Anime & Manga > Yu-gi-oh serie > Yu-Gi-Oh! ZEXAL
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Autore: dispatia    21/12/2019    0 recensioni
[riscrittura della mia ff del 2015 "Un anno da incubo, ovvero: quando un fratello pestifero non è abbastanza" ; just for fun!]
Fin dove può arrivare l'odio di un essere umano per altri esseri umani? Quanto è profondo il baratro della follia, quando ci cadi dentro per brama di vendetta?
Quanto può distorcersi la visione del mondo, prima di spezzarsi?
Amaaris pensava di averlo capito quando per la prima volta si era affacciata sull'enorme mare della guerra. Dopo più di una vita passata col fratello, legati da un'alleanza violenta e immorale nei secoli, credeva finalmente di aver trovato la pace, di essersi guadagnata la sua vita normale. Ma doveva ancora capire come la realtà trovasse sempre un modo di rigirarsi, ferire, e complicare le cose; come la ruota girasse così in fretta da farla passare in una settimana da una normale studentessa liceale a membro di un corpo speciale, in una disperata corsa contro il tempo per salvare tutto ciò che le rimaneva, per non ritrovarsi ancora una volta con un pugno di cenere in mano…
(MOMENTANEAMENTE IN PAUSA)
Genere: Angst, Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bekuta/Vector, Nuovo personaggio, Yuma/Yuma
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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stage 1: normalità
 

« Ricapitoliamo, cosa devi fare una volta arrivata a scuola? »
Era una bella giornata di fine settembre, e il vento leggero trasportava sulla sua scia le prime foglie aranciate, accarezzandomi il viso e le gambe in un debole abbraccio prima di posarle a terra in una forma di dono; la città brillava delle prime luci del giorno in un estro di colore, e nonostante la naturale ansia della prima volta mi facesse tremare riuscivo a trovare un poco di pace nel paesaggio che mi circondava.
Fu lo schiocco di dita di mio fratello a riportarmi coi piedi per terra. Succedeva fin troppo spesso che richiamasse la mia attenzione, e non importava quanto gli ripetessi che odiavo mi trattasse come un cagnolino ammaestrato, lo faceva comunque. Detestava esageratamente non ricevere attenzione.
In effetti detestava un sacco di cose.
Sospirai, aggiustandomi una ciocca di capelli dietro alle orecchie e continuando mollemente a guardare fisso davanti a me. Volevo comunque infastidirlo, se lo meritava. Quella mattina non mi aveva svegliato e mi aveva fatto preparare con molta meno calma di quanto avrei voluto, senza contare le ore che aveva passato in bagno per rendersi presentabile. Prima o poi avrei perso la pazienza e avrei pubblicato tutte le sue foto imbarazzanti che avevo sul giornalino della scuola, solo per vedere la sua reputazione crollare.
« Sorridere, salutare, non mangiare vivo nessuno, farti fare bella figura » feci una smorfia « Almeno posso presentarmi come Stesky? »
« Assolutamente no. Pensavo avessi accettato il tuo nome a questo punto, perché continuare a usare quello? »
Arricciai il naso e non risposi, cosa che evidentemente dovette fargli pensare di avere il via libera a infastidirmi.
« Pensi che ti accetteranno di più se usi quel nome - orrendo per'altro, senza offesa -, hai paura di restare sola? »
« Vector, sta' zitto. »
Avrei tanto voluto schiaffargli il sorriso fuori dalla faccia. Alzò le mani, e calò nuovamente il silenzio. Poteva essere migliorato dai tempi in cui era un imperatore bariano con manie di onnipotenza ma non voleva dire fosse tornato ad essere Rei. Quasi mi dispiaceva non averlo mai conosciuto in quelle vesti, perché almeno per qualche mese avrei avuto accanto un fratello che non avevo costantemente voglia di uccidere.
Ad ogni modo, di fronte ai cancelli della scuola e la conseguente orda di studenti nell'ingresso mi tremò il cuore, distraendomi da qualsiasi pensiero omicida. Non avevo mai avuto occasione di indossare una divisa ufficiale o sedermi su un banco in mezzo ad altri studenti; tutta la mia vita ero stata relegata in un orfanotrofio, e non era paragonabile a come immaginavo sarebbe stata la mia vita da quel momento in poi.
« Buona fortuna sorellina » mi mormorò, talmente grondante di sarcasmo da farmi venir voglia di perdere totalmente la ragione e prenderlo a pugni seduta stante. Dovette intuire i miei pensieri perché si allontanò un paio di passi prima di voltarsi di nuovo per dirmi:
« Ah e vedi di trovarti un fidanzato. Non posso essere il ragazzo più bello della scuola con una sorella da meno. Mi rovini già la vita così com'è. »
E se ne andò prima che potessi replicare. Nella mia vita passata ne avevo fatte di cattive azioni ma non me ne veniva in mente neanche una abbastanza atroce da farmi meritare Vector come fratello maggiore.
 
Solite presentazioni di convenienza, solito inchino, solito sorriso plastificato. Dio com'era faticosa una vita normale dopo anni del genere! Mi sforzavo di non ascoltare i commenti sul mio conto, ma ogni volta che mi sentivo paragonata a "quel demonio" mi veniva voglia di urlare. Non mi somigliava neanche, la natura gli aveva donato dei misteriosi capelli arancioni, che io non avevo, e chiaramente più fascino data la quantità di commenti sul mio essere "piccolina" e "beh suo fratello deve aver preso tutto"... non che si sbagliassero su nulla, ma questo non lo rendeva meno umiliante, per quanto Vector potesse avermi temprata.
Mi tirai su dall'inchino e il professore mi sorrise, incoraggiante.
« Siamo molto felici di averti fra noi, Amaaris. Siediti pure accanto a Tsukumo. » disse, e m'indicò un posto vuoto affiancato da... un altro posto vuoto.
Chiunque fosse questo "Tsukumo" doveva essere un ritardatario impressionante perché erano le otto e trentacinque, e io avevo già fatto perdere più di dieci minuti di lezione. Cercai di mostrare empatia al suo viso rassegnato e mi sedetti al mio posto, iniziando a mettere le cose al loro posto e ignorando chiunque ancora fosse abbastanza curioso da guardarmi. Speravo la smettessero presto. Al contrario di Vector, odiavo essere al centro dell'attenzione.
Tsukumo non mi era sconosciuto come cognome. Forse me lo aveva accennato qualcuno, e sembrava importante, ma proprio non riuscivo a contestualizzarlo. Stavo per guardarmi intorno nella classe per vedere se riuscivo a capire se mancava qualcuno di mia conoscenza quando la porta della classe si aprì, ed entrò qualcuno che mi fece sprofondare il cuore nello stomaco.
L'avevo mai visto a malapena nella sua forma umana, ma non mi serviva per riconoscerlo. Nash era sempre simile a se stesso, anche in una divisa del terzo anno e con l'espressione stranamente serena. E poi non aveva mai smesso di essere bello - solo per essere oggettiva, sia chiaro -, con quegli occhi color mare che quando si scontrarono con i miei ebbero l'effetto di un pugno allo stomaco.
Mi aveva riconosciuta? Per forza, mi aveva vista umana. E doveva anche ricordarsi di tutto il male che avevo fatto. Certo alla fine ci eravamo tutti uniti come un'allegra famiglia felice eppure non riuscivo a credere che davvero io e Vector fossimo stati redenti da tutti i nostri peccati così, come se nulla fosse.
Mentre io esitavo lui mi trapassò con lo sguardo tornando a guardare il professore.
« Il professor Kanade voleva parlare con lei di... » e non riuscì  finire la frase perché un fulmine indefinibile gli corse accanto e si fiondò nel posto vicino al mio, ansimando.
« Ho capito Reginald, arrivo, grazie. E Tsukumo, è possibile che tu non arrivi mai in orario? »
Se a vedere Nash il cuore mi era caduto nello stomaco, quando riconobbi chi avevo lì vicino crollò sul pavimento, e ancora più giù.
Tsukumo Yuma. Yuma. Tsukumo. Come aveva potuto passarmi di mente?
Beh questo sì che era imbarazzante. Chi era stato il mio più acerrimo nemico adesso era mio compagno di banco, ragazzo normale che si scusava per essersi svegliato tardi. Dovette accorgersi di me, perché finì di tentare di giustificarsi e si voltò, lo sguardo prima stupito e poi un po' più serio.
« Amaaris. »
« Yuma. »
Certo, non eravamo più nemici, eppure sentivo comunque una strana paura viscerale. Come se ancora ci fosse un duello in sospeso fra me e lui che avrebbe deciso la mia sorte.
Pura paranoia, ma dolorosa.
Mi sforzai di sorridergli, maledicendo ancora una volta di non avere le doti attoriali di mio fratello.
« Sai è bello vederti in un posto più piacevole di un campo di battaglia, per una volta. »
Annuì, con un sorriso decisamente più allegro e sincero del mio.
« Sì, lo è davvero. »
Mi ritrovai a giocherellare con la collana che portavo al collo, quella che mi aveva regalato mio fratello quando era venuto a prendermi dall'orfanotrofio. Non avevo idea del perché avesse deciso di farmi un dono, non era mai stato il tipo neanche da festeggiare il mio compleanno, eppure lo tenevo come la cosa più preziosa. Ovvero, il mio unico appiglio quando mi sentivo terribilmente a disagio.
« Yuma, senti ti dispiacerebbe chiamarmi Sky? O Ste, o Stesky, qualsiasi cosa non sia... quel nome, ecco. »
Mi ero voltato dall'altra parte, ma lo avvertii annuire.
« Sì, nessun problema. »
Sorrisi, stavolta per davvero, e lo ringrazia con un cenno.
 
« Sky, aspetta un attimo. »
Mi voltai, e fui accecata per qualche secondo dagli ultimi raggi del pomeriggio. Non mi ero resa conto di quanto fosse lunga una giornata scolastica fin quando non ero uscita e avevo visto le prime avvisaglie di stelle nel cielo. La mia giornata tipo, prima, finiva alle cinque per ricominciare alle sette.
Quando mi tornò la vista - ovvero, quando spostai il capo per non bruciarmi completamente la retina - mi trovai di fronte al viso di Yuma, e non aspettavo nessun'altro che lui e la sua eterna espressione positiva.
Avevo scoperto che vederlo con un'espressione che non fosse il dolore, o la rabbia, o la paura, mi piaceva. Riusciva a scaldare qualcosa dove credevo ci fosse solo una distesa di permafrost, e non mi era complesso capire perché il Destino avesse scelto lui come eroe della storia.
« Sì? »
« Ti andrebbe di andare a casa insieme? »
Dovette notare la mia espressione interrogativa, perché si aggiustò la cartella e aggiunse:
« So che abbiamo avuto un pessimo inizio, ma adesso è tutto finito ed io vorrei... sì, ecco, vorrei... » esitava, ed io non riuscivo a credere a quello che gli sarebbe uscito di bocca « Vorrei che diventassimo amici. »
« Dopo tutto quello che ho fatto? Dopo le prese in giro, il duello, mio fratello... dopo tutto tu vorresti perdonarmi? » sbottai, in un modo molto più aggressivo di quanto avessi voluto. M'interruppi, e poi abbassai lo sguardo.
« Forse tu vedi in me qualcuno di diverso, di migliore, ma io sono come mio fratello e dovresti starmi lontano. In classe volevo solo essere gentile, non sento di meritarmi la tua amicizia, non voglio più ferire nessuno. »
Potevo sentire il mio cuore incrinarsi e spezzarsi definitivamente quando mi voltai dall'altra parte. Non mi fidavo di me stessa ormai. E anche se mi fossi fidata, quando fai qualcosa te ne devi prendere le responsabilità; non potevo nascodermi dietro al fatto che mi fossi redenta all'estrema fine. Mi sembrava una scusa labile e insufficiente. E poi nessuna maledizione poteva giustificare le mie antiche mani sporche di sangue.
Stavo per andarmene quando Yuma mi afferrò il polso, costrigendomi a girarmi per guardarlo. Aveva il solito sguardo serio e determinato, così energico e fiducioso che faceva davvero male, ma sarei stata codarda a distogliere lo sguardo.
« Ti prego, sii più clemente con te stessa. » suonò come uno schiaffo, alle mie orecchie « Lascia che sia io a decidere da solo chi ne vale la pena o no. Sono certo che non mi farai del male, anche solo perché sei consapevole di non volerlo fare. »
Ci fu qualche secondo di stallo, e poi lasciò la presa, senza smettere di guardarmi. E se mi fissava con quell'espressione, con quegli occhi di rubino imploranti, la mia lingua non riusciva ad articolare un 'no'.
« D'accordo. Hai vinto. »
Era fin troppo testardo, ma questo lo sapevo già. Ripensandoci chissà perché mi ero presa la briga di opporre tanta resistenza.
Strinsi le dita sulla cartellina e gli feci cenno di andare. Il clima era mite, una traslucida luna faceva capolino fra nuvole sottili e l'odore dell'autunno mi entrava nelle narici e faceva pensare a tempi più belli persi nel tempo.
In quel momento non avrei mai immaginato la fine potesse avere un inizio così dolce.
 
Rincasai tardi quella sera. Yuma era riuscito a convincermi a restare a mangiare a casa sua. Avevo la sensazione che da quando suo padre e sua madre erano tornati l'idea di tornare da una famiglia al completo fosse per lui ancora qualcosa da elaborare, e sopratutto da condividere come gioia più grande.
Ero felice, se lo meritava, ma non riuscivo a non provare una punta di amarezza ogni volta che lo vedevo ridere e scherzare con i due. Era un pensiero sciocco e irrazionale, ma non potevo negare l'invidia che provavo a vedere lui con qualcosa di tanto caro che a me era stato negato, nella mia vecchia vita per assassinio e in questa per Destino.
Però avevo Vector.
Per quel che contava.
Mi sfilai le scarpe, mentre richiudevo la porta dietro di me. La casa era buia, eccezion fatta per la luce bluastra della televisione, accesa su una serie poliziesca di quelle scadenti, che potevano piacere solo ad una mente malata come quella di mio fratello. Non mi presi la briga di salutare, come del resto fece lui, limitandosi a scoccarmi un'occhiata indecifrabile quando passai davanti a lui per andare a prendere da bere in cucina.
Era evidente che era di cattivo umore. Era facile capirlo. Si sdraiava da qualche parte e mi guardava strano finché non mi sedevo accanto a lui e aspettavo mi dicesse cosa non andava. Funzionava davvero come un bambino, specialmente adesso che aveva molte meno responsabilità di conquista mondiale sulle spalle e cose simili. Presi il mio bicchiere, lo riempii degli ultimi sgoccioli di Coca-Cola che ci erano rimasti nel frigo, e mi sedetti in terra, la testa contro il bracciolo del divano.
Non ci mise molto a decidersi a parlare; bastò che arrivasse la pausa pubblicitaria nel mezzo di una sorta di tristissimo cliffhanger sulla vera identità dell'assasino. Bevvi un paio di sorsi e lo guardai inarcando un sopracciglio, a dirgli "Beh?", senza lasciargli più molte altre scuse.
« Oggi hai visto Nash, vero? »
Gli allungai il bicchiere, praticamente vuoto, annuendo per quanto in quella penombra difficilmente poteva notarlo.
« Doveva chiamare fuori il prof. Perchè? »
« Abbiamo parlato di te. »
Oh, questo era interessante. Drizzai le antenne, torcendomi per guardarlo in volto anche da giù.
« Perché? »
« Vorrebbe parlarti di qualcosa che non ti riguarda, e siamo finiti a litigare. »
« Se non mi riguardasse non me ne vorrebbe parlare. »
Mi scoccò un'occhiata che mi intimava vivamente di restare al mio posto e smettere di rispondergli. Mi stava trattando come una bambina per l'ennesima volta, ed ero stanca di lasciarglielo fare.
« Cos'è che dovrei sapere che tu non vuoi io sappia Vector? »
Mi ripassò il bicchiere, ma questo non mi distrasse dal mantenere gli occhi inchiodati sui suoi.
« Avevamo promesso di non mentirci mai più. »
« Infatti non sto mentendo. »
« Non mi stai neanche dicendo la verità, però. »
Mi ero alzata, lasciando il vetro sporco a terra. Perché doveva sempre dirmi le cose a metà? Perché non si fidava mai di me?
Non mi rispose.
Tornò a guardare quello stupido programma, ed io, cercando di sbollire la rabbia, salii in camera mia, fingendo con me stessa che questa situazione non fosse un cannovaccio che recitavamo da anni. Mio fratello mi parlava se qualcosa non andava ma si aspettava che mi accontentassi del minimo indispensabile.
Avrei tanto voluto odiarlo come gli altri, alle volte. Che quella rabbia momentanea non svanisse in un'ora, che fossi capace di tenergli rancore.
Mi gettai sul letto, spegnendo la luce. Avrei tanto voluto non sapere di lui tutto quello che sapevo.
Come tutte le notti, mi svegliai urlando per gli incubi e tremando per la paura, la pelle bagnata di sudore e il buio intorno a me come una cappa soffocante.
Sempre la solita storia. Sempre la solita paura.
La guerra passava, ma lasciava i suoi segni.
Presi a tentoni la borraccia dal comodino, benedicendo l'acqua fredda che mi scendeva nella gola e allontanava gli ultimi brandelli di sonno. Il mio coniglio di peluche, Kira, mi fissava inquisitorio dal pavimento, e quando mi chinai per prenderlo mi accorsi che nel buio riuscivo ancora a ipotizzare senza smentita che non fosse stato un sogno, e che se avessi avvicinato le mani al viso avrei sentito quel familiare odore metallico. Chiusi gli occhi per bloccare via quei pensieri, riposi quel mio ultimo ricordo d'infanzia di fianco a me sul letto, e alla fine mi rannicchiai davanti alla finestra, posando il viso sul vetro gelido e concentrandomi unicamente sulla condensa semi-trasparente che si allargava e rimpiccioliva al ritmo dei miei respiri, finché non mi calmai. Socchiusi gli occhi, finché tutto non perse i propri contorni tranne la forma scura e vaga delle mie ciglia.
Non avrei più colpito nessuno. Sarei stata normale, avrei vissuto la vita che avevo sempre sognato.
Non era più il tempo di esitare.



 
« A te, Amaaris, che hai spiato qualcosa di più grande e incomprensibile di te, regalo la stessa sorte di tuo fratello. Che nella vita, nella morte, nella tragedia, nel lento digradare della mente nell'oblìo, non vi separiate mai. »
La ragazzina tremava, ancora aggrappata a quella porta come se davvero bastasse a proteggerla da due corpi morti e suo fratello con una spada in mano. Tremava, e sperava che chiudendo gli occhi li avrebbe riaperti su quel prato dove l'aveva portata una volta, dove le aveva mormorato:
"Creerò un mondo di pace dove tu non debba lottare, sorellina".
Ma invece li tenne spalancati, si impresse il marcio nel cervello, e quando sui suoi ricordi cadde un panno lo avvertì come una benedizione, poiché la difendeva dal dover razionalizzare.
Sorrise, sorrise all'idea di un mare di sangue, sorrise ai suoi sciocchi sogni di pace, sorrise alle carezze della madre e agli schiaffi del padre.
Sorrise, mentre cadeva in ginocchio per terra, mentre Vector la guardava negli occhi con lo stesso fuoco che consumava l'anima e il corpo, e ancora mentre senza dire una parola sancivano un patto d'acciaio.
Poi per anni non sorrise più.
Finché per la prima volta la lama del coltello non si rivoltò contro di lei.


 
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note dell'autrice
E
hilà, era un pezzo che non pubblicavo eh?
Non così tanto in realtà, sopratutto rispetto a tempi passati, ma ormai per me aggiornare ogni morte di papa è abitudine.
In ogni caso, sono tornata con una riscrittura! Yay! (Anche no).
Quello che leggete qui sopra è frutto di intenso lavoro di rielaborazione della prima storia che io abbia mai pubblicato su efp, nell'ormai lontano 2015. Il testo originale è di una bruttezza aberrante, ma ho riscoperto un certo amore per questa storia, e avverto una sorta di obbligo morale nei suoi confronti. Non credo sarà lunghissima, ma neanchetroppo breve, e conto di pubblicarla interamente questa volta. Una questione d'orgoglio.
Infine, non siate troppo duri con me. Non ho mai scritto in prima persona, e si adatta al mio stile come la carta vetrata ad una pubblicità della Durex. Giuro che per me è una fatica bestiale; se leggete qualcos'altro di mio noterete indubbiamente una differenza abissale :,
Nota finale: Il nome "Amaaris" è una storpiatura di "Imaris" il nome che gli arabi davano alla Stella Polare, ovvero la stella principale della costellazione dell'orsa minore (Sempre stando ai miei appunti dell'anno scorso, pregando siano corretti). Se non lo sapevate, i sette nomi degli imperatori bariani sono i nomi delle sette stelle della costellazione dell'orsa maggiore, e mi sembrava carino mantenere la tradizione. Il motivo per il quale ho mantenuto un nome ridicolo come "Stesky" come nome umano è per puro spirito di nostalgia. Mi sarebbe dispiaciuto troppo cancellarlo.

(PS: Se qualcuno che ha letto la storia originale ha sensazioni di de-ja vu, non siete pazzi; ho ripreso alcuni pezzi quasi pari-pari, perché li ritenevo sufficientemente iconici. Incluso, ad esempio, l'inizio stesso della storia.)
   
 
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