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Autore: Darlene_    25/12/2019    14 recensioni
Josh e Chris, due fratelli, un unico destino.
Cosa nasconde lo studio del padre, perennemente chiuso a chiave? Josh, a cui mancano poche settimane di vita, decide di varcare la soglia. Lui e il fratello si ritroveranno in un nuovo mondo in cui loro sembrano essere dei perfetti estranei, ma le sorprese sono dietro l'angolo e una serie di avventure si prospettano per loro.
Genere: Angst, Avventura, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le avventure dei fratelli Atwood'
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VIAGGIO A GREENHILLS






CAPITOLO 

I


 





Fu la luce improvvisa a ridestarlo: un lampo giallo nel buio, che scomparve in un istante. Provò a muoversi, ma le sue gambe erano bloccate da qualcosa e invece delle parole, che avrebbe voluto pronunciare per chiedere aiuto, dalle sue labbra uscirono gemiti confusi. Voltando la testa percepì la presenza di qualcuno accanto a lui, ma non riuscì a ricordare chi fosse. Sollevò le dita della mano: erano sporche di sangue. Sentì il freddo che continuava ad avvolgerlo, mentre le palpebre diventavano sempre più pesanti. In lui si fece strada la consapevolezza che nessuno li avrebbe salvati. Tentò di liberarsi da quella morsa che gli impediva qualsiasi movimento, ma il buio lo avvolse: la fine era arrivata. 
 

 


UNA SETTIMANA DOPO 


 
 
 
La porta dell’armadietto sbatté con un rumore secco. Chris era in ritardo, ma non gli importava: sapeva che tanto lo avrebbero trattato con condiscendenza e nessuno si sarebbe preso la briga di rimproverarlo, non dopo tutto ciò che era successo nell’ultima settimana. Girò la chiave nel lucchetto e la infilò nella tasca dei jeans sbiaditi. I suoi passi risuonavano nel corridoio tirato a lucido da un efficiente bidello. Le suole non ancora consumate delle sue Converse rosse scricchiolavano e lui cercò di concentrarsi su quel rumore, provando a controllare il respiro: era agitato, non poteva negarlo. Prima di bussare alla porta dell’aula di algebra si asciugò i palmi sudati sui pantaloni, cercando di assumere la sua solita aria menefreghista.
Come previsto, la professoressa Turner non fece cenno ai dieci minuti buoni di lezione che si era perso, anzi, lo accolse con un sorriso, invitandolo ad accomodarsi. Sul suo banco vi era un bigliettino piegato in quattro; Chris si guardò intorno, cercando di capire chi, tra i suoi compagni, poteva averlo recapitato, ma avevano tutti il capo chino sui quaderni, intenti a scrivere una complessa formula matematica che, probabilmente, sarebbe stata la chiave per superare i test di qualche prestigiosa università. Chris si lasciò cadere a peso morto sulla sedia, lasciando che la bretella dello zaino scivolasse dalla sua spalla. Prese il foglietto: la calligrafia era tondeggiante, segno che si trattava del messaggio di una mano femminile, probabilmente quella di una delle sue ammiratrici segrete di cui, lui, non si era mai preso il disturbo di imparare il nome. Non voleva sembrare scortese, ma non finì nemmeno la prima riga e accartocciò il biglietto nel pugno: non desiderava parole di conforto, né messaggi di speranza, perché non c’era nulla che avrebbe potuto farlo sentire meglio. Posò la testa sul banco, fingendo di scribacchiare qualcosa sul quaderno, ma la sua mente era altrove.
 
Un brivido gli percorse la schiena quando il gel freddo venne a contatto con la sua pelle. Il soffitto era grigio. Un tempo doveva essere stato bianco, ma gli anni e lo sporco avevano lasciato una patina scura che lo rendeva sgradevole alla vista. Josh chiuse gli occhi: non voleva vedere più nulla. Sorrise: quanto era ridicola quell’affermazione? Probabilmente presto non avrebbe più potuto osservare niente, nemmeno quello squallido soffitto.
L’ecografo scorreva sul torace glabro, tracciando la linea dei pettorali.
“Puoi sollevare il braccio destro sopra la testa?” La voce della dottoressa (il cartellino la qualificava come E. Thompson) lo riportò alla realtà. Aprì gli occhi di smeraldo, lo sguardo assente. Obbedì senza nemmeno risponderle, non era il caso sprecare fiato, non ora che gliene rimaneva così poco. La donna lo osservò per qualche istante, forse persa nei suoi pensieri; suo figlio aveva pressappoco l’età di quel giovane e le si strinse il cuore all’idea che avrebbe potuto esserci lui al posto di quello sconosciuto.
“C’è qualcuno che ti accompagna? Secondo le regole non potrei far entrare nessuno, ma…”
Eccola, di nuovo, la compassione, questa volta mascherata da gentilezza; è contro il regolamento, ma tu stai morendo e meriti uno strappo alla regola, oppure: è vietato, ma io sono buona e mi fa pena lasciarti solo, posso chiamare qualcuno?
Josh sbuffò, scuotendo la testa, non voleva avere nessuno accanto, non ancora, non finché non era certo di quale sarebbe stato il suo destino. Pensò al padre, seduto nella saletta d’aspetto: riusciva quasi a vederlo, con le gambe larghe, i gomiti sulle ginocchia, le mani giunte. Probabilmente stava recitando una muta preghiera, il capo chino in segno di redenzione, eppure nessuno avrebbe potuto aiutare suo figlio.
 
“Atwood!”
Il suo cognome riecheggiò nel corridoio, ma Chris fece finta di non udirlo e cominciò a camminare più velocemente. Purtroppo Bill Higgins era un tipo piuttosto caparbio e corse da lui, stringendogli una spalla con la mano. A quel contatto Chris sobbalzò e cercò di liberarsi dalla stretta. Avrebbe voluto andarsene, ma sapeva che comportamenti strani avrebbero attirato ancor di più l’attenzione.
“Higgins.” Lo salutò senza troppo entusiasmo.
Il ragazzo dinoccolato sorrise, e avvicinandosi di più a lui disse: “Ho saputo dell’incidente, deve essere stato brutto.”
Brutto era decisamente un eufemismo.
“Già.” Chris guardò il corridoio, cercando una via di fuga.
“Fratello, se hai bisogno di qualcosa io ci sono. Sai, in queste situazioni a qualcuno interessa…” Si premette la narice con l’indice e inspirò, emulando una sniffata “Qualcosa per dimenticare.” Accennò ad un altro sorriso sulle ultime sillabe, dopo di che, probabilmente intuendo di essere stato inopportuno (o forse perché non voleva arrivare tardi in mensa dato che quel giorno era previsto il pollo) si allontanò a passo deciso.
Chris trasse un sospiro di sollievo: finalmente quell’idiota se n’era andato. Il cellulare cominciò a vibrare nella sua tasca; avrebbe voluto ignorarlo, ma dentro di lui si insinuò la paura che si trattasse di qualcosa di grave, così fece scorrere il dito sullo schermo che si illuminò mostrando il testo di un messaggio.
 
John:
TORNA A CASA
 
Ignorò il messaggio, come era suo solito fare, già pregustando l’idea di presentarsi solo all’ora di cena, ma il display si illuminò di nuovo.
 
John:
SI TRATTA DI JOSH
 
Ebbe un tremito e le sue dita, quasi inconsapevolmente, cominciarono a battere sulla tastiera.
 
A John:
DI CHE SI TRATTA?
 
Esitò un attimo prima di premere invio, poi lo mandò.
 
John:
STA SEMPRE PEGGIO, L’HO PORTATO IN OSPEDALE
L’HANNO RICOVERATO
TORNA A CASA, DOBBIAMO PARLARE
 
Le piastrelle del bagno erano fredde a contatto con la sua schiena. Era seduto a terra, la testa incastrata tra le ginocchia, una lacrima solitaria solcò la sua guancia. Josh stava male, ed era tutta colpa sua.
 
A John:
QUANDO LO DIMETTONO?
 
Temeva di scoprire la risposta che, in effetti, non tardò ad arrivare.
 
John:
TORNA A CASA, NE PARLIAMO DOPO
 
Trattenne un grido di rabbia. Detestava suo padre, con quei modi da soldato di ferro, ne aveva abbastanza. Non avrebbe atteso di trovarsi con lui in salotto per discutere delle condizioni di suo fratello, non voleva essere guardato con biasimo mentre gli veniva detto che la salute di Josh era peggiorata. Pigiò le lettere sul telefono.
 
A John:
QUANDO TORNA?
 
Passarono alcuni interminabili minuti.
 
John:
NON LO SO, È MOLTO GRAVE.
PER FAVORE VIENI QUI.
 
Non aspettò il consueto suono della campanella si precipitò all’uscita, cercando qualcuno disponibile a dargli un passaggio o, in alternativa, un taxi. Meno di dieci minuti dopo, un tempo record per il tassista che aveva premuto l’acceleratore a tavoletta per tutto il tragitto in cambio di una lauta mancia, Chris si ritrovò davanti alla porta di casa. All’esterno non era cambiato nulla, era sempre la solita villetta in mezzo a molte altre in una strada poco trafficata di Manhattan con tanto di prato all’inglese, ma l’idea che ad attenderlo non ci sarebbe stato il fratello gli venne un nodo in gola.
Suonò il campanello e pochi secondi dopo la porta si aprì lasciando intravedere la figura slanciata di Josh.
“Che cosa ci fai qui?” Urlò Chris.
Il maggiore lo tirò dentro afferrandolo per la felpa e chiuse la porta lanciando uno sguardo circospetto.
“Dovrei domandarlo io a te, non trovi? Non c’è lezione a quest’ora?” Lo sbeffeggiò con un sorriso stanco e tirato.
Chris non rispose, troppo concentrato a lanciargli occhiate di fuoco.
Josh alzò le mani al cielo, come per dimostrare di essersi arreso. “Ho chiamato papà, gli ho detto che avevo bisogno di lui in ospedale, ma io ero già qui, perciò abbiamo almeno mezz’ora prima che torni. Togliti dalla faccia quell’espressione da pesce lesso e seguimi.” Si staccò dallo stipite e a passo malfermo raggiunse le scale. Si appoggiò al corrimano, salendo un gradino alla volta, sostenendosi per procedere.
“Cosa?” Sbottò il minore, seguendolo. “John mi ha scritto, ha detto che stavi male… Cosa sta succedendo?”
Josh si voltò leggermente mostrandogli il viso pallido. “Parli troppo, Chris, e io oggi ho voglia di portarti all’avventura!” Rimase qualche secondo in silenzio, come a voler riprendere fiato.
Al piano superiore le porte delle camere erano tutte aperte, tranne quella dello studio paterno che, come di consueto, era sigillata. Josh estrasse un coltellino dalla tasca e cominciò ad armeggiare con la serratura.
Chris gli mise una mano sulla spalla, cercando di spingerlo via, ma l’altro era irremovibile.
“Perché vuoi forzarla?”
“Non c’è tempo per cercare le chiavi.” Borbottò continuando ad armeggiare con naturalezza, come se fosse abituato a quei lavori. Sentendo gli occhi del fratello puntati su di sé smise di trafficare. Lo afferrò per le spalle e lo guardò dritto negli occhi. “Non voglio perdere minuti preziosi, ti spiegherò tutto più tardi, ma forse dovresti sapere quello che ti sto obbligando a fare.” Prese fiato: “Sono successe tante cose in quest’ultima settimana e mi sono reso conto che non sempre tutto procede come ci aspettiamo.” Si interruppe, aspettando una reazione che però non arrivò. “Pensa.” Alzò le mani al cielo con fare teatrale. “Potremmo non essere più qui domani e non sapremmo mai cosa ci ha nascosto nostro padre per tutti questi anni!”
Chris annuì, vagamente confuso.
“Dobbiamo scoprirlo. Voglio scoprirlo.” Dopo una pausa scenica disse: “Vuoi farlo con me?”
Non era una richiesta, era una supplica: Josh aveva bisogno del minore e lui non lo avrebbe deluso, perciò acconsentì.
La porta cedette in seguito a numerose imprecazioni, qualche spinta e mute preghiere con un semplice scricchiolio, ma quello che i fratelli Atwood si trovarono davanti non aveva di certo deluso le loro aspettative.





Ciao a tutti e grazie per essere arrivati fin qui. Quasta storia è nata qualche mese fa grazie a tantissime persone che mi hanno spronato a non mollare e a credere in Josh e Chris. Ammetto di essere emozionata: è la prima volta che pubblico una long originale e questo fantasy credo sia un po' diverso da quello a cui sono abituati tutti. Spero che possa essere di vostro gradimento :)
Buon Natale!


Un grazie di cuore alla mia lettrice numero, che ogni giorno mi chiede cosa ne farò di Josh e Chris (chi lo sa), alla dolcissima Maira, che ha letto con passione questa storia e che si è innamorata dei personaggi, e a Rosita che ha creato per me questa meravigliosa ahestetic <3
  
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