti che sfondano sono pochissimi e questo lui lo sapeva bene.
Era un sognatore, non un illuso.
Ma per quanto potesse essere difficile, per quanto i periodi di magra fossero abbastanza frequenti, la svolta era arrivata. Lui e gli altri avevano perseverato, avevano inseguito il loro sogno – uniti da quel desiderio comune di creare musica, diffonderla – ed erano stati premiati.
La fortuna aiuta gli audaci, e Simon sapeva che lui e i suoi amici lo erano stati abbastanza da ricevere almeno un piccolo bacio sulla guancia dalla dea bendata sotto forma di uno scopritore di talenti francese che era stato colpito dal loro stile.
Era una sensazione piacevole.
Meno piacevole era dover suonare uno strumento con cui Simon aveva poca confidenza davanti ad una ragazza appena conosciuta.
L’ultima cosa che voleva era fare la figura dell’idiota.
“Non ti prometto niente.” Disse sedendosi al pianoforte adesso vuoto. Improvvisamente, sentì centinaia di occhi su di sé, come se ogni singolo individuo in attesa del proprio volo non avesse di meglio da fare che guardare il povero Simon. Deglutì e decise di concentrarsi solo sui tasti.
“Sono sicura che sarai bravo, invece.”
Di certo, Simon apprezzava la fiducia.
Mosse le dita velocemente in aria, quasi come se volesse scaldarle, prima di appoggiarle sopra ai tasti e cominciare a suonare. All’inizio, l’agitazione lo fece sbagliare, ma poi una volta preso il via, le sue dita si mossero sui tasti con un’agilità che stupì persino se stesso. Stava suonando e senza titubanza alcuna. Non sbagliava più. E questa sua sicurezza si portò dietro una buona dose di coraggio, tanto che Simon iniziò persino a cantare.
Nel mio cuore sento un odore amaro di limone che non va via, non potrò tornare a casa finché non smette di piovere. Anche ora, tu sei la mia luce.(1)
Simon arrossì leggermente mentre cantava quell’ultimo pezzo e sentì chiaramente l’emozione stringergli la gola, per cui decise di continuare a suonare senza cantare la strofa successiva. La sicurezza che l’aveva invaso prima si era smussata un tantino, quindi decise che avrebbe solo continuato a suonare.
E quando arrivò alla fine, rimase qualche istante con le mani ferme sui tasti, prima di alzare lo sguardo su Isabelle, che l’aveva ascoltato – rapita e in silenzio – per tutto il tempo.
Aveva un luccichio negli occhi che fece attorcigliare le già agitate budella di Simon, ma decise di non prestarci troppa attenzione.
“Sei stato bravissimo.”
E quelle parole gli fecero così piacere, che Simon non percepì altro, nemmeno lo scroscio di applausi che era partito dagli altri ascoltatori.



Un’ora dopo lo spettacolo improvvisato di Simon, i due si trovavano in un altro bar, dove erano finalmente riusciti a trovare muffin e caffè alla nocciola.
Seduti una di fronte all’altro, mangiavano i loro muffin in silenzio, fino a quando Isabelle non lo ruppe.
“Perché non canti? Nella tua band, intendo.”
Simon fece spallucce. “A volte lo faccio, ma Clary è molto più brava di me. Io faccio i cori. La mia vera vocazione è la chitarra.”
“Io credo che la tua vocazione sia la musica in generale, Simon. Penso tu abbia una specie di dono musicale.”
Simon arrossì e abbassò lo sguardo sul suo muffin. Se avesse potuto affondarci la faccia, l’avrebbe fatto. Non sapeva reggerli, i complimenti, di nessun genere.
“I-io, b-beh i-io…” Farfugliò, poi si diede mentalmente dell’imbranato e decise di arrendersi. “Grazie.” Finì col dire semplicemente. “La musica mi è piaciuta fin da quando ero bambino, ma mia madre non pensava fosse la strada giusta per me. Diceva che dovevo buttarmi su qualcosa di più concreto. Voleva che prendessi economia, al college, ma io sapevo che non era la mia strada. Sarei stato infelice e… la vita non è fatta per essere infelici.”
Solo allora alzò di nuovo lo sguardo su Isabelle, certo che il suo rossore iniziale fosse svanito. Trovò sul viso della ragazza un sorriso luminoso e… complice, in qualche modo, come se lei sapesse esattamente di cosa stesse parlando.
“È capitato anche a te?” le chiese, curioso.
Isabelle annuì. “Sono una fotografa di moda. All’inizio, da bambina, volevo fare la stilista, ma poi ho scoperto che non so né cucire, né disegnare. Passata la delusione iniziale, ho capito che comunque non avrei mai rinunciato alla moda, era la mia passione e volevo averci a che fare il più possibile. Così ho provato la fotografia e ho scoperto che ero bravina.” Si fermò e sorrise teneramente, prima di continuare. “Beh, Alec direbbe bravissima, ma lui è di parte. Comunque, quando ho detto che avrei voluto studiare per diventare fotografa professionista, dopo il liceo, i miei genitori non l’hanno presa benissimo. Ci sono state un sacco di discussioni, prima che arrivassero a capire il mio punto di vista.”
Simon annuì, comprendendola in pieno. “Ti sei mai pentita?”
“No. Non è stato facile. Ho avuto a che fare con tantissime delusioni, ma ce l’ho fatta. Sono esattamente dove voglio essere. E tu?”
Simon negò con il capo. “Nemmeno io. Nonostante le porte in faccia, quello che faccio mi rende felice. Anche se non fossimo stati notati da nessuno, avremmo comunque continuato a suonare nei pub la sera e di giorno avrei continuato ad insegnare chitarra ai ragazzini. Mi piace il mio lavoro.”
Isabelle sorride. “Scommetto che sei anche bravo nel tuo lavoro.”
Simon fece spallucce e, dopo aver raccolto una buona dose di coraggio, decise di buttarsi: “Potresti… sì, un giorno, se ne hai voglia… potresti venire a sentirm-sentirci suonare.”
Isabelle annuì con vigore, un sorriso le tirava il viso da orecchio ad orecchio. “Mi piacerebbe moltissimo. Potrei farvi anche qualche foto, magari per lasciarle al pezzo grosso della musica.”
“Lo faresti?” le chiese stupito.
“Certo.”
“Ti pagheremo, però. Non devi lavorare gratis.”
“Non se ne parla. Non lo vedo come un lavoro, Simon, è più un favore.”
Simon era davvero felice. “Grazie, allora.” Le disse, grato. “Dopo questo tuo atto di generosità, posso offrirti la nostra cena a base di muffin e caffè?”
Isabelle ridacchiò e non fu capace a dirgli di no – non quando Simon sorrideva in quel modo dolce e un po’ impacciato.
Dopo aver pagato, uscirono da quel bar e si rimisero in cammino, girando per i vari negozi e chiacchierando spensierati.
Il tempo passa davvero più in fretta, se siamo con qualcuno che ci piace.




“Immagina se rimassi bloccata per sempre in un unico posto. Quale sarebbe?” Domandò Simon, mentre sfilava dal pacchetto di caramelle un verme gommoso.
Erano seduti vicini, in due sedie, nelle zone d’attesa vicino ai gate. Mancava solo un’ora e mezza al loro volo, quindi avevano deciso di terminare la loro attesa lì.
Isabelle aveva sbadigliato più di una volta e Simon per aiutarla a scacciare la sonnolenza aveva proposto una buona dose di zuccheri e un gioco per distrarla.
L’accoppiata della distrazione – così l’aveva ribattezzata Simon – consisteva nel gioco delle domande e caramelle.  
Isabelle dal sacchetto ne prese una a forma di fragola. “Un supermercato. È comodo. C’è tutto: cibo, acqua, prodotti per lavarmi.”
“Ma non c’è un letto.”
“Ma vendono coperte. E tende per il campeggio. Potrei benissimo costruire un letto improvvisato con queste cose.”
Simon rise e finì il suo verme gommoso. “D’accordo, Bear Grylls, hai vinto tu.”
Izzy batté le mani vittoriosa, tenendo la caramella ferma tra i denti. “E tu, invece? Che posto sceglieresti?”
Simon parve pensarci su. Si guardò intorno, picchiettandosi teatralmente sul mento. “Un aeroporto. C’è cibo, acqua, un bagno, e potrei risolvere il problema del cambio vestiti trafugando nelle valige altrui!”
Izzy scoppiò in una risata. “Simon! Non ti facevo un ladruncolo!”
“Sono un fuorilegge, bambina.” Commentò lui, cercando di assomigliare il più possibile ad un cowboy del vecchio e selvaggio west e di non sentirsi troppo in imbarazzo per quell’uscita. Voleva davvero mostrarsi sicuro di sé, impavido persino, ma la verità era che davanti ad Isabelle si sentiva come se lei fosse Jessica Rabbit e lui Roger. Una piccola parte del suo cervello gli disse che avevano finito per sposarsi, quei due, e che sebbene fossero all’apparenza incompatibili, lo erano sotto ogni punto di vista che in realtà contasse davvero. Roger e Jessica erano le due facce della stessa medaglia – così diversi, ma che funzionavano alla perfezione, come gli ingranaggi di un orologio, due pezzi di puzzle che vanno a completare la figura sebbene non siano uguali. E forse – anzi, sicuramente continuò a suggerirgli il suo cervello so-tutto-io – stava correndo un po’ troppo, ma… aveva una strana sensazione, dentro. Era quasi come se in cuor suo, in una remota zona del suo essere, stesse nascendo la certezza che si sarebbero rivisti, che avrebbero riparlato, che avrebbe continuato a conoscerla.
Isabelle lo guardò di traverso, cercando di trattenere un sorriso che, nonostante i suoi sforzi le aprì il viso e si sporse per prendere un’altra caramella. Era a forma di mela verde.
“E se ti capitassero vestiti da donna, signor fuorilegge?”
“Li indosserei con quanta più femminilità possibile!” Esclamò Simon, fiero della sua risposta, azzannando una caramella a forma di ciliegia.
Isabelle scoppiò a ridere. “Ti vorrei proprio vedere con un vestito!”
“Rimarresti piacevolmente colpita dalle mie gambe, signorina. Ho tutte le misure da vera modella!”
La risata di Isabelle aumentò, tanto che alcuni passanti la guardarono persino male, ma né a lei né a Simon importò granché.
Lei si stava davvero divertendo, il malumore iniziale provato per la notizia del ritardo era sparito totalmente da ore, e Simon… a Simon, dal canto suo, sembrava piacesse estremamente farla ridere. C’era un che di contagioso e luminoso nella risata di Isabelle, così spontanea e cristallina.
“Ti fotograferei, come una vera modella.”
“Mi pare giusto,” Annuì Simon, prendendo una caramella a forma di ananas. “Se qualcuno deve lanciare la mia carriera nella moda, voglio che sia tu a farlo.”
Isabelle ridacchiò, scuotendo la testa e prendendo una caramella. Le capitò un verme gommoso giallo e lo addentò.
“Però niente photoshop, voglio che il mondo veda anche i miei difetti. È giusto trasmettere un messaggio di accettazione verso noi stessi.”
Ad Isabelle quella filosofia piacque. “D’accordo, anche se, comunque, non avrei usato photoshop in ogni caso. Hai un bel viso.” Lo disse con una semplicità disarmante, non c’era malizia nella sua voce, stava semplicemente esternando un pensiero, ma quelle parole fecero comunque arrossire Simon fino alle orecchie. Abbassò lo sguardo sulle sue mani, dandosi per l’ennesima volta dell’imbranato. Avrebbe voluto risponderle con un diretto anche tu, oppure buttarsi di più e azzardare un sei bellissima, Isabelle, ma non lo fece. Si limitò a pensarlo, mentre si fissava le mani e sentiva il viso caldo.
Isabelle notò quella reazione e si affrettò a scusarsi. “Non volevo metterti in imbarazzo, Simon, scusami se ho detto qualcosa che ti ha disturbato.”
Simon, nonostante tutto, si trovò a sorridere davanti a tanto tatto. “Ma no, non hai detto niente di male, anzi. Io… non sono abituato ai complimenti diretti. O a rispondere ai complimenti. Se lo fossi, avrei trovato il coraggio di dirti che anche tu hai un bel viso.”
Isabelle sorrise e gli appoggiò delicatamente due dita sotto al mento per fargli alzare il viso. “L’hai appena fatto.” gli disse, quando i loro sguardi si incrociarono di nuovo.
“È vero,” si rese conto Simon, “Spero solo che adesso non penserai che sono un tizio inquietante.”
Isabelle rise. “Assolutamente no, Simon.”
Lui fece finta di asciugarsi la fronte. “Meno male!” Le sorrise e lei ricambiò quel sorriso. Rimasero un attimo a guardarsi, in silenzio, convinti che questa bolla in cui erano finiti sarebbe esplosa una volta tornati alla realtà. Era troppo bello per essere vero. Era una coincidenza troppo fortunata perché loro potessero continuare ad essere anche nella vita di tutti i giorni ciò che erano dentro a quell’aeroporto. Compatibili a prima vista, eppure così diversi.
Isabelle, sebbene quel pensiero risultasse folle, non poté fare a meno di pensare ad Alec e Magnus. Anche loro erano stati compatibili a prima vista, sebbene avessero due caratteri completamente opposti, e adesso lei stava tornando a casa per partecipare al loro matrimonio.
Forse, si disse, le coppie migliori sono quelle che non ti aspetti.
Forse, tutti i suoi rapporti avevano fallito perché aveva cercato persone sbagliate.
O forse, le sue relazioni erano tutte finite perché certe cose non devi cercarle, ma aspettarle. Sono certe emozioni che trovano te, e non il contrario.
Si sentì davvero folle ad associare un pensiero simile ad ragazzo appena conosciuto, ma forse, avrebbe scoperto se poteva avere ragione facendo un passo alla volta. Magari poteva prima chiedergli di uscire e poi capire effettivamente se avessero potuto funzionare, diventare qualcosa di più.
“Simon, una volta che saremmo tornati a New York…” Fece una pausa aspettando che lui la guardasse. “Ti andrebbe di uscire con me?”
Simon, gli occhi incatenati a quelli carbone di Isabelle, non riuscì a trattenere un sorriso euforico. “Un appuntamento vero? Senza la scusa di venirmi a vedere suonare o fare foto per la band?”
Isabelle ridacchiò. “Esatto. Solo io e te.”
“Mi piacerebbe moltissimo!” E non si sa con quale coraggio, ma si sporse leggermente verso di lei per lasciarle un bacio sulla guancia. Un gesto che stupì piacevolmente Isabelle, al punto che le sue guance si colorarono di un intenso rosa.
Si guardarono in silenzio, lasciando che quel gesto aleggiasse tra di loro per qualche istante, quasi volessero evitare di rovinare la sua spontaneità con le parole.
Ma poi una voce metallica interruppe quel momento, annunciando l’apertura dei gate e le chiamate per i singoli voli.
“L’attesa è finita.” Annunciò Simon.
Izzy annuì. “Però è stata piacevole.”
Simon le sorrise e si alzò, offrendole una mano per aiutarla ad alzarsi – una mera scusa per avere un minimo contatto, pienamente consapevole che Isabelle non aveva davvero bisogno di aiuto per un gesto così elementare. Lei comunque afferrò la sua mano e si alzò, sorridendogli. Una volta in piedi, interruppero quel piccolo contatto, ma rimasero l’uno accanto all’altra e si diressero verso il loro gate. Rimasero in fila circa un quarto d’ora, del quale approfittarono per scambiarsi – finalmente – i numeri di telefono e continuare il gioco delle domande.
Una volta saliti sull’aereo si sistemarono ai loro posti: Isabelle vicino al finestrino, Simon accanto a lei.
“Domanda: hai paura dell’altezza?”
“No,” rispose lei, “E tu?”
Simon negò con il capo.
“E di cosa hai paura?”
“Dei laghi. Mi inquietano. Non sai mai cosa c’è davvero nei fondali.”
Izzy annuì, come se prendesse nota di quell’informazione e in un certo senso la condividesse. “Io ho il terrore dei topi. Mi disgustano. E lo so che suona come un clamoroso cliché da ragazza.”
“Siamo tutti fatti di cliché, a modo nostro.”
“Vero,” concordò Isabelle.
La loro conversazione venne interrotta dal segnale luminoso che diceva di allacciare le cinture, poi una hostess cominciò a indicare le uscite di sicurezza e il protocollo da seguire in caso fosse successo qualcosa. Intanto dagli altoparlanti usciva una voce registrata che spiegò le stesse cose in inglese, francese, tedesco e un’altra lingua che né Simon né Isabelle riconobbero. Rimasero in silenzio ad ascoltare e osservare la hostess, poi l’aereo decollò. Dopo qualche minuto di volo, entrambi si addormentarono, troppo stanchi per riuscire a fare altro.


Ore dopo, il primo a svegliarsi fu Simon. Sorrise, quando si rese conto che il peso sulla sua spalla era la testa di Isabelle, che dormiva ancora, tranquilla e rilassata. Decise di rimanere immobile per non rischiare di svegliarla e guardò fuori dal finestrino. Il sole stava sorgendo e l’alba illuminava le nuvole di un tenue color arancio e rosa. New York si vedeva in lontananza e il pilota aveva già iniziato la manovra di atterraggio.
Era stata un’esperienza quasi surreale, degna di qualsiasi film o libro romantico. Simon faceva persino fatica a credere che non fosse tutto un bellissimo sogno, ma Isabelle al suo fianco, il contatto con la sua spalla e il suo profumo che gli invadeva piacevolmente le narici, gli dimostravano il contrario. Lei era reale, e questo pensiero gli fece accelerare il battito cardiaco.
L’avrebbe rivista.
L’avrebbe conosciuta meglio.
E Simon, davvero, non vedeva l’ora.  

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Shadowhunters / Vai alla pagina dell'autore: Roscoe24